SOS  L’ANDREA DORIA STA AFFONDANDO IN ATLANTICO

 

 
  FU IL PIU’ TREMENDO DISASTRO DELLA NOSTRA MARINA MERCANTILE ED UNO DEI  
  PIU’ GRAVI CHE SI SIANO MAI VERIFICATI IN OGNI TEMPO  
   
 

Quando alle 05:30 lo sbandamento della "Doria" raggiunse i 40 gradi », scrisse l'architetto navale inglese K.C. Barnaby nel suo Some Ship Dísasters and their causes, « il comandante Calamai ordinò agli ufficiali che erano ancora a bordo di abbandonare la nave nell'ultima lancia ancora a disposizione. Tutti gli altri volontari erano stati già messi in libertà. Lo stesso Calamai si lasciò convin­cere a lasciare la plancia solo quando i suoi ufficiali lo minacciarono di restare anch'essi a bordo. Dopo un'altra mezz'ora I' “Ile de France" imbarcò le proprie lance e partì per New York con 753 fortunati superstiti. Ma prima girò attorno al transatlantico agonizzante, abbassando la bandiera per tre volte e lanciando tre lunghi fischi di sirena come ultimo saluto. L’ “Andrea Doria" comunque resisteva ancora, e fu soltanto alle 10:09 che affondò ».

 
     
   

Il tragico affondamento dell'« Andrea Doria » avvenuto in Atlantico alle ore 10,09 dei 26 Luglio 1956.

     
 

Era la mattina dei 26 Luglio 1956. Si concludeva così un dramma durato undici ore, ma che avrebbe avuto un seguito di polemiche, di accuse e controaccuse durato lustri e, forse, non ancora sopito. Fu' per quel tempo il più grave sinistro marittimo  per la nostra marina mercantile e per la nostra industria navale che risorgevano allora dai disastri della guerra, fu un colpo tanto più duro, in quanto andò perduta l'ammiraglia della flotta: una nave che oltre a rappresentare il rinnovato prestigio della marineria italiana, voleva testimoniare le capacità dei nostri cantieri. Sulla vicenda, infine, e specialmente all'estero, proliferarono critiche e accuse non tutte serene e disinteressate, ed estremamente nocive.

 
     
 

Il disastro avvenne venti miglia a ovest dei battello‑faro di Nantucket, poco dopo le 23 del 25 Luglio. La nostra turbonave, che dal primo giorno di servizio era stata al comando del capitano superiore Piero Calamai, era all'ottava e ultima notte del suo quarantacinquesimo viaggio atlantico, diretta verso New York. Trasportava 1706 persone e procedeva alla velocità di oltre 21 nodi. In una serata di mare calmo, ma di nebbia fittissima, il transatlantico dell' Italia fu speronato sul lato dritto all'altezza della timoneria dalla turbo­nave passeggeri svedese «Stochkolm», di 12.165 tonnellate di stazza, che navigava a più di 19 nodi. L'unità della Svenska America Linje era comandata dal capitano Gunnar Nordensson, ma al momento del sinistro era affidata in comando di guardia al terzo ufficiale, il ventiseienne Ernst Carstens‑Johannsen. La « Stochkolm », che era al suo primo giorno di viaggio verso l'Europa, con 535 persone a bordo, fra passeggeri ed equipaggio, pur avendo perduto parte della prora, rimase a galla, partecipò alle operazioni di recupero dei naufraghi e riuscì a tornare da sola a New York. Nonostante fosse scattata immediatamente una delle più imponenti operazioni di soccorso della storia marittima, le vittime del disastro risultarono 51, di cui 5 a bordo della nave svedese.

 
     
   

In alto a sx il comandante della nave passeggeri «Stochkolm» Gunnar Nordensson ed il terzo uff. di cop. Ernst Carstens‑Johannsen. A dx la «Stochkolm» mentre entra a New York con la prora mancante.

     
 

Come si maturò e perché avvenne la collisione fra i due transatlantici? E difficile dare una risposta. Il procedimento giudiziario apertosi a New York subito dopo l'incidente, di cui, a quanto pare, sono scomparsi gli atti dagli archivi (tutto il mondo è paese), fu troncato a metà, avendo le due società armatrici deciso di addivenire a una soluzione concordata della vertenza. La commissione nominata dal nostro ministero della marina mercantile non rese mai note le proprie conclusioni, né si conosce se mai ne abbia raggiunte. Non restano che le versioni fornite dai componenti dei due equipaggi alla corte nuovaiorchese, neanch'esse complete perché il procedimento si interruppe prima ancora che s'iniziasse l'escussione del personale di macchina italiano. I libri di bordo della nostra nave andarono perduti e i soli documenti attendibili restarono i diagrammi dei tracciatori di rotta asserviti alle giro­bussole delle due unità. Mediando le due versioni, comunque, è possibile farsi un'idea della dinamica dell'incidente. Secondo le testimonianze di quelli della « Doria », la nebbia apparve a 150 miglia circa da Nantucket. Furono prese tutte le precauzioni prescritte: uso frequente dei segnali acustici, chiusura delle paratie stagne, riduzione di un 5 per cento della velocità (troppo poco, per alcuni), osservazione radar e ottica più intensa. Alle 20 in plancia c'era una certa tensione; non così nei ponti inferiori, dove tre orchestre suonavano nei saloni da ballo delle tre classi.

 
     
 

Dopo un'ora e mezza, sul radar apparve un punto luminoso e immobile, il battello‑faro; poi ne apparve un altro, questo in movimento con una rotta approssimativamente parallela a quella della « Doria » ma spostato leggermente a dritta rispetto alla prora della nostra nave. Calamai non ebbe dubbi che le due navi sarebbero filate di controbordo, ma per aumentare la distanza di sicurezza ordinò un'accostata di 4 gradi a sinistra. A questo punto occorre aprire una parentesi: le regole di navigazione, in casi simili, non sono diverse da quelle dei traffico stradale. E’ obbligatorio incrociarsi presentandosi il fianco sinistro, ma è consentito il passaggio destra contro destra quando le due navi sono a una distanza tale che una manovra per eseguire il passaggio sinistra­sinistra sarebbe pericoloso. Al momento dell'accostata della « Doria », dunque, la distanza fra le due navi era di tre‑cinque miglia (è questo un dato controverso); Calamai ritenne quindi di avere due buone ragioni per derogare alla regola accostando a sinistra. « Sentendosi sicuro della sua posizione sulla dritta della nave che si avvicinava (cioè di essere rilevato da questa sulla destra, n.d.r.) », scrive il citato Barnaby, « accostare a dritta avrebbe implicato tagliare la rotta di quella che in seguito seppe essere la "Stockolm", e insieme portare la sua nave vicino alle secche. Questa deroga alla norma del regolamento per prevenire gli abbordi in mare sarebbe stata giusta e legittima a condizione che l'altra nave non avesse cominciato in quel momento a ottemperare alla stessa regola, poggiando a dritta ».

 
     
   

T/n  "Stochkolm"

     
 

Gli svedesi invece testimoniarono di aver rilevato al radar, in quel momento, la « Doria » non nella posizione indicata dai nostri, ma molto più a nord, sicché Carstens‑Johannsen aveva pensato bene di allargarsi a dritta per maggior sicurezza. A quanto pare la « Stockolm » in quel momento non era ancora entrata nella nebbia fitta, mentre la « Doria » vi era ancora immersa. Nel giro di pochi minuti, quando le due navi furono a due miglia circa l'una dall'altra, mentre sul radar della « Doria » l'altra nave non accennava a cambiare posizione relativa, furono scorti reciprocamente i fanali di via. Le navi navigavano l'una contro l'altra a quaranta nodi relativi e nei tre minuti che restavano non poterono far altro che cercare di limitare al massimo gli effetti della collisione inevitabile riducendo, per quanto si possa ritenere possibile, in siffatte circostanze, l'angolo d'impatto, fermando e andando indietro con le macchine. L'urto fu apocalittico. La « Stockholm », dopo aver affondato e disintegrato la sua propra nella fiancata della « Doria », rimase immobile: le ancore liberatesi da sole avevano fatto presa sul fondo.

 
     
 

La nostra nave invece continuò la sua corsa per altre due miglia, imbarcando tonnellate d'acqua e sbandando paurosamente. Fu proprio il forte sbandamento iniziale la causa della successiva perdita della nave per capovolgimento. L'eccesso d'inclinazione, infatti, portò il margine di dritta del ponte delle paratie stagne sott'acqua e permise a questa di rovesciarsi anche in quelle rimaste intatte, nei serbatoi di nafta di dritta ormai quasi vuoti (la nave era a fine viaggio), e nella sala del generatore. Nei locali subito inondati vi erano i dispositivi per allagare gli altri locali e compensare lo sbandamento, sicché non fu possibile far nulla per limitarlo. Ma lo sbandamento fu fatale anche sotto un altro aspetto. Tutte le imbarcazioni di salvataggio del lato sinistro risultarono inutilizzabili essendo impossibile ammainarle facendole strisciare sulla fiancata e sulla carena che guardavano ora verso l'alto.

 
     
   

La « ANDREA DORIA » entra nel porto di New York alla conclusione di una delle sue tante traversate atlantiche.

     
 

Questo significava che si sarebbero potute usare le sole lance di dritta, in grado di accogliere sì e no il sessanta per cento dei presenti a bordo. Ma neanche la loro utilizzazione fu agevole. Per salirvi, in condizioni normali, esse avrebbero dovuto essere calate fino all'altezza del pon­te di passeggiata, davanti alle porte d'imbarco ostruite, intanto, dai bagagli. A causa dell'inclinazione, le lance penzolavano ad alcuni metri lontano dalle porte, sicché fu necessario calarle direttamente in acqua. La nave aveva raggiunto uno sbandamento di 22 gradi mentre i primi naufraghi cominciarono con gli espedienti più vari, alla luce di lampade di fortuna, a salire nelle imbarcazioni: da poppa vi si calavano con cavi o scalette o reti; alcuni si lanciavano in acqua e venivano ripescati dagli altri già imbarcati, dei bambini furono gettati dall' alto e presi al volo in teli o coperte. Non vi furono scene di panico collettivo, ma parecchi furono presi da isteria o bloccati dalla paura. Fu per questo, probabilmente, che le prime tre lance staccatesi dalla « Doria » e giunte accanto alla « Stockholm » erano piene solo a metà, e in buona parte di personale di camera della nave ferita. Su questo episodio fu montata un'indegna speculazione contro la nostra marina mercantile, specialmente da parte svedese, dimenticando che quei naufraghi non erano marinai, ma camerieri, cuochi, sguatteri, guardarobieri che soltanto per caso prestavano servizio su un transatlantico e non in un albergo. Anche la « Stockholm », comunque, aveva ammainato le lance (una comandata dallo stesso Carstens‑Johannsen) e parecchie decine di persone erano state poste in salvo quando apparve, richiamato dall' SOS, il grande transatlantico « Ile de France » con tutte le sue luci accese.

 
     
   

Un gruppo di naufraghi dell'« Andrea Doria » tratti in salvo e trasportati

a New York dal transatlantico  « Ile de France ».

     
 

Fu come assistere a un miracolo. Quasi contemporaneamente giungevano la nave da carico  «Cape Ann », il trasporto « Private William H. Thomas » e il cacciatorpediniere « Alien » della US Navy, le petroliere « Robert E. Hopkins » e « Tidewater », più tardi giunsero decine di altre unità minori e aerei della Guardia Costiera e della Marina americana. Il salvataggio dei naufraghi divenne allora più ordinato, e macchinisti e marinai della « Doria » si volsero quasi completamente all'impossibile tentativo di salvare la nave. Alle ore 04:00 tutti i passeggeri superstiti erano in salvo. « Per quanto si sappia », commenta Barnaby, « nessuno in vita fu lasciato a bordo. Fu un'impresa notevole e, in se stessa, un tributo d'attaccamento al dovere degli ufficiali e dei marinai di Calamai. Quando i passeggeri ebbero lasciato la nave », continua, « il comandante ordinò ai suoi uomini ancora a bordo di lasciare la "Doria", ma chiese che rimanessero dei volontari fino all'arrivo dei rimorchiatori. Accarezzava ancora l'idea di far trainare la nave in acque basse. La valorosa e lunga lotta degli uomini di macchina era finita un'ora prima. Erano rimasti ai loro posti nonostante lo sbandamento e il rischio di un rovesciamento, cercando di tenere in funzione pompe e luci fino all'ultimo, quando l'acqua raggiunse le dinamo e non si poté fare più niente ». La verità sull'incidente « Doria »‑« Stockholm », come si è detto, è ancora avvolta nel mistero ufficiale. Nonostante gli armatori e gli assicuratori abbiano sistemato tra loro pacificamente e discretamente la vertenza (la spiegazione dell'accordo è stata data trent’anni fa da Gustaf Ahrne, direttore generale della Sveriges Angfartygs Assuransfórening, la compagnia di assicurazione marittima delle navi della Svenska Amerika Linje.

 
     
   

19 Luglio 1955 - La M/n "ANDREA DORIA"  un anno prima della tragedia

     
 

« La maggior parte degli assicuratori e dei riassicuratori », ha scritto Ahrne, « sono a Londra e alcuni di questi ultimi riassicuravano contemporaneamente le due navi, sicché' per loro il processo si sarebbe risolto comunque in maniera negativa perché avrebbero dovuto pagare sia per la "Doria", sia per la "Stockholm", a prescindere da come sarebbe stata suddivisa fra esse la responsabilità », e nonostante si sia fatto di tutto per far dimenticare l'incidente suddividendosi le spese per i risarcimenti dei danni ai passeggeri e ai parenti delle vittime, la vicenda non è ancora dimenticata né la polemica sulla responsabilità del disastro si è spenta. Contro la spiegazione ufficiosa, risultante di fatto dalla conclusione della vertenza, della corresponsabilità italiana e svedese, esistono delle differenze sostanziali nel comportamento successivo delle due compagnie di navigazione: quella svedese dette un nuovo comando a Nordensen e al suo ufficiale, divenuto a sua volta comandante nella stessa società; quella italiana, invece, relegò a terra Calamai e ve lo tenne fino alla pensione. Il comandante restò in dignitoso e amaro silenzio fino alla morte, avvenuta  nel 1974 (?): fu un'ingiusta punizione, tra l'altro, per un comportamento che Calamai non aveva certamente assunto di sua iniziativa, perché se la « Doria » navigava quella notte a gran velocità con i serbatoi di nafta non zavorrati con acqua di mare, ciò dipendeva dalla riduzione della sosta in porto a New York da 52 ore (sufficienti a lavare i serbatoi) a 28 ore, riduzione voluta dalla compagnia d'armamento.

 
     
   

La stupenda M/n "ANDREA DORIA" qualche settimana prima della tragedia

     
 

D'altra parte, come si è detto, in Italia non si è mai saputo nulla sui risultati dell'inchiesta mini­- steriale. Né si è saputo se sono state prese in considerazione le testimonianze degli uomini della « Doria » sulla dinamica dell'incidente, o gli studi di un tecnico americano, John C. Carrothers, che anni fa, in una serie di articoli sulla rivista dello US Naval Institute, che hanno avuto larga eco in Italia, ha accusato gli svedesi di falsa testimonianza a New York, smontando pezzo per pezzo le loro tesi che ha definito spergiure: se le loro deposizioni fossero state veritiere, ha detto in sostanza Carrothers, e la « Stockholm » fosse stata sulla rotta da loro indicata, la « Doria » avrebbe dovuto compiere in pochi secondi una virata ad S alla velocità di 4900 chilometri al minuto per andarsi a parare davanti alla « Stockholm ». La verità, secondo Carrothers, è che il radar degli svedesi era regolato sulla scala delle 5 miglia, mentre invece essi lo interpretarono come se fosse stato su quella delle 15. Per molti esperti questa è un'ipotesi di tutto rispetto: perché allora non è possibile confrontarla con la tesi ufficiale italiana, tuttora chiusa in cassaforte, come le famose pagine sullo sfondamento a Caporetto? 

 

 

Guido Azzolini

(da Il Giornale Nuovo)

 
 
 
   
   
 

 

LUGLIO 2006

A distanza di 50 anni una nuova inchiesta condotta dal network statunitense Pbs afferma:

"ITALIANI  INNOCENTI"

La responsabilita' del disastro navale della M/n "ANDREA DORIA" e' di chi conduceva  il cargo svedese che sperono' la nave.