Racconto di gente comune,
di Agostino
Zanotti
La sera del 31 maggio 1993 i telegiornali
italiani annunciarono l’uccisione di tre volontari italiani lungo una strada
dell’inferno della Bosnia. Inferno della Bosnia, come se si trattasse di
un luogo fuori dal contesto umano, dal quale tenersi prudentemente alla
larga. Trasalimmo ascoltando quella notizia di cui coglievamo soprattutto
l'aspetto tragico: come si possono uccidere persone disarmate che portano
aiuti umanitari?
Il servizio televisivo fornì
poche notizie e la loro morte in quei giorni passò quasi sotto silenzio.
Come sempre del resto quando a morire sono pacifisti o volontari, persone
che per scelta non indossano divise. Nelle successive e scarne ricostruzioni
giornalistiche veniva citato quale responsabile un paramilitare che si
faceva chiamare Paraga. Un nome croato per un soldato che aveva adesivi
verdi con scritte arabe sul calcio del fucile? Forse era musulmano? Ma
che interesse poteva avere a uccidere dei volontari che portavano aiuti
in una zona sotto il controllo dei governativi di Sarajevo? No, i conti
proprio non tornavano, soprattutto per la gran parte della stampa che aveva
sempre spiegato la guerra di Bosnia come la conseguenza dell’odio tra etnie
ben distinguibili tra loro e compatte al loro interno. Una visione miope
e pigra che quasi nessuno aveva intenzione di approfondire, per capire
quale fosse realmente la posta in gioco: il controllo degli aiuti umanitari,
il racket, i furti, dai più piccoli come quello di un'auto fino
al controllo dei colossi industriali. Una guerra di potere voluta dai potenti,
o aspiranti tali, combattuta con il sangue delle persone comuni e la strumentalizzazione
delle differenze etniche.
Abbiamo incontrato uno dei due
superstiti di quel viaggio, Agostino Zanotti. Questo è il suo racconto.
"La guerra in Bosnia ha occupato, con le sue atrocità e sofferenze, in modo violento e doloroso a partire dal 1992 le coscienze di molte persone che, scontrandosi con quelle tremende immagini, non hanno potuto e voluto voltarsi dall'altra parte e continuare la propria esistenza come se nulla stesse accadendo.
Un gran senso d'impotenza e d'annientamento occupava gli animi di coloro che per la prima volta nella vita conoscevano, così da vicino, i drammi della guerra. Che fare, come rivolgere il proprio aiuto a quella gente sulla quale stava operando il bisturi della pulizia etnica, nelle sanguinose mani di criminali legittimati ad essere leader politici da un popolo fomentato ad arte, nella disgregazione generale di un est balcanico alla deriva?
L'Europa colpevolmente inadeguata
a fermare le atrocità e paurosamente coinvolta nel non averle impedite,
non offriva di sé che l'immagine dell'eterna inadeguatezza. Impegnata
a coprire le proprie connivenze era entrata, insieme a molti intellettuali,
pacifisti, politici nel dilemma, che rappresenterà il filo conduttore
di tutto il conflitto, dell'intervento armato oppure della mediazione diplomatica.
Come poteva il mondo pacifista
rispondere, con gli strumenti della non violenza, al disperato appello
d'aiuto da parte degli sfortunati cittadini bosniaci?
Come potevo risponde agli amici
che mi accusavano d'idealismo e contemporaneamente mettevano in discussione
i loro stessi principi di pacifisti che avevano da poco lasciato la contestazione
" in piazza" contro la guerra del golfo?
Allora in 500 partecipammo ad un'indimenticabile marcia organizzata dai Beati Costruttori di Pace a Sarajevo. Non fermammo la guerra, non salvammo nessuna persona, ma mandammo un segnale molto forte a tutta l'Europa: i pacifisti, sfidando la guerra, possono essere soggetti di diplomazia popolare. Con la tecnica dell'ingerenza umanitaria il popolo della pace, molto variegato e anche improvvisato, aveva lanciato una sfida e un nuovo modello di protesta: dalle Piazze alle Città assediate, per mantenere attivi o costruire corridoi umanitari sostenuti dallo scambio tra Comunità.
Da quel fiume nacquero mille
rivoli che si distesero lungo la Bosnia, fin verso i villaggi più
lontani, nel buco nero della guerra.
Uno di questi partiva da Brescia,
coinvolgeva i pacifisti bresciani che avevano materialmente o idealmente
condiviso l'azione dei 500 e, mantenendo legami di amicizia iniziati prima
del conflitto, decidemmo di rivolgere i nostri sforzi verso la cittadina
bosniaca di ZavidoviÊi, cantone di Zenica-Doboj: primo obiettivo
trasferire in Italia 67 tra donne vedove e i loro bambini.
A questa impresa sono legate
le vite di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, trucidati il 29 Maggio
1993 sulla strada dei Diamanti nei pressi di Gornji Vakuf.
Oggi sono tre lapidi in tre
cimiteri diversi, allora insieme con me e Christian Penocchio rappresentavano
la speranza di salvezza per quelle donne e i loro bambini e il più
significativo intervento di ingerenza umanitaria che si stava realizzando
nel cuore della Bosnia. Nessuno di noi sarebbe partito pensando di perdere
la propria vita, nessuno di noi si sarebbe fermato senza un valido motivo,
ognuno si sarebbe tirato indietro nel momento in cui era in pericolo l'incolumità
dell'altro.
Guido, Sergio e Fabio: mi accorgo
che l'umanità per me a volte possiede solo questi nomi, oltre a
quelli della mia famiglia, forse perché, nella loro diversità,
rappresentavano davvero un pezzo di società.
Sergio Lana, 21 anni, corporatura robusta, viso dolce e gentile, lineamenti delicati illuminati dalla luce della giovinezza e dalla serenità di un animo sostenuto dalla fede. Era alla sua prima missione in Bosnia, fino allora aveva portato aiuti ai campi profughi della Croazia, conosceva Fabio, aveva tanta voglia di vivere per sé e per gli altri, aveva appena finito gli studi ed era figlio unico. Ai primi colpi di kalashnikov scappammo insieme, velocemente, disperatamente, poi un dolore alla gamba, sangue e poi una raffica, forse una luce, una pace immensa in un luogo che non concepisco, ma che lui invocava nelle preghiere prima della morte.
Fabio Moreni 40 anni, stessa corporatura di Sergio, fisico atletico, mille sport, mille passioni, mille donne e poi Dio, la sua fede trovata da poco, il suo unico scopo servire Dio e gli altri. Aveva attraversato la Bosnia in lungo e in largo portando aiuti, soffrendo per le sofferenze di quella gente, portando le sue preghiere e le sue contraddizioni di imprenditore affermato. Aveva accettato di partecipare al progetto su ZavidoviÊi ed era la terza volta che andava da loro, portando il proprio sorriso e aiuto materiale. In Bosnia aveva portato tonnellate di alimenti con il suo camion, lo aveva portato, quel 29 Maggio, in cima ad una collina percorrendo un'impervia strada, buona solo per trattori, pecore e banditi criminali. L'avrebbe portato sul Monte Bianco se fosse servito per la salvezza dei suoi compagni. Prima di morire chiese "perché" ed è l'ultima cosa che ricordo di lui prima di rivedere il suo corpo sventrato dalla follia di un pazzo.
Guido Puletti 40 anni, fisico
minuto e atletico, una sete di sapere e di capire incolmabile, una voglia
di giustizia per gli ultimi, per gli oppressi, per gli sfruttati che gli
costò la tortura in Argentina dalla quale scappò portando
sul corpo i segni di quell'atroce esperienza. Se fosse possibile scegliersi
l'angelo custode, accettando il fatto che esista, sceglierei lui, lo sceglieremmo
in molti, lo vorremmo in molti. Aveva una cultura, che a me sembrava infinita,
eppure non la ostentava mai; per sapere il suo sapere bisognava interrogarlo,
amava la dialettica, si confrontava con le idee degli altri rispettandole,
voleva capire gli avvenimenti del mondo e quindi era nella storia ancor
prima che diventasse storia. Era un compagno, un rivoluzionario moderno,
quando accettò di partecipare al progetto fu per tutti noi un gran
successo. Molti sono gli interrogativi che mi attanagliano dopo quella
tragedia, uno di questi è quello di aver contribuito alla sua morte
e piango e soffro per questo consolandomi con i ricordi dei viaggi in Bosnia
con lui e con la sua voglia di giocare a calcio.
Non scappò nemmeno di
un passo, ritrovammo il suo corpo esattamente dove era, con tre fori, senza
scarpe ma con tanta voglia ancora di correre, di vivere, di amare, giocare
a calcio. Sotto la terra che ricopre la sua bara ci sono le scarpe che
portavo durante la fuga, quel giorno, perché uno spirito libero
non lo ferma nessuno.
Dopo oltre cinque anni di impegno
quotidiano in progetti di cooperazione non so ancora perché faccio
tutto questo, molte volte penso di farlo per sopravvivere alle miserie
di un mondo che soffoca se stesso con ingordigia e avidità, che
strangola gli ultimi senza offrire loro nemmeno un po' di cibo per cani
o gatti. Correvo velocemente, allucinato dalla paura, correvo per sopravvivere,
correvo per me, pensando a mia moglie a mia figlia, correvo sfiorato dalle
pallottole, correvo come un felino per sfuggire alla morte. Mi gettai nell'acqua
di un torrente, nascondendomi in un anfratto, inondato di acqua gelida
che non assomigliava per nulla al liquido tiepido che ci circonda prima
di nascere, anche se la posizione era la stessa. Vennero a cercarmi, li
sentivo vicini, chiusi gli occhi più volte per non vedere la pallottola
che avrebbe messo fine alle mie speranze di sopravvivenza. Perché
l'ho fatto, perché far soffrire mia moglie, i miei cari, perché
compromettere il futuro di mia figlia con questo prematuro lutto, perché
la morte così vicina? Forse avevamo osato troppo.
Potevano fermarci a Gornji Vakuf
quei soldati dell'UNPROFOR, perché non l'hanno fatto?
Potevano fermarci a Spalato
le autorità di ZavidoviÊi, perché non l'hanno fatto?
Potevano derubarci di tutto
quei miserabili banditi, capitanati da un berretto verde che si faceva
chiamare " Paraga", senza ucciderci, perché non l'hanno fatto?
Da oltre cinque anni, dopo l'elaborazione
individuale e collettiva del lutto, stiamo cercando di dare risposta ai
vari perché che circondano tutta la tragedia. Di Paraga conosciamo
tutto, conosciamo il suo vero nome: Hanefija Prijic. Sappiamo che pur essendo
un musulmano che combatteva i croati si faceva chiamare "Paraga" per uno
strano meccanismo di ammirazione-rispetto nei confronti del suo "nemico"
Dobroslav Paraga.
Sappiamo che esercita la professione
di consigliere comunale a Gornji Vakuf, abbiamo cercato giustizia, non
vendetta, in ogni sede italiana, internazionale, bosniaca, ma ancora non
abbiamo ottenuto nulla, nessuna speranza per una conclusione rapida, per
capire, nei luoghi adatti, che cosa sia effettivamente accaduto.
Dopo l'eccidio in Bosnia abbiamo
ricevuto molta solidarietà che ci ha permesso di realizzare importanti
progetti che sono ancora in corso, come quello dell'Ambasciata della Democrazia
Locale a ZavidoviÊi. Abbiamo accolto a Brescia e in altre Regioni
quelle donne vedove dopo un mio viaggio-ritorno nel Febbraio del 1994,
insieme con una delegazione di Parlamentari con l'aiuto dell'unità
di crisi della Farnesina e la cooperazione italiana a Spalato, che ci ha
permesso di riallacciare i rapporti con quella cittadina isolata da violenti
bombardamenti. In quel viaggio eravamo di nuovo soli sulla strada dei Diamanti
ed io riconobbi un membro della banda di Paraga, di nuovo paura, volevo
però continuare quella missione per loro Guido, Sergio e Fabio,
volevo portarli a ZavidoviÊi da quelle donne e dai loro bambini.
In sede di Consiglio d'Europa
abbiamo dedicato l'approvazione del progetto Ambasciata a loro, a ZavidoviÊi
tre vie portano il loro nome, a Brescia in un parco i loro nomi sono scritti
su una stele.
Oggi io ho due figli e quando ritorno in Bosnia mi porto dentro il fremito di quell'esperienza, il laboratorio di diplomazia popolare continua con gli amici di allora e con nuovi, sono stati scritti anche dei libri che narrano di quest'esperienza, entrambi molto belli e ragionati, di tutto si è fatto per non rendere vane quelle assurde morti, di tutto si farà per rendere loro giustizia."
La vicenda degli amici di Brescia presenta ancora interrogativi non chiariti dalle autorità competenti. Su questi aspetti sono state scritte memorie approfondite nei libri "La Bosnia dentro" di Elena Rancati, edito da Sensibili alle Foglie, e "La guerra in casa" di Luca Rastello, edito da Einaudi. La loro storia ci introduce al mondo del pacifismo e della solidarietà, molto attivo nel caso della Bosnia, e ci avvicina anche alla durezza" e complessità degli ostacoli da superare quando si vuole portare la solidarietà a chi ne ha bisogno.
Abbiamo udito più volte, sia in questi che in altri racconti, le espressioni "milizie più o meno regolari", "guerra di interessi", "intreccio di mafie e traffici", che contrastano con le spiegazioni etniche dell’odio balcanico. Le documentazioni raccolte in questi, da quei giornalisti e osservatori che hanno scavato più in profondità, offrono numerosi esempi di questi traffici che coinvolgono tutte e tre le parti in causa, anche se a questo livello le parti in causa, cioè le "etnie", in realtà centrano poco. Infatti, come molti degli stessi bosniaci con cui abbiamo parlato cercano di sottolineare più volte, quando si discute dei traffici e delle azioni di guerra più sporche è bene parlare di "croati", "serbi" o "musulmani" con le virgolette, per distinguere chi era contrario alla guerra e magari suo malgrado ha dovuto anche combatterla, da chi invece ha contribuito a scatenarla usando il paravento dell'etnia come alibi per i propri fini.
Nelle pagine che seguono riportiamo, a puro titolo di esempio, i ritratti di alcuni di questi personaggi attivi sui diversi fronti. Ci sembra giusto citarli perché anche loro sono un aspetto di questa guerra. Certo, non rappresentano tutta la realtà e non è sufficiente citare le loro gesta per capire cosa è accaduto realmente. A chi voglia approfondire questi temi consigliamo la lettura dei libri usciti in questi anni sull’argomento, alcuni dei quali sono citati da noi in queste note o nel resto del libro.
Il primo personaggio è Æeljko RaznjatoviÊ, il "feroce eroe della pulizia etnica", il comandante Arkan, che in turco significa l’intoccabile. Arkan sale alla ribalta delle cronache mondiali alla fine del 1991, in occasione della caduta di Vukovar, la "Stalingrado dei Balcani", quando alla guida delle sue "tigri" -così era chiamato il suo gruppo paramilitare- dopo tre mesi di assedio entra in città per conto dell’ancora esistente Esercito Federale Jugoslavo (JNA). Dopo tre giorni di "lavoro" la città è ripulita dai cecchini e Arkan dà il permesso ai Federali di entrare liberamente. Questi però commettono un errore, fanno entrare con loro anche i primi giornalisti. Lo spettacolo è devastante. Civili squartati, senza occhi, gambe, orecchi o nasi. Civili impiccati, cantine sfruttate come rifugi ma piene di cadaveri. I soldati federali non possono credere ai propri occhi. L’Accademia militare di Belgrado esaminerà più di 7 mila soldati dichiarandone circa un quarto affetti da disturbi psichici e più di mille inabili al combattimento. (Uno dei casi esaminati è stato riportato da Nicole Janigro nel suo libro "L’Esplosione delle nazioni: il caso jugoslavo", edito da Feltrinelli). Molti si dimetteranno dall’esercito per quanto hanno visto, lasciando così il campo libero a Milo1eviÊ per sbilanciare ancor di più l’esercito federale dalla sua parte. Ma Arkan oramai è lontano e all’inizio del 1992 sta già organizzando le basi a Bijeljina, in Bosnia.
Le sue prime tracce in Italia risalgono invece alla metà degli anni ottanta, quando guida una rivolta nel carcere di San Vittore. RaznjatoviÊ è in contatto con organizzazioni criminali e mafiose da quando lavorava per i servizi segreti federali; più tardi presterà i suoi favori anche ai servizi sia di Serbia che di Croazia e sarà al centro dei traffici internazionali di armi e droga. Alla fine degli anni ottanta si lega a filo doppio con il Presidente Milo1eviÊ, durante le grandi privatizzazioni. Negli stessi anni è anche alla guida degli ultras della Stella Rossa Belgrado, tra i quali recluterà parte dei suoi sanguinari "tigrotti". A Zagabria, durante la famosa partita di calcio del 1990, viene arrestato dalla polizia croata ma appena 24 ore dopo è rilasciato per intervento diretto del governo di Belgrado guidato da Milo1eviÊ.
Durante la guerra, tra un lavoretto di pulizia etnica e l’altro, i giornalisti potevano intervistarlo a Belgrado nel suo locale chiamato Gelateria italiana, mentre altri pubblicavano il prezzario per i suoi lavori.
Il suo amore per l’Italia è dovuto anche ai legami di affari con il miliardario molisano Giovanni di Stefano che durante l’embargo ha avuto interessi economici in Serbia. Arkan ha dichiarato pubblicamente di aver finanziato con un miliardo di lire il partito "Lega Sud", fondato dall’inquisito per mafia e parlamentare italiano Giancarlo Cito. Nell’estate del 1998 ha aperto un ufficio di rappresentanza a Roma per la sua nuova squadra di calcio, l’ObeliÊ, che nella prossima stagione parteciperà alla Champion League. Nei mesi scorsi il nome di Arkan è stato fatto anche da alcune agenzie di stampa e di associazioni umanitarie, che ne segnalavano la presenza nelle città del Kosovo di nuovo tragicamente lanciate al centro della scena. Marko Ve1oviÊ riporta nel suo libro "Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo" la testimonianza di un reduce di un campo di prigionia delle Tigri di Arkan: "Le guardie appartenevano al corpo permanente della polizia serba. A loro, tanto di cappello. Si sono comportati da uomini con noi. Proprio come prima della guerra. Dopo che gli Arkanisti hanno lasciato il capannone, nessuna delle guardie poteva guardarci in faccia per la vergogna, non facevano che girare la testa dall’altra parte."
Anche a Sarajevo è facile trovare personaggi di questo tipo. La guerra scoppia prima che il governo bosniaco abbia il tempo di organizzare un esercito regolare, così si ricorre a chi con le armi ci sa fare e ha già alle proprie dipendenze uomini esperti e armati. I mafiosi locali fiutano l’affare e si inseriscono. Uno di loro è il giovane musulmano Jusuf Prazina detto Juka, che all’inizio del 1992 guida una banda di neanche cento uomini. Dopo pochi mesi di guerra, durante l’estate, è a capo delle unità speciali dell’esercito bosniaco e si autonomina generale.
In guerra tutto è lecito, in special modo per chi si proclama "difensore" della città. Se poi questa è assediata si può fare la cresta su tutto: vendita di armi, vendita di cibo, vendita di droga, furti e rapine anche ai propri concittadini, meglio se di etnia diversa. Tanto chi oserà arrestare chi difende la città dagli assedianti? In quei primi mesi sorgono comunque contrasti tra il giovane Prazina e il generale dell’Armata Bosniaca Sefer HaliloviÊ; a ottobre Juka è asserragliato con i suoi uomini sul monte Igman, fra le linee serbe e quelle bosniache e viene spazzato via poco prima di Natale da un’offensiva a cui partecipano anche le sue vecchie unità speciali. Nel gennaio del ‘93 scappa da Sarajevo. In primavera Juka ricompare in Erzegovina, quando salta l’alleanza croato-musulmana. A Mostar i bosniaci di sesso maschile e di religione musulmana vengono arrestati e rinchiusi nei campi di concentramento croati. Il musulmano Jusuf Prazina passa dalla parte dell’HVO, le Forze di difesa croate di Mate Boban, e diventa uno dei capi picchiatori del campo di concentramento di Mostar, ricavato dai magazzini di una fabbrica di elicotteri da guerra, il famigerato Heliodrom. Nel luglio del ‘93 Juka manda un ricordo al suo ex-rivale HaliloviÊ, nel frattempo rimosso dall’incarico di Generale dell’Armata Bosniaca con l’accusa di crimini di guerra: sua moglie incinta viene assassinata per strada a Sarajevo. Nei primi mesi del 1994 la situazione in Erzegovina cambia, arriva la tregua fra musulmani e croati e Prazina capisce che la resa dei conti potrebbe essere vicina. Fugge in Belgio. Verrà trovato morto poco tempo dopo, lungo una strada, con un colpo di pistola alla testa. Si dice che lo abbiano ucciso le sue stesse guardie del corpo o anche che in realtà non sia lui quel cadavere con il volto sfigurato.
Con la sua fuga da Sarajevo all’inizio del ‘93 non era venuto meno tuttavia il ruolo delle varie bande guidate dagli "eroi criminali". Nell’autunno del ‘93 a Sarajevo si teme addirittura un colpo di stato da parte dell’ala dura dello schieramento musulmano, appoggiata dalle "milizie ribelli" di Mu1an TopaloviÊ detto Caco (leggi: Zazo) e Ramiz DelaliÊ detto Æelo, altri due personaggi che avevano fatto del controllo del mercato nero il loro principale affare. (Æelo è anche l’autore nell’aprile del ‘92 dell’uccisione di alcuni civili serbi durante un corteo matrimoniale, un episodio considerato spesso come uno dei primi che ha contribuito a far degenerare la situazione). In ottobre un’inchiesta del governo contro il crimine di guerra organizzato permette la scoperta di fosse comuni: vi giacciono dentro mutilate circa 500 salme appartenenti a tutte e tre le principali etnie di Sarajevo. Scatta l’offensiva dei governativi e in città scoppiano scontri armati. A novembre il comandante Celo si consegna alle truppe governative, in cambio dell’incolumità, mentre il comandante Caco viene ucciso da un civile, forse per una vendetta, dopo essere stato anche lui arrestato dai governativi. In quei giorni vengono arrestate anche altre persone, tra cui l’ex-generale HaliloviÊ. Da un lato i vertici militari vengono rinnovati e resi più presentabili al mondo esterno, dall’altro molti dei gruppi che avevano combattuto insieme agli "eroi criminali" vengono inglobati nell’Armata Bosniaca. Sul contrabbando cala il silenzio. Molti "ex-nemici" si ritroveranno insieme nei traffici che seguiranno la fine della guerra. Nel luglio del ‘96 Mu1an TopaloviÊ verrà riabilitato e la sua salma verrà riesumata per essere seppellita con funerali di Stato.
Altro personaggio degno di nota è Dobroslav Paraga. In Croazia è considerato da molti un eroe popolare alla stessa stregua di Arkan in Serbia. Anche di lui si inizia a parlare nei primi anni ottanta, quando ancora studente di legge e teologia promuove una petizione per il rispetto della libertà di espressione in Jugoslavia, in particolare in appoggio ai dissidenti rinchiusi nelle galere per reati politici. In quel periodo anche un ex generale, un "certo" Franjo Tuðman, è in galera per reati di opinione. Paraga verrà arrestato il 21 novembre 1980 e condannato l’anno successivo a quattro anni di carcere. In una lettera spedita ad Amnesty International, che si occupò del suo caso, Paraga scrisse: "Il mio unico reato è stata la preoccupazione per l’umanità".
In un contesto del genere, dove i regimi comunisti certamente non brillavano per libertà d’opinione, "l’occidente" (anche per scopi politici) presterà molta attenzione a questi "dissidenti", dimostrando però di non impegnarsi molto per capire veramente cosa stava accadendo.
Il maestro di teologia di Paraga è Padre Jozo Zovko, leader carismatico dei frati francescani erzegovesi di Meðugorje, che all’inizio degli anni ottanta ricevono nientedimeno che la visita della madonna in persona, e di conseguenza, insieme alla madonna, anche la visita di migliaia di pellegrini che portano valuta pregiata. Padre Zovko in seguito viene arrestato dal governo per propaganda nazionalista e avversato anche dalle autorità ecclesiastiche che lo sospendono a divinis dal suo incarico. Due delle sei persone che hanno avuto le apparizioni della madonna si dissoceranno dai frati alcuni mesi dopo, mentre la posizione ufficiale, nel 1982, della Chiesa romana sulle apparizioni è la seguente: "Deleteri... per la credibilità della stessa Chiesa" (come riportato nel libro "La guerra in casa" di Luca Rastello, Einaudi, pag. 178, che abbiamo consultato per comporre queste note).
Questo però non basterà a far perdere d’importanza a Meðugorje, verso cui il flusso di pellegrini non si interromperà nemmeno durante la guerra e che anzi, con il suo prestigio, diventerà uno dei principali centri di smistamento degli aiuti umanitari, che da qui vengono dirottati verso le retrovie croate dell’HVO. Il decreto vaticano di sospensione di padre Zovko intanto non sarà mai rispettato, mentre la tensione dei francescani di Mostar con la Chiesa erzegovese raggiungerà momenti addirittura spettacolari nel 1996, quando i frati rapiranno e terranno sotto sequestro per due settimane il Vescovo di Mostar Monsignor PeriÊ.
Il giovane Paraga cresce in questa scuola. Nel 1991 lo troviamo alla guida delle Forze di Liberazione Croate (HOS), ala militare del Partito dei Diritti (HSP) di tendenza neo usta1a, che si richiama ad Ante PaveliÊ, il leader filonazista fondatore nel 1941 dello Stato Indipendente di Croazia. Le HOS sono presenti a Vukovar sulla barricata opposta a quella di Arkan, vengono sconfitte e abbandonano la città il 19 novembre 1991; durante la ritirata una parte dei sopravvissuti salterà in aria sui campi minati dagli stessi croati, che chissà perché non avevano comunicato loro la posizione. In quei giorni Paraga guida, insieme ai reduci di Vukovar, una manifestazione contro il Presidente della Croazia Franjo Tuðman, accusandolo di tradimento per aver dirottato le armi da Vukovar a Mostar, in Bosnia-Erzegovina, dove in quel momento non c’era nessuna guerra. Il 22 Paraga viene arrestato con l’accusa di insurrezione armata contro l’ordine costituzionale. I reparti militari delle HOS, che costituiscono un elemento importante nella difesa di numerose piazze, minacciano di abbandonare i combattimenti e Paraga viene liberato. Due giorni dopo però, il 24, viene arrestato dal governo di Zagabria il suo comandante a Vukovar, Mile DedakoviÊ, accusato di arricchimenti illeciti durante l’assedio; anche lui però viene quasi subito rilasciato. Alcune inchieste giornalistiche dimostreranno che effettivamente automezzi militari diretti a Vukovar nel novembre 1991 furono dirottati "inspiegabilmente" a Mostar, e gli autisti, scomodi testimoni, furono uccisi. L’episodio ha ripercussioni imbarazzanti sul governo tedesco di Khol, accusato dal gruppo parlamentare dei verdi di essere in qualche modo coinvolto nell’invio degli aiuti militari poi dirottati a Mostar. Alcune riflessioni interessanti sugli enigmi di Vukovar -che comprendono anche un’analisi sociologica del contrasto, che taglia trasversalmente tanto i serbi quanto i croati, tra starosedioci (le famiglie locali di tradizione cosmopolita) e do1ljaci (gli inurbati giunti da zone interne e più attaccati all’idea dell’etnia)- sono contenute nel libro di Paolo Rumiz "Maschere per un massacro", degli Editori Riuniti.
All’inizio del ‘92 le HOS stabiliscono
il loro nuovo quartier generale in Erzegovina, a pochi chilometri da Meðugorje.
Secondo alcuni osservatori il loro intento è di provocare le forze
federali e di spingere i serbi allo scontro, allo scopo di sabotare il
piano di spartizione della Bosnia concordato dai presidenti di Croazia
e Serbia, Tuðman e Milo1eviÊ, già nel marzo del ‘91, prima
della guerra, e successivamente riconfermato il 6 maggio del ‘92 in Austria
dal croato-bosniaco Boban e dal serbo-bosniaco KaradæiÊ. Secondo
Paraga la Bosnia non deve essere divisa ma deve essere annessa tutta intera
alla Croazia, negando l’esistenza dello stato bosniaco e quindi dei bosniaci
stessi. Il 20 maggio 1992 il Consiglio di Difesa Croato (HDZ) di Mate Boban
dichiara la piena assunzione di poteri a Mostar. Dopo pochi mesi scoppiano
anche scontri pesanti tra i reparti delle HOS e dell’HVO, il braccio militare
dell’HDZ. Le HOS hanno la peggio e vengono sciolte. Nonostante ciò
Paraga continua a vivere da uomo libero a Zagabria, dove continua ad essere
un esponente politico di un partito di estrema destra. Nel 1997 ha denunciato
al Tribunale dell’Aja il suo Presidente Tuðman per crimini contro l’umanità,
consegnando plichi di carte e documenti sulle attività sia di Tuðman
che del suo ex Ministro della Difesa ©u1ak, un erzegovese nativo di
Mostar e allora membro molto influente del clan degli erzegovesi presso
il governo di Zagabria.