Vendlindja Thrrete
(La Patria chiama)

L’incontro con Bekim Gashi avviene a Fabriano (AN), un centro industriale dell’entroterra marchigiano dove hanno trovato lavoro molte persone provenienti dalla ex Jugoslavia. A differenza dei precedenti racconti questo è stato raccolto "in diretta", mentre sono in corso i bombardamenti della Nato sui territori di Serbia, Kosovo e Montenegro e in Kosovo è in atto la guerra delle truppe di Milo1evic contro i civili kosovari.
Bekim Gashi non è un profugo dell’ultima ora. Lui è fuggito dal suo paese nel 1991, all'inizio del processo di disgregazione della Jugoslavia, e proprio questo aspetto della sua storia sottolinea bene il fatto che la guerra combattuta in Kosovo in questi giorni non è altro che il seguito di quella iniziata nel 1991 in Slovenia, poi in Croazia e infine in Bosnia.
 

Mi chiamo Bekim Gashi e sono nato a Prishtina il 19 settembre 1971. Vivevo con la mia famiglia in un villaggio chiamato Slovij, una frazione di Lipjan, a circa 20 km da Prishtina. Slovij è un villaggio di circa 600 case, abitate in maggioranza da albanesi. Vicino ci sono altri villaggi abitati totalmente da serbi.
All'età di diciannove anni mi sono diplomato come tecnico minerario e prima di iscrivermi all'Università sono partito per il servizio militare. Era il 24 dicembre del 1990 e sono andato direttamente a Sarajevo. Già allora la situazione era molto difficile nel Kosovo, l'anno precedente era stata cancellata l'autonomia e noi kosovari eravamo continuamente sotto il controllo della polizia serba.
In quel momento non era ancora iniziata la guerra in Bosnia e in Croazia, forse stava accadendo qualcosa in Slovenia, però si percepiva con chiarezza una situazione molto tesa in tutta la Jugoslavia. Nel Kosovo la mia famiglia è stata sempre guardata con diffidenza dalle autorità jugoslave perché mio zio, che era stato direttore della scuola superiore a Lipjan, veniva spesso arrestato per motivi politici. Gli albanesi vivevano una situazione difficile in tutto il paese, e anche dentro le caserme, quando ero militare, noi albanesi venivamo guardati con una particolare diffidenza dai nostri superiori. Anche io venivo chiamato sempre a rapporto dai miei superiori. Mi provocavano continuamente con frasi di questo tipo: "Perché stai con Rugova? Anche tu vuoi l'indipendenza del Kosovo?".

Sinceramente, io non ero un buon soldato, creavo problemi, cose stupide come la divisa in disordine e spesso ero punito oppure mi affidavano i lavori più umili, pulire i gabinetti e così via, oppure i turni di guardia più pesanti. Ricordo che mi hanno mandato a fare delle guardie a Doboj, credo si chiamasse Caserma 4 Maggio, ad un deposito di munizioni. I lavori più bassi li facevano fare a noi albanesi, ci consideravano gente stupida.
Io avevo anche problemi con la lingua perché parlavo solo albanese e non capivo gli ordini, in serbo-croato, dei miei superiori. Avevo difficoltà a comunicare anche con gli altri soldati. Sono restato in quella caserma poco di più di 5 mesi. Il 10 giugno del 1991 sono scappato. Ho disertato con l'aiuto di un mio superiore, un ufficiale che soltanto più tardi ho capito che era un croato. Era una domenica e durante un'esercitazione questo mio comandante mi ha chiamato alla radio e mi ha detto: "Scappa, vai a casa e non tornare. Se ti fermano a qualche controllo digli che hai perso la licenza e che devono chiamare me, io proteggerò la tua fuga. Andate via voi del Kosovo e non tornate, perché la Jugoslavia oramai non esiste più. Anche io fuggirò."

E' così che io ed un mio amico kosovaro di Novi Pazar siamo partiti per ritornare a casa. Avevamo paura perché allora molti militari albanesi venivano ammazzati dentro le caserme, accadevano strani incidenti e poi dicevano: " si è suicidato", o inventavano altre scuse. La situazione era molto brutta.
Ero un disertore e sono stato nascosto per alcune settimane nel mio villaggio, dove abitavano molti miei parenti e non c'era nessun poliziotto. Stranamente durante quel mese nessuno è venuto a cercarmi, o almeno non ho saputo mai nulla del genere. Poi ho comperato un passaporto, perché da noi bastava pagare ed ottenevi tutto, e così sono scappato dal Kosovo per venire in Italia, dove viveva un mio cugino. Sono arrivato in Italia clandestinamente, però come turista e non con i gommoni attraverso l'Adriatico. A Prishtina sono salito su un autobus diretto in Svizzera e che attraversava l'Italia. L'autobus ha attraversato anche la Croazia, era l'estate del 1991 ed era già iniziata la guerra serbo-croata. Ricordo che in Croazia la polizia ha fermato l'autobus. Io avevo molta paura, ero giovane ed etnicamente non ero né serbo né croato, quindi non potevo sapere quello che mi avrebbero fatto. Per fortuna è andato tutto bene. Sono sceso dall'autobus a Venezia-Mestre e nessuno mi ha chiesto nulla. Poi sono andato nel sud Italia, a San Severo di Foggia, dove viveva mio cugino. Lì ho iniziato a lavorare, in nero, perché senza il permesso di soggiorno nessuno ti assume regolarmente. Ho lavorato per un periodo di tre anni come pastore, per conto di un abruzzese. Non avevo mai fatto né il pastore né tantomeno l'agricoltore. Era un mestiere molto duro, durante l'estate andavo in montagna in Abruzzo con le pecore: ti alzavi presto, dormivi poco, le persone ti detestavano e in più io non parlavo per nulla l'italiano.

Avevo molta voglia di tornare a casa, così il giorno del mio 20° compleanno ho telefonato ai miei genitori che però mi hanno detto che la polizia mi stava cercando, perché ero un disertore, così sono stato costretto a restare in Abruzzo a fare il pastore, fino a che non sono riuscito a ottenere il permesso di soggiorno.

In questi anni sono tornato nel Kosovo quattro volte, ogni volta per un periodo di un mese, anche se per me era comunque pericoloso, ogni volta facevo un viaggio diverso e restavo nascosto. Il primo viaggio l'ho fatto nel gennaio 1992, sono andato con la nave in Albania e da lì sono entrato attraverso la Macedonia, che più o meno in quel periodo aveva ottenuto l'indipendenza. Per entrare dalla Macedonia nel Kosovo era semplice, bastava pagare 200 marchi tedeschi. Ho attraversato la frontiera di Blace, o Generale Jankovic come si dice in Serbia, che in questi giorni è diventata purtroppo famosa a causa dei profughi.

La nostra chiacchierata viene interrotta da una prima telefonata.

In quel periodo in Kosovo la situazione era sempre molto brutta, accadevano anche uccisioni o violenze. Soltanto se non parlavi di politica non ti accadeva nulla. Noi avevamo ancora molta fiducia nei nostri politici. Nel 1990 Rugova aveva fondato il suo partito politico (LDK-Lega Democratica del Kosovo) e Adhem Demaqi era stato scarcerato dal governo di Belgrado. Rugova ci diceva di restare calmi, che era meglio non ribellarsi perché altrimenti sarebbe andata a finire con una guerra come in Croazia. La situazione comunque era difficile, era sufficiente parlare con qualcuno a favore dell'indipendenza del Kosovo per essere condannati a 15 anni di galera per attività sovversive e nazionaliste. Io ho avuto fiducia in Rugova fino al 1993. Lui ci diceva: "La nostra lotta non violenta deve proseguire, se ci armiamo faremo la fine della Bosnia", così noi gli davamo il nostro appoggio. In quel periodo Rugova faceva molti viaggi, in Germania o negli Stati Uniti, per sollecitare le diplomazie ad appoggiare una soluzione pacifica del problema kosovaro, e ogni volta che tornava raccontava che i paesi occidentali erano con noi. In verità noi vedevamo soltanto che la situazione diventava sempre peggiore. Rugova aveva chiesto l'indipendenza del Kosovo già nel 1990, ancora prima di Slovenia, Bosnia, Croazia o Macedonia, proponendo prima un periodo di transizione, sotto forma di protettorato, e poi l'indipendenza sia dalla Serbia che dall'Albania. Nel 1993 mio zio, che si interessava di politica e fino ad allora era stato vicino alle posizioni di Rugova, una sera ci disse che era meglio abbandonare quella politica di Rugova, perché non stava portando nessun frutto. Io così ho iniziato a capire che era meglio appoggiare qualche altra forza politica e fu allora che ho iniziato a sentir parlare dell'UÇK (Esercito di Liberazione del Kosovo-Ushtria Çlirimtare E Kosoves).

Ma nel 1993 Rugova aveva ancora un grande consenso e solo pochi sapevano già dell'esistenza dell'UÇK. Dopo la soppressione dell'autonomia del Kosovo, nel 1989, Rugova aveva organizzato il boicottaggio delle strutture ufficiali serbe e aveva creato un vero e proprio stato parallelo con scuole, ospedali, negozi e sistema fiscale. Noi kosovari in quel periodo eravamo come costretti a pagare le tasse due volte, sia quelle ufficiali al governo di Belgrado che quelle per il governo clandestino. In ogni paese e in ogni villaggio vi era un rappresentante del governo clandestino che riscuoteva le tasse e c'era un preciso tariffario. Ad esempio, se una famiglia, come la mia, aveva un figlio che lavorava all'estero, allora doveva versare una certa cifra; se poi possedeva anche una casa e un po' di terra (mio padre aveva un piccolo terreno di 1,5 ettari) doveva pagare anche per quelle proprietà.

Non c'era una vera imposizione e non accadeva nulla se non pagavi, non era come un racket mafioso dove ti obbligano con le minacce, era piuttosto una specie di obbligo morale, per appoggiare l'indipendenza del nostro paese.

Questo sistema fiscale parallelo è stato in piedi fino all'inizio della guerra, cioè il mese di marzo del 1998, quando l'UÇK ha preso il sopravvento sull'ala moderata rappresentata da Rugova. Rugova non ha mai voluto nemmeno ammettere l'esistenza dell'UÇK. Quando sono comparsi i primi attentati contro le caserme di polizia, lui diceva che si trattava di provocazioni orchestrate dai serbi, e perfino a Febbraio di quest'anno, quando era a Rambouillet insieme ai rappresentanti dell'UÇK, lui diceva che quelli erano solo dei miliziani indipendenti e non i rappresentanti di un esercito. L'UÇK invece è nato a Prekaz nel 1992, sotto il comando di Jashar, ucciso poco tempo fa. Poi piano piano sono entrati a farne parte anche ex ufficiali albanesi dell'esercito Jugoslavo (JNA), oppure persone fuggite all'estero negli anni precedenti. L'UÇK però si è molto sviluppato negli ultimi due anni, quando ha iniziato ad appoggiarlo la maggioranza della popolazione. Ora però in quest'ultimo periodo la situazione è precipitata ed è diventato molto i più difficile capire cosa accade. Molte persone comunque si stanno arruolando in questi giorni e stanno tornando nel Kosovo dai paesi dove in questi anni erano emigrati o fuggiti.

Alla fine del 1992, in novembre, sono tornato in Kosovo una seconda volta. C'era già la guerra in Croazia e in Bosnia, ho fatto un lungo viaggio per via terra, attraverso la Slovenia, la Croazia, lungo le zone di confine con la Bosnia, e poi sono entrato in Serbia. Ho rischiato tantissimo perché con il taxi passavamo vicino ai fronti di guerra e io inoltre ero un disertore. Negli anni successivi ho fatto altri due viaggi, ma entrambe le volte sono andato in aereo da Roma a Skopie, dove abitano alcuni miei parenti, e da lì ho proseguito in macchina fino Prishtina. Il cammino inverso che oggi sono costretti a fare molti kosovari in fuga.

Nel 1996 ho deciso di sposarmi con una ragazza del mio paese, con cui ero fidanzato da quando ero studente. Io non ero molto convinto di sposarmi, pensando a quello che stava per succedere in Kosovo, non vedevo un futuro per noi, ma nel mio villaggio si erano diffuse anche chiacchiere sul mio conto, che io oramai in Italia avevo un'altra moglie, e così anche per smentire quelle voci ho deciso di sposarmi. Da noi su questi aspetti c'è una mentalità più chiusa che in Italia. I documenti per il matrimonio li ho preparati quando ero in Italia, attraverso miei amici che hanno firmato a nome mio, ovviamente pagando il funzionario. Poi con quei documenti nel 1997 ho ottenuto il ricongiungimento familiare, così quando sono tornato per prendere mia moglie, nell'agosto 1997, mi sono sposato ufficialmente in Kosovo. Purtroppo non siamo riusciti a fare una festa, sia perché era pericoloso e anche perché la mia famiglia era diventata più povera (mio padre era stato licenziato, come tanti altri albanesi, all'inizio degli anni '90).

Ci siamo limitati a fare un pranzo con i nostri vicini. Poi, in Italia, tre mesi fa è nato nostro figlio. Se non fosse stato per lui, già lo scorso anno, quando mia moglie era incinta, avevo deciso di arruolarmi nell'UÇK: ma con un figlio da mantenere, dove vado? Non posso lasciare mia moglie da sola con lui, qui in un paese straniero, dove non abbiamo parenti. Così non mi sono più arruolato, però ora, stare così a guardare ciò che accade e senza poter fare nulla, non ce la faccio. Se perdiamo il Kosovo con cosa viviamo? Già in passato, ogni volta che tornavo in Italia dopo essere andato a trovare i miei genitori, ero sempre più disperato. Vedevo la mia famiglia, la mia terra, impoverirsi sempre di più. Quando dormivo dai miei genitori mia madre restava di guardia tutta la notte per sorvegliare che qualcuno non venisse ad uccidermi. Ritornavo dall'Italia che ero più stanco di quando ero partito. A volte a Lipjan ero costretto a dormire a casa di amici perché di notte venivano i poliziotti serbi, circondavano la casa ed arrestavano tutti i giovani che trovavano con l'accusa di essere collaboratori dell'UÇK. Potete capire che per me era molto pericoloso, e nel paese c'erano anche delle spie. Anche mio fratello -io sono il più grande come età- è scappato dal Kosovo nel 1995. Ora sono rimasti mio padre, mia madre, il fratello minore che ha 17 anni e due sorelle, più mia zia e mio zio (quello impegnato politicamente) che a causa della percosse ricevute quando era stato arrestato ora è semi infermo e non riesce ad essere autosufficiente, nonostante il suo grande orgoglio che lo spinge a cercare di fare da solo tutto quello che può.

Durante l'incontro di Rambouillet , nei mesi scorsi, in Kosovo c'erano molte aspettative, anche se diverse. Alcuni erano contrari all'autonomia e volevano esclusivamente l'indipendenza, altri la accettavano perché la vedevano come un periodo di transizione verso l'indipendenza. Io, sinceramente, ero per l'indipendenza subito.

Comunque la speranza di tutti era che la situazione politica dopo Rambouillet si sarebbe calmata e la tensione scesa. I combattimenti e la repressione andavano avanti da diversi mesi e già alla fine dello scorso anno c'erano alcune centinaia di migliaia di profughi. Io speravo anche in un qualche intervento della Nato, perché credevo che dopo qualche bombardamento iniziale i serbi si sarebbero ritirati subito, senza combattere. Invece ora sta succedendo tutto questo macello, con altre migliaia di profughi che scappano. E poi noi alla televisione vediamo soltanto i vivi, che hanno la fortuna di varcare la frontiera, ma quello che succede dentro al Kosovo nessuno lo sa. L'altro ieri ho parlato con i miei genitori e mi hanno detto che nel loro villaggio ancora non è successo nulla mentre tutt'intorno è bruciato, distrutto, ci sono morti lungo la strada.

Pensavo che contro il bombardamento della Nato la Serbia non avrebbe opposto resistenza, e poi pensavo -o forse lo speravo soltanto- che la Nato sarebbe entrata fin dall'inizio via terra con le sue truppe. Ora, come vadano a finire le cose, non si sa. Ora nessuno parla più dell'autonomia, ora vogliamo esclusivamente l'indipendenza. La mia paura è che alla fine la Serbia si tenga un pezzo di Kosovo e lasci soltanto il sud a noi, la parte più povera, quella senza le miniere di oro della zona di Mitrovica, e con un paese comunque spaccato in due.

A questo punto è meglio che la Serbia si tenga tutto ..... cosa ci facciamo con un Kosovo ancora più povero di prima? E per di più diviso ...... forse è quasi meglio che ci ammazzino tutti...... e dopo? Cosa succederà dopo, quando la guerra sarà finita...... perché tanto prima o poi dovrà finire...... Che tipo di convivenza potrà mai esserci con i serbi che vivevano in Kosovo? Non parlo di tutti ma di quelli che si sono macchiati di omicidi. Gli altri sono già scappati. Come si potrà vivere insieme in Kosovo? O noi o loro.........

La chiacchierata viene interrotta da un'altra telefonata. Il nostro amico ritorna con gli occhi rossi Il fratello dalla Svizzera lo ha avvisato che ieri sono arrivati i poliziotti serbi al villaggio dei genitori e gli hanno ordinato di lasciare le case entro dieci minuti, altrimenti li avrebbero uccisi. Ora non possono sapere che fine abbiano fatto. Gli chiediamo se preferisce restare solo e interrompere la conversazione ma lui ci invita a restare, perché comunque si trova qui, lontano da casa, e non può fare nulla.

Anche i genitori di mia moglie sono scappati due settimane fa e ancora non riusciamo ad avere loro notizie. Secondo la TV albanese (che i nostri amici seguono grazie ad un'antenna parabolica) che diffonde le liste dei profughi, non risultano arrivati né in Albania né Macedonia. Anche la notizia ricevuta ora e che riguarda i miei genitori, purtroppo non mi sconvolge più di tanto perché lo sapevo che prima o poi doveva avvenire, me l'aspettavo, anzi mi meraviglio come mai sia durato così tanto prima che accadesse qualcosa. Mio zio invece è ancora nascosto, anche se non sappiamo dove sia e che fine abbia fatto.

Più andiamo avanti nella conversazione e più ci rendiamo conto che a confronto con questa del Kosovo la situazione della Bosnia, che oramai crediamo di iniziare a conoscere abbastanza, sia una realtà tutto sommato abbastanza semplice. Anche i rapporti tra le cosiddette etnie, che in Bosnia occupavano buona parte delle nostre conversazioni, qui assumono un carattere diverso, con divisioni che appaiono decisamente più nette. Qui nulla è uguale, perfino la lingua qui è totalmente diversa ("non riuscivo a capire gli ordini dei miei superiori"). Ovviamente è anche vero che l'atmosfera che ci circonda è diversa: qui ne stiamo parlando non dopo alcuni anni ma in diretta, mentre la guerra è in corso, e questo da solo ovviamente rende tutto mille volte più .... diverso.

I rapporti umani tra noi albanesi e la popolazione civile serba sono stati di buona convivenza fino al 1981, poi pian piano sono peggiorati, con alti e bassi. I problemi principali però erano dovuti sempre alle istituzione e non alle persone. Poi alla fine degli anni ottanta, in particolare dopo il 1987 e 1988, con la scalata di Milo1evic al potere, l'odio ha iniziato a entrare anche nei rapporti umani. Alla fine, tutto è peggiorato dopo la soppressione dell'autonomia. Allora tremila poliziotti albanesi sono stati licenziati e sostituiti con poliziotti serbi. Le fabbriche di proprietà di albanesi sono state chiuse e gli operai albanesi licenziati, sia dalle fabbriche che dagli uffici statali. Ai serbi rimanevano i posti migliori. Le scuole di lingua albanese sono state chiuse. Fino al 1989 la provincia del Kosovo aveva quasi la stessa autonomia delle altre repubbliche, coma la Slovenia o la Croazia. Avevamo uffici e rappresentanze. Poi dopo il 1989 tutti gli uffici sono stati chiusi e noi, anche per ottenere un semplice documento eravamo costretti ad andare a Belgrado. Dopo il 1989 i nostri rappresentanti sono usciti sia dal Parlamento Serbo che da quello Federale.

I nostri politici hanno subito reagito, creando una società "parallela" e chiedendo l'indipendenza.

La nostra conversazione è interrotta ancora da una telefonata: le notizie su ciò che sta accadendo in Kossovo circolano anche così.

In questo momento il nostro riferimento politico non è più Rugova, che è diventato un ostaggio in mano ai serbi. Il suo partito non esiste più mentre i suoi colleghi o sono stati uccisi o sono scappati non si sa dove.

Il governo del Kosovo ora è retto dai rappresentanti dell'UÇK, il primo ministro è Thaci mentre Krasnici è il portavoce. Thaci credo che si trovi in Kosovo mentre Krasnici penso sia in in Albania.

La situazione è molto confusa ora. Io penso che il Kosovo e la Macedonia del Nord (Tetovo) prima o poi diventerà un'unica zona. Temo che la guerra scoppierà anche in Macedonia, penso che sia inevitabile. Anche se la Macedonia ha una storia antichissima, oggi non è per nulla chiaro chi sia veramente un cittadino macedone. In questo paese vivono serbi, kosovari, bulgari, greci e macedoni. E' una situazione esplosiva: il futuro della Macedonia è in mano ai loro politici, alle scelte che faranno. Se il governo macedone continuerà questa politica di repressione e di chiusura

nei confronti dei kosovari, temo che la guerra diventerà inevitabile. Penso che l'unica possibilità per evitarla sia quella di offrire pari diritti a tutte le minoranze in Macedonia.

Occorre anche ricordare, per capire meglio, che prima del 1990 non esistevano frontiere interne fra le varie repubbliche che formavano la Jugoslavia, non c'erano confini, e anche per questo gli albanesi macedoni per noi albanesi del Kosovo sono come dei fratelli. Io stesso ho degli zii in Macedonia, e tutti gli albanesi di Macedonia studiavano a Prishtina nelle università albanesi. Siamo la stessa gente, senza nessuna divisione, tranne quella dei nuovi confini. Con l'Albania invece i legami sono meno forti, anche perché durante il periodo di Enver Hoxha i rapporti tra Jugoslavia e Albania non esistevano o erano ridotti al minimo, soprattutto per motivi politici. Ad esempio, noi ascoltavamo Radio Albania di nascosto dalle autorità serbe con il rischio di prendere 10 anni di galera: dipendeva dai cattivi rapporti politici tra i due stati. Comunque per noi l'Albania era una specie di sogno: ricordo ancora l'emozione quando nel 1992 sono riuscito a vedere l'Albania per la prima volta (ritornando verso casa dall'Italia) . Si trattava di un legame ideale.

Oggi penso che l'Albania, il governo albanese, anche se sta facendo molto per aiutare i nostri profughi, avrebbe dovuto intervenire prima in difesa dei propri fratelli kosovari. Ad esempio come ha fatto Milo1evic, che è corso in aiuto ai serbi di Bosnia guidati da KaradæiÊ. Però si può anche capire che per l'Albania è più difficile, la situazione economica è quello che è e anche la sua capacità militare non è paragonabile a quella della ex-armata jugoslava.

Io ora mi trovo qui, non mi sono arruolato e non posso fare molto per il mio paese, così un anno fa, insieme ad altri albanesi del Kosovo e della Macedonia abbiamo fondato un'associazione che si chiama Vendlindja Thrrete (la Patria Chiama) e raccogliamo aiuti umanitari da inviare in Albania. Abbiamo già spedito nei mesi scorsi, prima di quest'ultima fase della guerra, un container di medicine e altre cose. Inoltre siamo riusciti a coordinarci con le altre associazioni kosovare sparse in Italia,. Io in questo periodo viaggio molto nelle città italiane dove ci sono albanesi del Kosovo; abbiamo aperto anche un Conto Corrente Bancario a livello nazionale, dove vengono raccolte tutte le offerte che noi poi versiamo ad un'associazione legata al nostro governo del Kosovo e che ha una sede all'estero in Svizzera. Tutto quello che facciamo avviene secondo le regole dello stato italiano, il nostro è un conto trasparente. In questi giorni di grande emergenza stanno affluendo molti soldi.

Purtroppo sono pessimista e penso che alla fine vada a finire peggio che in Bosnia, con tanti bosniaici che non sono più tornati a casa. Purtroppo non abbiamo scelta, non esiste nessun futuro senza avere un proprio paese.

La conversazione non termina esattamente così. Si diluisce piano piano e prosegue anche a registratore spento, con l'aggiunta di ulteriori precisazioni alle storie già raccontate e anche di alcuni brutti episodi di cui il nostro amico è venuto a conoscenza. Si riflette insieme sulla situazione. Ad un certo momento è il nostro amico che in qualche modo intervista noi e ci chiede come vediamo noi la situazione del suo paese, come pensiamo che possa finire, oppure come giudichiamo noi questi bombardamenti Nato.... e così via. Il suo tono è carico di incertezze e dubbi. Da un lato la sua scelta è molto chiara, quasi scontata e dichiarata anche in un modo pacato: avrebbe voluto arruolarsi già un anno fa e comunque è impegnato in prima persona per raccogliere aiuti ed essere un punto di riferimento per gli altri esiliati kosovari. Dall'altro non può fare a meno di commentare così, mentre ci saluta: "Dicono che la guerra la perdano tutti, sia chi la vince, sia chi la perde: ora capisco il perché."


ritorna all'indice