Anche a Sarajevo stava arrivando l’autunno del 1993.
Prima di prendere il treno che da Padova mi avrebbe portato ad
Ancona, mi fermai in un negozietto di frutta e verdura e comprai tre pomodori
non troppo maturi.
Mentre ero sull’aereo dell’ONU che da Falconara faceva il
ponte con la gente di quella città, decisi in modo definitivo che il contributo
più grande che potevo portare era la mia piccola persona. Del resto cosa altro
potevo portare, non ho mai avuto un soldo, non parlo più l’inglese dal 1986,
non sono un diplomatico professionista che spesso lavora, di fatto, per
garantire il mantenimento del potere economico; non sono neanche un cardinale,
di quelli che impartiscono benedizioni agli eserciti e ai morti ammazzati, tanto
non costa niente se non a ricordare che il potere temporale della chiesa è
inviolabile. Solo la chiesa può permettersi il lusso di stare con i ricchi dal
lunedì al venerdì e il sabato e la domenica con la gente normale. In quei due
giorni dedicati alla preghiera si parla solo di Dio, che la chiesa stessa ha
incarcerato dentro un muro guardato a vista con tanto di lumini, trasformandosi
in sepolcro imbiancato.
Tutti gli aerei che andavano a Sarajevo portavano aiuti
umanitari; tonnellate di generi alimentari stivati in enormi e pesantissimi
pacchi. Sempre, guardando questi pacchi, vivevo momenti di rabbia, perché tutto
quel ben di Dio veniva acquistato da coloro che per mantenere la supremazia nel
mondo, trasformano gli esseri umani in numeri. Per far tornare i loro conti, i
grandi dell’economia compiono addizioni e sottrazioni; per loro le persone
sono solo numeri e sono numeri anche i signori della guerra e degli eserciti.
Gli aiuti umanitari sono un numero, un pacco di farina è un numero, come la
matricola di un soldato, il conto corrente della Croce Rossa; anche la conta dei
morti ammazzati la si fa con i numeri. Oggi un morto… oggi mille chili di
farina… oggi cento lire a testa per mandare i nostri soldati a garantire la
pace… È tutto un aiuto umanitario!
Io non volevo essere un aiuto umanitario e diventare ancora
una volta strumento al servizio di un potere, di un’economia, di una cultura,
di una religiosità che non mi appartiene.
Volevo solo portare la mia piccola persona dentro quella
guerra e sperimentare con quella gente percorsi diversi per dar senso alla vita
e alle relazioni umane, pensando e progettando un mondo diverso.
Una volta arrivato all’aeroporto di Sarajevo, alle ore 8:30,
per arrivare in città, che dista circa 8 chilometri, impiegai dodici ore.
Cinquantacinque minuti di volo da Falconara a Sarajevo e
dodici ore per entrare in città. I tre pomodori, intanto erano diventati uno.
Il giorno seguente andai a trovare due amici, sposi: Fatìma e
Sheriff. Misi nelle mani di lei tutto quello che avevo di commestibile:
l’ultimo pomodoro rimasto. "Non ho altro", dissi, provando un senso
di vergogna per il niente che avevo portato.
Sapevano che dicevo la verità, e lei piangendo, perché erano
due anni che non mangiava pomodori, rispose che quello era oro, era Dio in
persona. Lui, commosso, mi disse: "Tu, Gigi, sei Italiano, cattolico; io
sono Bosgnacco… e musulmano, ma Dio è uno solo e Dio sta con la povera gente:
è lì, dentro il pomodoro."
Senza volerlo, un nonno mi aveva spiegato che Dio non sta
dentro gli aiuti umanitari gestiti dalle superpotenze, ma in un atto d’amore,
fatto con semplicità. Le lacrime che mi scesero dalle guance fino a bagnare le
labbra, sono ancora per me alimento di fiducia. Dio che si era fatto pomodoro
sancì anche l’eterna alleanza fra due uomini che non volevano essere
omologati.
Sheriff e Fatìma dividevano tutto con tutti: i bambini, i
vecchi, poveri anche prima della guerra, erano il centro delle loro attenzioni.
Sheriff mi diceva sempre che tutto quello che abbiamo lo dobbiamo dividere perché
è tutto di Dio… per un amico dobbiamo dare anche la vita. Sheriff mi diceva
che non dovevo arrabbiarmi a causa dei capi religiosi, quelli che fanno
politica, loro non sanno niente della povera gente; bisogna fare le cose con il
cuore e avere sempre fiducia.
Sheriff, alla gente di Sarajevo e a noi dei Beati i
Costruttori di Pace, il cuore l’ha dato davvero. Sheriff è un uomo giusto e
buono perché dice che i criminali di guerra non vanno ammazzati come bestie, ma
processati con giustizia. Tra me pensavo che se fossi presidente, nominerei
Sheriff ministro di Grazia e Giustizia a vita.
Grazie, Sheriff e grazie Fatìma, con voi la storia è
diventata più colorata.
Sheriff e Fatìma erano amici di Moreno: il giorno che fu
barbaramente ucciso, Fatìma lavò con acqua e lacrime la giacca inzuppata del
suo sangue. Raramente ho trovato, qua in Italia, quel rispetto laico e profondo
verso noi che siamo rimasti vivi; Fatìma e Sheriff non sapevano cosa fosse la
nonviolenza, forse ce l’avevano dentro l’animo ed è per questo forse che
l’alleanza creatasi prima perdura ancora.