Alpinismo Extra Europeo

Karakorum 93

Relazione di Giacomo Scaccabarozzi

 

Dell'Himalaya abbiamo imparato in tanti anni a conoscere non più di una quarantina di nomi; questo perché la frenetica corsa ai suoi 8.000, avvenuta negli ultimi quarant'anni, ha fatto passare in secondo piano le cosiddette cime minori. A parte le 14 cime maggiori, infatti, possiamo dire di conoscere poco i nomi dei 7.000 e pochissimo quelli dei 6.000. Se si pensa poi che, delle 436 vette che superano in altezza i 7.000 metri, e del numero indefinito di quelle oltre i 6.000, più del 50% è ancora inviolato, si può capire la vastità dell'argomento.

 

La nostra idea era quella di andare a esplorare una zona del Karakorum, nel Pakistan settentrionale, non solo per cercare di conoscere i suoi abitanti, i misteriosi e affascinanti Hunza, ma anche per individuare una via di salita a una vetta inviolata della zona, da dove avremmo voluto scendere col parapendio.

 

Un compito molto impegnativo, tanto più considerando che contavamo di organizzare tutto quanto senza alcun aiuto esterno di agenzie. Inoltre, il conseguimento di tutti gli obiettivi che ci proponevamo poteva rappresentare il raggiungimento dei nostri limiti, fisici, tecnici e, soprattutto, organizzativi. Ma l'idea di andare a visitare quelle che vengono ritenute come le montagne più belle del mondo ci dava una carica particolare.

La catena del Karakorum rappresenta la parte più occidentale dell'Himalaya; è lunga poco più di 400 chilometri (un po' meno delle Alpi), larga oltre 300 e ospita alcune delle cime più elevate della Terra, quattro delle quali superiori agli 8.000 metri; tra queste spicca il K2, la seconda vetta più alta del mondo; vi sono ospitate, inoltre, un centinaio di vette superiori ai 7.000 metri, il 40% delle quali ancora inviolate. In una delle sue zone più remote e mai raggiunta da alcun tipo di turismo si trova la valle di Shimshal, abitata dagli Hunza, un popolo balzato alla notorietà come portatori d'alta quota durante le spedizioni al Nanga Parbat (1953) e al K2 (1954), ma che continua a mantenere numerosi misteri riguardo le sue origini, la sua longevità e le sue strane abitudini di vita. Quando l'amico Augusto Zanotti di Albino ci parlò di questo angolo del mondo, da lui solo sfiorato durante una delle sue tante esplorazioni, ci fece subito entusiasmare, e quando ci mostrò la foto del versante meridionale della montagna più bella di questa zona ce ne innamorammo immediatamente: il Lupghar Sar, di 7.200 metri di quota, una montagna complessa e inviolata, dalla bellezza incontaminata e dall'isolamento pressoché totale e i cui ghiacciai settentrionali davano proprio sulla valle di Shimshal.

 

 

"La valle in cui siamo capitati da quasi un mese ci fa respirare aria di avventura a ogni passo. È il 25 agosto, abbiamo ancora dieci giorni da passare in questo Paese, ma il clima di smobilitazione mi riporta già indietro coi ricordi. La nera pietraia che ricopre per alcuni chilometri il ghiacciaio di Momhil lascia poco spazio alla fantasia. Vi sto camminando da alcune ore; sotto di essa il ghiacciaio crepita, si spezza, brontola, si scopre e riaffiora con impeti violenti, scorre come un fiume infido e placido al tempo stesso. Gli occhi fissi a terra sono rapiti senza volerlo dai piedi che mi camminano davanti: sono quelli di alcuni portatori che stanno scendendo con me gli oltre venti chilometri di questo ghiacciaio himalayano. Non sono scalzi, ma è come se lo fossero, ricoperti come sono da vecchie scarpe da tennis o da misere calzature fatte di tela e stracci. Alzando lo sguardo non posso fare a meno di notare le acrobazie che sono costretti a compiere per poter rimanere in equilibrio su questo terreno insidioso. Piove e ognuno di loro ha in spalla carichi di oltre trenta chilogrammi; alcuni ne hanno più di cinquanta.

La nostra piccola spedizione sta volgendo al termine; sono arrivato in Pakistan con altri cinque amici il 29 luglio, e nella Shimshal Valley cinque giorni dopo; più che una valle, quella di Shimshal è uno stretto budello scavato da un fiume impetuoso che raccoglie le nere acque di alcuni grandi ghiacciai prima di gettarsi in quelle altrettanto nere dell'Hunza. Un canyon da brividi lungo oltre 60 chilometri e dominato da migliaia di metri di roccia verticale, estremo lembo delle terre Hunza non ancora scoperto dal turismo di massa, porta di accesso ad alcuni dei ghiacciai più selvaggi del Karakorum nordoccidentale. Il più esteso di questi, laterale della Shimshal Valley, è appunto quello di Momhil, coi suoi 25 chilometri di tormentate crepacciate. Più su, nella valle, a 3100 metri di quota, il villaggio di Shimshal è abitato da secoli da un'antica comunità di gente sempre pronta al sorriso, gente Hunza, veri signori di queste terre.

Neppure loro, però, conoscono bene le proprie valli, i propri ghiacciai e le proprie montagne. Troppo selvaggi, e troppo breve la bella stagione perché gruppi di alpinisti si sentano attratti a spingersi fin qui. Dopo giapponesi, tedeschi e coreani, siamo arrivati noi con in testa idee strane al riguardo. Nessuno ha mai salito cime da questo versante, pochissimi si sono dannati a limare suole e infiammare tendini su queste morene, pochi hanno perso tempo a parlare di queste zone. La nostra piccola spedizione, più che da obiettivi alpinistici, era mossa dalla curiosità di conoscere nuove terre e genti sconosciute, da altri solo sfiorate, di esplorare e scoprire il perché di tanto oblio per delle montagne famose solo per la loro inaccessibilità, o perché offrono sconti per altri versanti. Alcune di queste, nonostante la bellezza delle forme, sono ancora inviolate. Momhil, Trivor, Distaghil, Bularung, Ambarin, Lupghar, Chikkorin, Dut sono solo alcuni dei nomi delle cime che fanno da spettacolare corona al bacino glaciale dentro il quale ci siamo mossi per quasi un mese e che superano abbondantemente i 7000 metri.

 

Agosto doveva essere il mese perfetto per visitare questa zona del Karakorum quasi al confine con la Cina e i suoi deserti del Sinkiang. Siamo arrivati quassù il 7 agosto; già il mese volge al termine e siamo ancora alla ricerca di quella stabilità climatica tanto desiderata e, purtroppo, venuta a mancare. Ma penso che sia andata bene anche così; gli elementi naturali hanno completato il quadro di selvaggia solitudine che abbiamo a lungo respirato, e senza di essi non sarebbe stata la stessa cosa. Il nostro programma alpinistico si è risolto così nei soli due giorni consecutivi di bel tempo. Un campo base nel verde dei 4000 metri, punteggiato da una incredibile varietà di fiori, riparato dal gelido e incontaminato ghiacciaio di Momhil da un'altissima morena, era quello che ognuno di noi sognava. Dopo cinque giorni di avvicinamento, su e giù per gole, morene e ghiacci sconvolti, trovare una dolcezza simile è stato sbalorditivo, anche se è stato arduo organizzarci con un programma alpinistico, distante com'era dalla "nostra" montagna.

I crepitii del ghiacciaio e i boati delle valanghe a ogni ora non ci hanno concesso sonni molto tranquilli. Nonostante i bei momenti passati nel saliscendi dei meandri del Momhil tra vele altissime, profondi crepacci, morene ridicole e di aspetto continuamente mutevole, sono occorsi parecchi giorni di esplorazione prima di trovare la via per arrivare ai piedi della "nostra" montagna. Ci sono voluti ancora parecchi giorni prima di riuscire a vederla.

È stata una lunga esplorazione che è servita anche per renderci familiare un ambiente dove la natura primordiale regna sovrana. Più volte ci ha investito con la coda di immani valanghe, ci ha inzuppato di neve fino alla vita e ci ha svegliato di soprassalto coi suoi fragori. Ma ci ha anche regalato la possibilità di compiere delle esperienze uniche, come quella del volo col parapendio da 6000 metri: un mezzo per noi nuovo col quale vivere altre emozioni irripetibili, un'esperienza da farci restare senza fiato. Trovare ora le parole per descriverla è compito arduo; è stato eccitante vedere il gigantesco ghiacciaio farsi piccolo piccolo sotto i nostri piedi e librarsi leggeri al fianco di simili colossi, fino ad arrivare quasi a sfiorarli, sentendosi un tutt'uno con una natura mai immaginata prima. E, come se non bastasse, una volta atterrati trovarsi avvolti dal calore e dall'entusiastico affetto degli amici Hunza che ci hanno seguito in questa avventura. Emozioni intense e forti che il trascorrere del tempo potrà difficilmente cancellare dai nostri ricordi.

Abbiamo avuto modo di constatare quante possibilità possa ancora offrire questo magnifico pianeta. Basta saper cercare e saper fare a meno dell'elicottero e del satellite. Ai nostri sponsor racconteremo soprattutto questo; la vetta non è la meta. La nostra era il Lupghar Sar: " ... una montagna molto difficile e pericolosa, mai salita prima, e dove l'anno scorso sono scomparsi due alpinisti coreani... " ci disse l'ufficiale di collegamento al nostro arrivo quaggiù.

 

" Ritenetevi liberi di ricercare altre mete. Per quel che mi riguarda, a Momhil potrete fare quello che vorrete "

Con queste ultime parole Rahmat Ullah ci aveva consolato delle prime, e dopo essere tornati scoraggiati da una prima visita al canalone nord della "nostra" montagna, non ci siamo fatti pregare: il 14 agosto, una settimana dopo il nostro arrivo quassù, ci siamo messi in cammino sulle infinite pietraie disseminate ai piedi di una montagna che nessuna carta riportava, ma che sembrava fatta apposta per il nostro acclimatamento, trovandosi sulla verticale del nostro campo. Dal basso sembrava l'unica cima di tutta la valle, priva di pericoli e comunque accessibile. Il nostro Rahmat, da noi "armato" di ramponi, ghette e piccozza, ci aveva seguito entusiasta. Giunti ai primi nevai, l'altimetro segnava già 5200 metri, e la cima era ancora di là da venire. La raggiungemmo, dopo nove ore ininterrotte di salita, accorgendoci di essere a più di 6200 metri. Un sorrisetto malizioso disegnato sul volto di Rahmat mi aveva fatto capire che il nostro amico la sapeva più lunga di quanto pensassi: secondo lui il Chikkorin Sar avrebbe dovuto misurare 5200 metri.

Questa è la gente Hunza, sempre disposta al sorriso e quasi mai a rispettare le regole. Gente di cuore, che sa essere amica.

 

Gli occhi colmi di panorami e di orizzonti ammirati da quella prima cima ci avevano reso impazienti di tentare nuove esperienze, nonostante il brusco cambiamento delle condizioni meteorologiche intervenuto nei giorni successivi. Il gioco cominciava a divertirci e volevamo riprovarci subito. Altre cime tanto vicine al campo base non ce n'erano, soltanto una svettava proprio di fronte, sul versante opposto del ghiacciaio di Momhil: il Dut Sar, di metri 6850, ma faceva paura solo a vederla. La parete nord, alta quasi 3000 metri, vomitava ghiaccio in continuazione, tonnellate di ghiaccio. Bella e impossibile.

L'unica possibilità di poter aggirare i suoi impeti mostruosi era rappresentata dalla cresta est, molto distante da noi, ma abbastanza sicura.

Grazie all'incessante lavoro dei miei compagni, tra una schiarita e l'altra, eravamo riusciti a portare parecchio materiale ai piedi di questa cresta, proprio dove si incontrano le pareti sud del Dut Sar e quelle nord del Lupghar. Quest'ultimo era il nostro obiettivo ma, nel vederlo così da vicino, avevamo capito subito quanto azzardo c'era stato nello sceglierlo senza averlo mai visto.

Era un luogo selvaggio e dall'isolamento totale, dove i "bombardamenti" si sprecavano e, nelle giornate di cattivo tempo, faceva venire forte la voglia di tornare subito a casa. Eppure era un luogo affascinante.

 

Rahmat Ullah, a riposo forzato per il troppo stress, o per l'appagamento seguito alla sua "stoica" ascensione, non aveva voluto neppure sapere quale fosse la nostra meta. Si era raccomandato solamente di comunicargli via radio eventuali necessità di intervento.

Il 20 agosto, alla prima giornata di sole, siamo dunque risaliti a quel campo situato a 5000 metri. Io e Riccardo eravamo fiduciosi, ma dopo aver pesato gli zaini ci eravamo accorti una volta di più di quanto fosse dura l'avventura: da quota 5000 a 6800 metri, infatti, ci sarebbe voluto un campo intermedio; troppo peso però per tenda e sacchi a pelo, tanto più nella neve profonda. E poi, su di una cresta così, dove si poteva trovare un posto adatto per una tenda, pur piccola come la nostra?

C'era anche l'incognita del tempo: non si erano ancora viste due giornate consecutive di sole. Decidemmo di partire con le sole corde e gli attrezzi da ghiaccio, molto leggeri, per essere il più veloci possibile. Gli altri compagni avrebbero atteso nostre notizie al campo base.

Con pendii oltre i 60 gradi e la neve fino al ginocchio, la salita si era fatta subito dura. In alcuni punti sembrava che dovesse crollarci tutto addosso; la troppa neve accumulatasi nei giorni precedenti non ci permetteva di godere appieno degli scenari superbi che si dischiudevano man mano che salivamo.

La giornata era stupenda, ma gli scorci che ci lasciavamo alle spalle erano impressionanti: conveniva proseguire ancora? Bella domanda; l'euforia d'alta quota può fare brutti scherzi. Ma prima che la situazione precipitasse ci eravamo accorti che la grossa cornice che avevamo sopra la testa era quella della vetta.

 

Erano le 16.30 del 21 agosto, il Dut Sar, 6850 metri, si era lasciato salire. Dovevamo però ancora scendere! Foto, strette di mano, tè; non c'era stato il tempo per tutto questo. Solo un'occhiata al Lupghar, tanto vicino che sembrava sorriderci beffardo vedendo in che situazione ci trovavamo.

Solo dopo 22 calate da 70 metri, dopo 5 ore di docce gelate, freddo e sete, quando raggiungemmo il puntino rosso nel cuore della notte, ci rendemmo conto della nostra impresa e dei rischi che avevamo corso.

Grazie alla fortuna, a Riccardo e a Rahmat.

Al ritorno al campo base, due giorni dopo, gli amici Hunza ci accolsero con gioia: la notizia della prima salita a una loro vetta li aveva entusiasmati.

Dal sorriso di questa gente abbiamo imparato che nella vita si può essere felici e disponibili con il prossimo anche se in tasca si ha poco. È in altri posti che bisogna avere qualcosa. Sono sicuro che ci porteremo a lungo nel cuore i modi semplici e generosi di questi montanari.

 

Assopito in questi pensieri, quasi a scacciare la tristezza del momento, alzo la testa e mi trovo solo sulla distesa sconfinata di questo grigio ghiacciaio. Senza la presenza rassicurante dei portatori mi sento perso, il ghiaccio sale e scende sotto il pietrame come in un Luna Park che non mi diverte più. Quando i miei piedi cominciano a bollire trovo finalmente gli amici Hunza dietro una grande duna di ghiaccio; mi rendo conto che è fin troppo facile apprezzare questa gente, misteriosa fin che si vuole, ma per la quale stima, amicizia e sorrisi hanno più valore della pur sudata paga giornaliera di portatore. Meno facile è farci apprezzare da essa. Ma nonostante tutto, ho la sensazione che, una volta conclusa questa avventura, anche ai nostri amici indigeni resterà qualcosa di noi.

Se così fosse la nostra spedizione avrebbe raggiunto il suo obiettivo principale; il Lupghar, grande e superbo signore di queste valli, continuerà a dominare a lungo immacolato su di esse, ma non tormenterà più i nostri sonni".

 

 

Componenti della "Karakorum Explorer Expedition '93":

 

Dino Cazzaniga (1966), di Missaglia,

Riccardo Verderio (1964), di Carugate,

Daniela Vanzini (1958), di Milano,

Piercarlo Poletti (1953), di Milano,

Claudio Ghezzi (1952), di Missaglia e

Giacomo Scaccabarozzi (1951), di Missaglia.

 

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