LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

PERSONAGGI

 

GIANNI GIRONE: ATTENTO MODELLATORE IN FERRO BATTUTO

Si riporta il ricordo che di Gianni Girone ne ha scritto Luigi Botta

Sovente non posso fare a meno di pensare a coloro che, soprattutto amici, nel corso degli ultimi tempi ci hanno lasciati per raggiungere il luogo ove i saviglianesi vanno definitivamente a riposare. Non è piacevole, tutti lo sanno, ma una realtà! I pensieri si sovrappongono ed una figura, più di altre, torna alla memoria tra quelle che hanno lasciato un grande vuoto intorno a noi, facendosi rimpiangere per quanto hanno fatto, per quanto hanno saputo e voluto fare e per la sensibilità con la quale si sono adoperati per la loro città. Mi riferisco a Gianni Girone: un amico del quale non voglio ricordare i meriti -che già altri hanno egregiamente elencato- ma che mi preme, come omaggio dovuto, farli rivivere attraverso alcune mie sensazioni.

Forse unico tra tutti gli amici, mi chiamava confidenzialmente «Gigio»: non ne so il motivo e tanto meno voglio saperlo. Forse per accrescere quel tono confidenziale che con lui era inevitabile. La sua tranquillità, il suo taglio meditativo, la sua voce sempre impostata sul sereno, il suo desiderio di non mai scontrarsi con alcuno, la sua bontà d'animo, il suo impegno sociale e lavorativo, la ricercata modestia nelle sue considerazioni, la pacca sulle spalle che risolveva sempre ogni cosa indirizzandola positivamente, facevano di lui, in un mondo frenetico e selettivo, un personaggio raro.

Nella sua «fucina» di via Raviagna era proprio così; non soltanto con me, immagino, ma con tutti. Ogni cosa, anche la più difficile, nelle sue mani trovava un'adeguata soluzione. Che costruiva con testardaggine e competenza, ma anche con l'umiltà del consiglio chiesto a chiunque e ricevuto da chiunque potesse fornire aiuto.

Lo conoscevo più o meno da venticinque anni. E solo in tempi recenti, quando ormai le sue certezze di lavoro si erano scontrate con le sue incertezze di salute, avevo osato gettar là un'idea che nella mia mente era tutta una provocazione che lui, e credo soltanto lui, avrebbe potuto accettare.

Mentre mi chiedeva consigli circa un lavoro particolarmente complesso, lo osservai con attenzione: il suo passo (che sembrava stanco ma non era mai cambiato), il suo capo ricurvo, rivolto verso il lavoro, illuminato di traverso da quel po' di luce che caratterizzava l'antro del suo quotidiano impegno lavorativo. Il suo aspetto buono, infinitamente buono.

«Chissà perché -gli dissi- tu che hai segnato la nostra città con lavori di grande qualità e che sarai ricordato per aver modellato il metallo quasi come il burro, non ti impegni in un'opera destinata a lasciare veramente il segno, destinata a finire sui libri che in futuro parleranno della Savigliano di questa nostra epoca».

Sollevò appena gli occhi e mi guardò perplesso. Sapeva che a me piacciono le provocazioni e che sono proprio le provocazioni, e non le normalità, a lasciare il segno. Mi scrutò cercando di intuire quale follia gli avrei proposto. «Disme!», accennò flebilmente quasi impaurito, un po' sulle sue. Partii da lontano, narrandogli dei lavori di un tempo, della povertà della gente dei nostri luoghi, delle prime industrie, degli sfruttamenti manufatturieri. Feci raccontare a lui stesso, perché ne era al corrente, di quando tutte le nostre famiglie, per arrotondare lo stipendio condividevano la camera da letto con migliaia e migliaia di bozzoli di bachi da seta. Parlammo del gelso, che dava sostentamento agli animaletti concedendo ai ceti meno abbienti di Savigliano e dintorni di sopravvivere. Fu proprio lui a dirmi che dalla campagna questi alberi erano quasi completamente scomparsi.

Lì ebbi il coraggio di fargli la folle proposta. Invitarlo ad omaggiare i nostri antenati in modo sublime realizzando in metallo, a grandezza naturale, proprio quel gelso che per la nostra città aveva significato moltissimo. Realizzarlo, foglia dopo foglia, rametto dopo rametto, per poi donarlo alla comunità e trasformarlo in un monumento unico al mondo.

Gianni non ebbe esitazione, non ci pensò che pochi secondi. Mi rispose di si, che quella follia si poteva fare. Non subito, ma subito dopo, quando sarebbe andato in pensione, intendendo con questo il momento, auspicato, del ritiro a vita privata.

Gianni se nè andato: dalla sua celletta in camposanto potrà osservare i gradevoli lavori in ferro battuto disseminati qua e là, realizzati da un uomo forse come lui o diverso da lui, quel Virgilio Vineis che segnò, col suo martello di fabbro, l'alto profilo di una città, Savigliano, che stava transitando tra il penultimo e l'ultimo secolo prima del duemila.

Il gelso in metallo forse rimarrà un sogno. Per me è realtà.

luigi botta

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