Università degli studi di Bologna
Scienze della Comunicazione.
Nel Maggio del 1993 Quentin Tarantino, regista appena salito agli onori della cronaca per la sua opera prima "Reservoir dogs", completa la stesura della sceneggiatura di "Pulp Fiction", destinato a diventare nel giro di pochi mesi il caso cinematografico della prima metà degli anni '90. Allo script ha collaborato anche l'amico Roger R. Avary, con cui Tarantino aveva condiviso l'esperienza di lavoro in un videoshop; esperienza, questa, fondamentale nella acquisizione di una straordinaria competenza in materia di materiale video (da Godard al peggiore splatter). La formazione di Tarantino risulta, infatti, ben lontana dall'essere accademizzata, impregnata com'è di sit-com, trash movies, videoclip musicali, musica rock e pop.
Come lo stesso regista ha dichiarato in alcune interviste
rilasciate alla stampa statunitense, il desiderio di realizzare un film
come Pulp Fiction, caratterizzato da una forte prevalenza della
struttura narrativa sul contenuto "morale", lo aveva accompagnato
sin dagli albori della sua carriera. La tradizione cinematografica cui
il film attinge (come già in precedenza per Reservoir Dogs/Le
iene) è quella dei grandi gangster movies di Peckinpah,
De Palma, Godard, Leone; da questi modelli, in particolar modo da Peckinpah,
Tarantino trae la nevroticità del montaggio (fitto di tagli), l'esplicitazione
della violenza, la centralità del criminale. In realtà, vi
è un atteggiamento profondamente diverso in Pulp Fiction
rispetto al gangster movie classico: Tarantino non propone letture
morali, si limita a dipanare una storia, in cui i killer sono una sorta
di "manovali del crimine", le loro azioni appaiono parte del
contesto, la violenza è condizione del mondo. Gli "eroi"
tarantiniani non hanno credibilità, sono come i personaggi dei fumetti,
"stilizzati" e psicologicamente vuoti, seppur rappresentati con
un effetto di iperrealtà; essi non hanno alcuna connotazione sociologica,
non sono altro che degli esecutori, incapaci di collocarsi nel "sistema".
Alle critiche rivoltegli a proposito di questo suo "nichilismo etico",
il regista ha replicato: "Io non mostro eventi. Mi piace che le
cose restino ambigue. Sono interessato solo a raccontare una storia".
Diventa così esplicito come non vi sia nessuna volontà da
parte del regista di veicolare un "messaggio", come Pulp Fiction
non sia altro che la rappresentazione di una realtà culturale e
delle sue icone, attraverso la lente dell'eccesso.
Dal punto di vista della messa in scena Pulp Fiction risulta essere eccessivo, violento, come del resto tutti i film di "orbita tarantiniana", da Reservoir Dogs a True Romance, da Killing Zoe a Natural Born Killers. Proprio con Natural Born Killers (sceneggiato da Tarantino, dallo stesso disconosciuto in seguito a stravolgimenti operati dal regista O. Stone) è possibile stabilire un parallelo: entrambi si collocano in quello che è stato definito il supergenere noir (Ventriglia, G., su Script, n°7/8, 1995), a cui hanno dato il loro contributo in precedenza Lynch, i Coen, Scorsese, Abel Ferrara, Kubrick, Peckinpah. Se nel film di Stone il noir viene rivisitato attraverso un vero e proprio bombardamento di brani video eterogenei, montati a ritmo sincopato, in Pulp Fiction è lo stravolgimento cronologico a spiazzare lo spettatore, che si trova di fronte ad immagini nitidissime, a colori puri, senza grana, iperreali. "In entrambi i casi, i linguaggi popolari - la sit-com, la pulp fiction - vengono stravolti all'interno di un codice riconoscibile e anch'esso popolare, il noir, per creare distanza dall'oggetto reale 'violenza' [...]" (Ventriglia, G., idem).
Dunque, dal lato della struttura narrativa, Pulp Fiction
presenta una caratteristica fondamentale, propria dell'ottica postmoderna:
la non-linearità. Al proposito Tarantino ha sottolineato come l'uso
di un wordprocessor abbia consentito maggiore elasticità
nella redazione della sceneggiatura, aggiungendo così
alla frammentazione del racconto (già attuata, per esempio, da Altman
in "America oggi") l'utilizzo di una complessa serie di
flashback e di flash-forward. In questo senso il regista ha realizzato
la sua idea originaria di un "romanzo sullo schermo", saldando
insieme tre storie concepite singolarmente dai due autori (Avary e lo stesso
Tarantino).
La vittoria di un film atipico come Pulp Fiction ad una manifestazione importante come il festival di Cannes è, già di per sé, un fatto degno di nota; se poi alla Palma d'oro segue un grande successo di pubblico e una vera e propria venerazione da parte della critica, possiamo tranquillamente affermare di trovarci dinnanzi a un vero e proprio "caso".
Le recensioni del film sono state entusiastiche sulla stampa di tutto il mondo, si sono sprecati fiumi di inchiostro per raccontare chi fosse Quentin Tarantino e per lodarne il coraggio nel presentare un'opera originalissima realizzata con un budget (relativamente) limitato. In un certo senso l'esposizione sui media del "fenomeno Pulp Fiction" ha innestato una sorta di escalation di presenza: riconosciuto come cult, ha finito per trovare spazio dovunque e comunque, per essere citato a proposito e non. Per misurare la subitanea celebrità di Tarantino basta contare le biografie che lo riguardano, ben quattro in soli due anni (e con due soli film all'attivo).
Il perché di un simile successo è riconducibile
forse alla notevole modernità (sarebbe meglio dire postmodernità)
del film, capace di mettere d'accordo il grande pubblico e gli intellettuali,
o forse, come ha affermato qualche critico meno accondiscendente, al grande
bisogno, da parte dello star-system, di creare un nuovo idolo e
una nuova ideologia.
Il titolo del film, alla sua uscita, aveva destato interesse
per il richiamo esplicito (Tarantino apre sceneggiatura e film con la definizione
dell'American Heritage Dictionary del termine
Letteratura pulp e fumetti costituirono, assieme al cinema e al grammofono, i primi passi verso quella "serializzazione" della cultura che sarebbe stata tematica centrale nel movimento pop degli anni '60. Non è un caso se artisti come Andy Wahrol (con le sue icone di divi e di status-symbol) e Roy Liechtenstein (con le sue strisce a fumetti gigantografiche) fecero della serialità una loro caratteristica pregnante. La pop-art ricorse spesso al recupero e alla messa in forma enfatizzante di elementi junk (cioè, secondo la definizione dell'Oxford Dictionary, «old useless things»), come per esempio nel celeberrimo quadro di Wahrol sulla Campbell's Soup, nel quale un semplice barattolo di latta viene reso simbolo della società contemporanea, con una dignità pari (nell'intenzione dell'autore) alle opere d'arte più convenzionali.
Proprio in questa attitudine a "riciclare" elementi
di bassa qualità e di provenienza estremamente eterogenea, Tarantino
si avvicina a quell'opera di riassemblaggio e decostruzione propria del
Postmodernismo e del pop. Ma, come vedremo, non vi è alcuna
accezione ideologica o polemica in Pulp Fiction, tanto che, più
che di ricontestualizzazione, sarebbe più corretto parlare di de-contestualizzazione.
Semplicemente il film si presenta come una costruzione eterogenea, nata
dalla fusione di generi narrativi bassi e popolari, che su di essi fonda
il proprio linguaggio, la propria ironia, le proprie modalità di
rappresentazione.
Il retroscena culturale che sta alla radice di Pulp Fiction fa riferimento, come abbiamo detto, alla cultura popolare americana, la cui chiave di comprensione risiede "da qualche parte attorno a noi" (Dunne, 1992). È ora chiaro che Dunne si riferisce ai mass media, fonte precipua di informazione, di entertainment, di opinione. Caratteristica pregnante della fruizione massmediatica è di offrire un panorama vastissimo a livello superficiale: non abbiamo bisogno di leggere e vedere tutto per conoscere l'esistenza di una determinata cosa. La nostra competenza di spettatori televisivi ci consente di collocare semanticamente pressoché ogni proposta che ci giunge dal video, con un complesso lavoro di segmentazione basata sui tratti distintivi di genere. Questi ultimi possono essere costituiti sia da elementi citazionali, sia da aspetti riguardanti schemi narrativi ricorrenti e, quindi, di immediata riconoscibilità .
La riconoscibilità, essenziale in ambiti quale quello dei commercials (dove la contestualizzazione e l'effetto di senso devono potere aver luogo in tempi estremamente ridotti), diviene però un limite qualora si voglia proporre una narrazione non puramente commerciale (è il caso dei video musicali, delle situation comedies, del cinema). In questo secondo ambito, infatti, si rivela necessario ricorrere ad artifici che "rendano possibile una comunicazione retorica che l'eccesso di familiarità avrebbe impedito" (Dunne, 1992); un esempio è costituito dall'utilizzazione dell'autoreferenzialità, propria già di molta letteratura di questo secolo (cfr. "Finnegans Wake" di J.Joyce, i "Sei personaggi..." di Pirandello, "Aspettando Godot" di Beckett), capace di spezzare i momenti di maggior prevedibilità della narrazione.
In Pulp Fiction, che fa sue le modalità comiche della sit-com, l'autoreferenzialità appare spesso, talora velatamente, in altri casi sopra le righe: come, ad esempio, quando Mia Wallace, parlando sull'auto in corsa con Vincent, disegna con il dito in aria un rettangolo, che appare tratteggiato in sovrimpressione, rompendo l'effetto di realtà della scena e ponendo i due personaggi in un ottica, per così dire, fumettistica. I protagonisti del film emergono, a poco a poco, non come esseri umani psicologicamente connotati, ma come "attanti", come appendiabiti su cui vengono poste caratterizzazioni stereotipiche e stilizzazioni: basta pensare a Zucchino e Pasticcino (i due rapinatori con cui il film si apre e si chiude), ironico richiamo a Bonnie & Clyde, o a Jules (il killer interpretato da Samuel L. Jackson) che ha un'acconciatura tipica dei ragazzi di colore dei ghetti nei primi anni '70, come appaiono nei telefilm polizieschi di quel periodo (su tutti il celeberrimo Starsky e Hutch).
L'ironia, il divertimento procurato dal film, richiedono la conoscenza del linguaggio e dei costumi giovanili americani così come sono rappresentati sui media, soprattutto nell'ambito di certa fiction giovanilistica (p. es. Happy Days), di cartoons di culto come quelli di Hanna&Barbera© e della Warner Bros.; così il linguaggio dei protagonisti è quello della TV, delle canzoni rock, degli spot pubblicitari: quando Jules, nella scena finale, si rivolge a Pasticcino (Amanda Plummer) per calmarla, le dice di stare «cool come Fonzie» (letteralmente "fresco", espressione gergale traducibile con "giusto"), con un vistoso contrasto tra la svagata ironia dell'espressione e la (potenziale) drammaticità del momento.
È, insomma, quello parlato in Pulp Fiction,
un linguaggio stereotipato dal punto di vista formale, denso di citazioni
e di termini di paragone pressoché privi di significato: i discorsi
sono dei nonsense puramente riempitivi, i personaggi parlano per
"luoghi comuni massmediatici", non vi è emotività
umana nella loro modalità di ragionamento, tutto appare dal punto
di vista ingenuamente asettico e spesso ridicolo di chi ha una percezione
prettamente cinematografica e televisiva della realtà; si pensi
al lungo, stralunato monologo del Capitano Koons (Cristopher Walken) che
si rivolge al piccolo Butch nell'episodio dell'orologio: di fronte al televisore,
su cui va in onda il celebre disegno animato Speed Racer, il discorso
si srotola in una così surreale, clownesca crudezza da essere assimilabile
(in quanto a credibilità) al cartoon stesso.
Avevamo precedentemente affermato come il Pop rappresentato in Pulp Fiction non risulti tanto un elemento ricontestualizzato, quanto il frutto di una rielaborazione decontestualizzante: il Pop diventa, cioè, una delle componenti del "mosaico junk" , forse quella preponderante, quella più vistosa, e in tale mosaico perde le proprie connotazioni ideologiche, le proprie valenze espressive. Tale processo risulta evidentissimo nella c.d. scena del "Jack Rabbit Slim's", nell'ambito dell'episodio che vede protagonisti Travolta e Uma Thurman (Vincent e Mia): questa scena, che per stessa ammissione del regista ha impegnato circa la metà del budget complessivo del film, è un concentrato, una vera e propria galleria di cultura Junk, in cui si mischiano iconografia Pop e mero kitsch, umorismo da sit-com e musica anni '50.
Il Jack Rabbit (che gli scenografi hanno creato all'interno di un capannone industriale con meticolosa perizia) si presenta già esternamente come un luogo estremamente "artificiale", a dispetto dell'insegna al neon che recita: «Come essere in una macchina del tempo», e che vorrebbe richiamare l'attenzione, quindi, sul realismo dell'ambientazione. All'interno le pareti sono, invece, tappezzate di manifesti cinematografici degli anni '50: Rock All Night, High School Confidential, Attack of the Crab Monster, Machine Gun Kelly. I colori d'ambiente sono particolarmente intensi, i séparé tra i tavoli sono ricavati dalla carrozzeria di automobili dell'epoca: a Mia e Vincent toccherà una Edsel rosso ciliegia del '59, un sogno per i giovani americani del dopoguerra. Il riciclaggio di materiali junk (come, appunto, parti di auto) allo scopo di riutilizzarli come elementi decorativi, o addirittura come opere d'arte, propria del Pop e dell'architettura postmoderna, è stato definito da Mc Luhan "phoenix syndrome", richiamando la capacità della fenice di rigenerarsi dalle ceneri (Silk, 1980). Ma, in questo caso, la phoenix syndrome non produce qualcosa di originale: il Jack Rabbit Slim's è un'accozzaglia di oggetti e di immagini propri della cultura popolare, quest'ultima intesa non come un prodotto di reazione alla cultura egemonica ma, anzi, come una riproduzione acritica di essa; se si assume come definizione di cultura popolare quella di Fiske (qualcosa "fatto dalla gente"), diviene allora molto difficile applicarla al Jack Rabbit Slim's (cfr. Grandi, 1994). I personaggi di Pulp Fiction non vivono una realtà popolare creata a loro misura, si trovano immersi in un mondo preconfezionato, fatto di stereotipi e di modalità di azione "manierate" secondo i dettami dei mass media.
A servire ai tavoli del Jack Rabbit non vi sono semplici camerieri, magari abbigliati in stile Fifties', ma i sosia dei grandi divi di quegli anni: Marilyn Monroe, James Dean, Dean Martin, Jerry Lewis e Buddy Holly. Insorge ora una non semplice questione terminologica: i camerieri sono sosia, doppi, simulacri, stilizzazioni, o quant'altro? Rappresentano qualche cosa, stanno in vece di qualcuno, sono dei falsi?
Innanzitutto dobbiamo escludere che possano essere dei doppi propriamente detti, cioè "repliche assolutamente duplicative" (Eco, 1975): non è possibile clonare in toto un essere umano; ma, d'altra parte, i divi non sono qui contemplati come uomini e donne, bensì come "personaggi pubblici", come icone pop rappresentate su stampa e televisione. Non a caso la Marilyn del Jack Rabbit è vestita non come la "Marilyn reale", ma come quella della fiction cinematografica: addirittura, al sopravvenire del rumore della metropolitana, la cameriera-Monroe si precipita sulla grata di aerazione, riproducendo la celeberrima scena del film di B. Wilder ("Quando la moglie è in vacanza", 1955). Possiamo, allora, ammettere che si tratti di repliche dei divi e non delle persone, repliche riconoscibili immediatamente grazie a quei tratti distintivi derivanti dalla rappresentazione stilizzata dei media (una parrucca biondo platino fa subito venire alla mente Marilyn, un paio di spessi occhiali in resina nera ci ricordano Buddy Holly). L'intenzione non è certo quella di farli riconoscere come falsi, tant'è che il cameriere che serve Vince e Mia ha sul cartellino il nome di Buddy Holly, non il proprio; se prendiamo per buona la definizione di "falso" come "falso segno", allora falso è solo ciò che viene riconosciuto come tale (Eco, 1990), e qui ciò non dovrebbe avvenire. Non dovrebbe, ma per ovvi motivi contestuali (molti personaggi sono già morti, o comunque molto più vecchi di come appaiono nel locale, e risulta comunque pressoché impossibile che siano gli "originali" a servire ai tavoli) avviene; illuminante, al proposito, la battuta di Mia: «Quale? Ci sono due Marilyn Monroe», che palesa la situazione paradossale degli avventori del locale, consapevoli di essere immersi in una finzione, ma che si esprimono come se non lo sapessero.
Queste icone Pop, che negli Stati Uniti hanno raggiunto una vera e propria dimensione mitologica (sino a forme di feticismo che superano di gran lunga il confine del buon gusto [cfr. Twitchell, 1993]), sono del tutto fuori contesto, prive persino delle tradizionali connotazioni stereotipiche; in un certo senso, la loro stereotipizzazione è giunta ad un livello tale da far sì che esse non veicolino più alcun senso preciso, e che possano rivestire solo una vaga funzione scenografica, ambientale. Non si tratta, perciò neppure di repliche di contenuti culturali, il loro type non è una unità di contenuto, si colloca, invece, semplicemente a livello di forma, di espressione (cfr. Eco, 1975).
Il Jack Rabbit Slim's non è altro che uno sfondo divertente e kitsch per il vero soggetto della scena: la discussione (sarebbe meglio dire le quattro chiacchiere) senza tema e senza scopo tra Vincent e Mia, che parlano di bistecche, coca alla vaniglia e cinema trash; insomma un nonsense sostenuto per coprire il "vuoto" imperante.
In una delle tante interviste rilasciate dopo l'improvviso successo, Tarantino, alla richiesta di una definizione complessiva del film, ha risposto: «Pulp Fiction è uno spaghetti western rock'n'roll». Ora, aldilà della battuta, il film è scandito, nella sua bolgia di azione e violenza, da una colonna sonora fatta di brani estremamente eterogenei, a volte sovrapposti all'azione secondo un puro gusto estetico, altre partecipando al gioco dei richiami, dei rimandi, delle citazioni rispetto al retroscena junk. La scelta dei brani (operata dallo stesso Tarantino e dalla sua collaboratrice Karyn Rachtman sulla base del proprio gusto personale e di esigenze di budget, che non permetteva la possibilità di commissionarli) è, dunque, in certi casi volutamente ironica: ad esempio, la rocambolesca fuga in moto di Butch (B. Willis) è accompagnata dal motivo di una famosa serie televisiva dal titolo eloquente: "Ai confini della realtà". Allo stesso modo, Mia si prepara all'uscita con Vincent sulle note di "Girl you'll be a woman soon" degli Urge Overkill, con un contrasto nella sua immagine di "pupa del boss", divisa tra mondanità e infantilismo adolescenziale. Anche la componente musicale non si sottrae, quindi, alla vocazione del film nel recupero e nell'utilizzazione della cultura junk, a cui la musica leggera appartiene di diritto: e Pulp Fiction propone musiche non famosissime presso la massa (da Al Green a Chuck Berry, a Maria Mc Kee), che anzi dal film hanno tratto nuova linfa, e a testimoniarlo sta il successo nelle classifiche della colonna sonora, ma certamente popolari.
È poi da notare che una delle scene più divertenti del film si svolge sulle note di Jungle Boogie: quella della gara di twist vinta da Mia e Vincent al Jack Rabbit Slim's. Il ballo è scatenato, furioso, eppure appare stilizzato: il divertimento deriva dal fatto che i due si muovono come ballerini professionisti su un palcoscenico, tutto appare ben congegnato mentre ci si aspetterebbe maggior improvvisazione. Peraltro in questa scena appare con evidenza un artificio meta-pop: quello di Travolta, killer unto e grassoccio, che "lotta" idealmente contro il fantasma di quel Tony Manero, ballerino snello e muscolare da lui interpretato in The Saturday Night Fever alla fine degli anni '70. La scena si arricchisce così di un ulteriore elemento di interesse, ovvero del confronto indiretto tra un attore, protagonista del film, e uno dei suoi alter ego cinematografici (vero e proprio sex-symbol di quegli anni), il quale fa parte di quella mitologia hollywoodiana che popola il Jack Rabbit Slim's. Il tutto si risolve in un'interpretazione ironicamente autoreferenziale di Travolta, che, come Tarantino stesso ha rivelato, non era assolutamente possibile lasciarsi sfuggire.
Siamo partiti parlando di Pulp Fiction come derivazione postmoderna dei grandi gangster movies degli anni '50 -'60, di cui il film mantiene l'ambientazione violenta (probabilmente accentuandola) rinnovando, però, la struttura narrativa, che rinuncia alla linearità e alla causalità tradizionali in favore di una maggiore complessità. Ciò che caratterizza il film è la mancanza di un'alterità "normale" e moralizzata: alla violenza, all'irrazionalità del comportamento dei protagonisti, non è contrapposto nulla di positivo, l'unico elemento che produce distanziamento da quel mondo è interno ad esso, ed è l'eccesso.
Manca, dunque una "morale" esplicita, un messaggio predefinito, le battute sono vuoto a coprire il vuoto, non vi è in esse volontà critica nei confronti della realtà rappresentata; da esse si ottiene soltanto una visione macro del mondo commerciale. Non a caso il film è percorso da una miriade di discorsi riguardanti il cibo, inseriti in scene di ogni sorta (da quella del Jack Rabbit a quella dell'esecuzione da parte degli esattori-killer Jules e Vince). L'effetto generale delle assurde considerazioni che i protagonisti fanno riguardo il cibo (si va da disquisizioni sul "barbaro" uso europeo di mettere la maionese sulle patatine alla bontà di certi hamburger hawaiani, alla convenienza di un frullato da $5...) fa pensare a un atteggiamento bonariamente derisorio nei confronti delle abitudini alimentari statunitensi.
Rimane la questione del "messaggio" di Pulp
Fiction: è un film piuttosto sui generis, ricco di azione,
lontano anni luce dal tradizionale cinema di parola (alla Ingmar Bergman).
Si potrebbe cedere alla tentazione di liquidarlo come una serie di citazioni
ben assortite, ma come scrive E. Ghezzi nell'edizione italiana della sceneggiatura,
«Tarantino non cita il cinema, non lo prende, lo ruba e lo mangia».
In Pulp Fiction si realizza una sintesi tra il cinema e la cultura
popolare nelle sue svariate forme, dentro c'è tutto quello che un
cittadino medio (americano) può avere visto o sentito. In questo
senso si può dire che è una passeggiata (piuttosto frenetica,
a dire il vero) nella cultura-accozzaglia dei nostri giorni: quattro passi,
appunto, nella junk culture (cfr. Chambers, 1986, 1990).