La dottrina dei tre fini

Giuliano Boccali da Golem.it


Il modello totalizzante dell'India

È stato più volte sottolineato - e dai più grandi studiosi occidentali - che l'induismo non è soltanto una religione, quanto piuttosto "un'intera cultura, un modo di essere e di vivere, di vestirsi, nutrirsi, amare, morire, una serie di abitudini quotidiane che si tramandano da millenni con scrupolosa tenacia in seno a una civiltà tradizionale" (S. Piano).

Questo modo di essere, totale e sottilmente pervasivo, non può non fondarsi sulle risposte agli interrogativi fondamentali dell'esistenza: tra i primi, quello che investe le finalità della vita umana.

Il quesito è stato oggetto in India di una riflessione secolare approfondita ed elaborata, le cui conclusioni formano uno degli aspetti più solidi e condivisi dell'intero induismo.

In questo ambito, la concezione e la prospettiva sulla vecchiaia assumono pieno rilievo e contorni molto ben definiti, che risaltano meglio inquadrati nella dottrina dei "tre fini" dell'esistenza nella sua interezza.

Nel corso di un'esistenza eticamente e religiosamente conforme e compiuta, l'essere umano - più esattamente il maschio appartenente alle tre classi sociali più elevate (brahmani; aristocratici guerrieri; produttori, ossia agricoltori, allevatori, mercanti e artigiani) - si deve proporre l'adempimento di tre fini che si succedono abbastanza distintamente nel tempo in corrispondenza di stadi diversi della vita.

Concluso a sedici anni il periodo dell'istruzione, che comporta il servizio presso un maestro e la castità, il fine del giovane è il kama, "desiderio", cioè il godimento sensuale, non solo sessuale in senso stretto, ma esteso a tutti i piaceri che si offrono attraverso i sensi.

Esso va realizzato preferibilmente nella condizione di capofamiglia (grihastha) con la legittima sposa, che ha nella concezione indiana classica lo stesso diritto al piacere dell'uomo, e si prolunga anche nella maturità, tradizionalmente molto precoce in India.

In questo successivo periodo, tuttavia, il fine principale da perseguire diviene l'artha, letteralmente "scopo, utile", quello che modernamente definiremmo la carriera: la realizzazione dell'attività diversa inerente a ciascuna classe e casta e, attraverso di essa, l'ottenimento del successo, del benessere, della ricchezza.

Il perseguimento di questo secondo scopo non continua però indefinitamente: indipendentemente dalle proprie condizioni di salute, infatti, dopo la nascita del primo nipote maschio gli anziani coniugi mutano radicalmente stile di vita.

Lasciano la residenza familiare, nel villaggio o in città, e si ritirano nella foresta o comunque nella natura ai margini dell'abitato.

Qui dimorano in una semplice capanna e lasciano anche ogni occupazione abituale per condurre una vita molto parca, dedita al compimento dei riti religiosi e soprattutto alla lettura e meditazione dei testi sacri, alcuni dei quali dedicati proprio a questo periodo e chiamati perciò "Libri delle selve".

Così per esempio nella genealogia semileggendaria di Rama, eroico modello del sovrano perfetto e manifestazione terrena del Dio supremo Vishnu, mentre Aja governa il regno, suo padre Raghu, fondatore del lignaggio, è dedito nel ritiro silvestre a governare attraverso la contemplazione il proprio respiro, a raccogliere la mente nella meditazione, a perfezionare l'equanimità con l'aspirazione alla conoscenza della realtà suprema.

Il terzo fine, da adempiere nella condizione di chi risiede nella selva (vanaprastha), è infatti il dharma, "giustizia, legge religiosa", corrispondente in questa accezione a quella che in Occidente si chiamerebbe vita o cura spirituale.

La dottrina qui illustrata in breve è detta trivarga, "tre obiettivi, tre fini", e in essa la terza età (tale era anche nell'antica scansione indiana della vita) è interamente dedicata al dharma.

Ma è sempre il dharma, la legge sacra profondamente inerente all'ordine dell'universo, naturale e sociale, a richiedere anche la realizzazione dei due fini che lo precedono nel dispiegamento temporale della vita e a determinare le norme e i limiti del loro compimento, opportunamente graduandoli e armonizzandoli.

La terza età acquisisce di conseguenza un rilievo particolare e insostituibile: a tutte le età dell'uomo è intrinseco un compito ineludibile, ma è proprio la vecchiaia - con l'adempimento del dharma - a fondare nell'obiettività della vita e a colmare di senso le altre due età (tre in realtà, con il periodo della crescita e dell'educazione) che la precedono nel tempo.

La dottrina dei tre fini prefigura dunque e prescrive una realizzazione integrale della vita secondo valori che potremmo chiamare umanistici, sanzionati e santificati anche dal punto di vista più elevato e universale dell'ordine sociocosmico cioè, in termini occidentali, della legge religiosa ed etica: all'interno di questa concezione, la vecchiaia è ben lontana dal rappresentare la fase del declino, ma quella primaria che assicura all'individuo e alla società la dimensione della concentrazione verso i valori più alti dell'equanimità, del distacco, della conoscenza.

Giuliano Boccali da Golem.it



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