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La storia non è quasi mai dolce. Ma ogni dolce ha la
sua storia.e…siccome
anche un piccolo buon sapore ha sempre la meglio su dissapori grandi o piccoli
che siano, ti riportiamo alcune famose dolci storie della nostra cultura PARTENOPE...A
la Sfogliatella
il Babà i Taralli
LA STORIA DELLA
SFOGLIATELLA (Partenopea)
A volte faticosamente ricostruita, una storia è in
qualche caso spudoratamente inventata.
La storia della sfogliatella appartiene alla prima
categoria. Di questo dolce tipicamente partenopeo si può tracciare una precisa
topomonastica. Avete letto bene;
topomonastica, perché il topos della sfogliatella è un monastero. Quello di
Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel
sacro luogo si pregava tanto, ma, trattandosi di un convento di clausura, non si poteva andare da
nessuna parte, e quindi di tempo libero
ce n’era in abbondanza. Una parte di
esso veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le
monache avevano il loro orto e la loro vigna, così da ridurre i contatti con
l’esterno, e amplificare quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo
facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu era uguale
per tutte (ci mancherebbe): soltanto le monache anziane potevano godere di un
vitto speciale, fatto di nutrienti minestrine.
Un giorno di 400 anni fa (siamo nel 600) la suora
addetta alla cucina si accorse che era avanzata un po’ di semola cotta nel latte.
Buttarla, non se ne parlava proprio. Fu così che, ispirata dall’Alto, la cuoca
ci buttò dentro un po’ di frutta secca, di zucchero e di liquore al limone.
“Potrebbe essere un ripieno”, si disse. Ma cosa poteva metterci sopra e sotto?
Preparò allora due sfoglie di pasta aggiungendovi
strutto e vino bianco, e ci sistemò in mezzo il ripieno. Poi, siccome anche in
un convento l’occhio vuole la sua parte, sollevò un po’ la sfoglia superiore,
dandole la forma di un cappuccio di
monaco, e infornò il tutto. La Madre Superiora sulle prime fiutò il dolce
appena sfornato, e subito dopo fiutò l’affare; con quest’invenzione benedetta
(e ancor meglio fatta) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che
alle casse del convento. La clausura
non veniva messa in pericolo: il dolce veniva messo sulla classica ruota, in
uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo, in entrata, qualche moneta. A questo
dolce venne dato, inevitabilmente, il nome della Santa a cui era dedicato il
convento. Come tutti i doni di Dio, la Santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo,
per la gioia di pochi. La divina Provvidenza è un po’ come la dieta: funziona,
ma non bisogna darle fretta. La santarosa ci mise circa centocinquant’anni per
percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui arrivò ai primi
dell’800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro. I napoletani staranno
protestando: ma no!, Pintauro è un pasticciere, e non un oste. Invece nei giorni di cui stiamo parlando era
effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte a Santa
Brigida. Che rimase un’osteria fino al
1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, per una via che non è mai stata
chiarita, della ricetta originale della santarosa. Quell’anno ci furono due conversioni:
Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertì in un
laboratorio dolciario.
Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la
modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la
protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua
varietà più famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma
triangolare, a conchiglia, vagamente rococò (con una sola c, da non confondersi
con il roccocò, altro famoso dolce napoletano). Oggi la sfogliatella si può
assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con soddisfazione. Se si cerca
l’eccellenza, la bottega di Pintauro sta sempre là: ha cambiato gestione, ma
non il nome e l’insegna, e nemmeno la qualità. Che resta quella di quasi
duecento anni fa.
Al viaggiatore che arriva alla stazione di Napoli, o che abbia almeno venti minuti fra
un treno e l’altro, si consiglia di fare
un salto da Attanasio, a Vico Ferrovia, che sforna sfogliatelle calde a getto
continuo. Sulla sua “puteca” c’è scritto: “Napule tre cose tene belle: ‘o mare,
‘o Vesuvio, e ‘e sfugliatelle”. Un
‘avvertenza: storditi dal profumo della sfogliatella appena sfornata, ormai
nelle vostre mani, evitate di addentarla voracemente. La caratteristica sfoglia
lamellare è calda, ma il ripieno di ricotta è rovente.
LA STORIA DEL BABA' (Partenopeo)
“C’era una
volta....un Re, diranno i miei piccoli amici”. Così comincia Pinocchio, una
delle favole più belle della storia.
Nella storia del babà il Re c’è davvero, e non è un
personaggio fiabesco: è nientedimeno che Stanislao Leszczinski, re di Polonia
dal 1704 al 1735.
Stanislao era diventato re a meno di trent’anni,
grazie all’appoggio di Carlo XII di Svezia. Qualche anno dopo (era il 1735)
Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie, si dimostrò molto più grande del re
svedese e di quello polacco: insieme ai suoi alleati, la Prussia e
l’Austria, mosse loro guerra, e li sconfisse. Stanislao però non era uno
qualunque. Era il suocero di Luigi XV di Francia, che aveva sposato sua figlia
Maria. Per questo motivo, dopo averlo detronizzato, come contentino gli
diedero il Ducato di Lorena. Lui non ne fu troppo contento, ma si adeguò.
Privato del Regno di Polonia, e costretto in un
quel piccolo regno privato, Stani si annoiava. Siccome c’aveva un sacco di
tempo libero, si circondò di filosofi e scienziati, e si mise a studiare.
Studia che ti studia, finì per mettere a punto un programma di collaborazione
internazionale e di integrazione europea: la prima versione della UE, a memoria
d’uomo.
Sulla carta, il progetto era splendido, ma l’ex
monarca sapeva di non avere alcuna possibilità di attuarlo: era senza corona, e
quindi senza alcun peso.
Questo stato di cose gli dava molta amarezza. Per
combatterla, Stanislao aveva bisogno tutti i giorni di qualcosa di dolce.
Accontentarlo,però, non era facile: i pasticcieri lorenesi dovevano lambiccarsi
continuamente il cervello per preparargli qualcosa di nuovo.
Ma di fantasia ne avevano pochina, e così due giorni
su tre al povero ex sovrano veniva servito il “kugelhupf”, un dolce
tipico di quel territorio, fatto di con farina finissima, burro, zucchero, uova
e uva sultanina. All’impasto veniva aggiunto lievito di birra, fino ad ottenere
una pasta soffice e spugnosa. Stanislao il kugelhupf non lo poteva
soffrire. Non che fosse cattivo: ma era, come dire, un po’ fesso, privo di
personalità. E poi era asciutto, ma così asciutto che si appiccicava al palato.
E non gli piacque nemmeno quando fu bagnato con una salsa di vino Madera,
zucchero e spezie.
Spesso non l'assaggiava nemmeno.
Poi tornava ai suoi progetti per un mondo più giusto,
senza vincitori né vinti (così quei maledetti che l’avevano sbattuto laggiù
sarebbero stati serviti).
Insomma, Stanislao Leszczinski viveva in una
prigione: dorata, ma pur sempre una prigione. E’ comprensibile perciò che
ogni tanto, per non pensare al passato, che gli faceva tristezza, e al futuro,
che gli faceva paura, alzasse un po’ il gomito.
Fedele ai suoi ideali di uguaglianza, beveva di
tutto: a cominciare dai vini della Mosa e della Mosella, orgoglio della
Lorena. Ma poichè da quelle parti gli inverni sono lunghi, freddi e
nevosi, spesso gli ci voleva qualcosa di più forte. E lui l’aveva trovato: era
il rhum, un’acquavite derivata dalla canna da zucchero, importata dalle
Antille. Era buono, era tosto, e quindi era proprio quel che ci voleva.
Un giorno Stanislao, che aveva già ingollato
vari bicchierini di rhum, si accorse di avere una gran voglia di un
buon dolce. Di qualcosa di veramente speciale. Perciò, quando il suo
maggiordomo gli piazzò sotto il naso l’ennesima porzione di kugelhupf,
l’allontanò rabbioso.Poi impadronitosi del piatto che il servitore teneva
timoroso tra le mani, lo scagliò sulla tavola, lontano da sé.
Il piatto terminò la sua corsa contro la bottiglia di
rhum posata lì accanto, e la rovesciò. Prima che qualcuno potesse intervenire a
risollevarla, il liquore aveva completamente inzuppato il kugelhupf.
Sotto gli occhi ancora corrucciati di Stanislao ebbe
luogo una straordinaria metamorfosi: la pasta lievitata dell’insipido
dolce lorenese, per solito di colore giallastro, assunse rapidamente una
tonalità calda, ambrata, e un profumo inebriante comincò a diffondersi
intorno.
Nella sala da pranzo c’era un silenzio che si sarebbe
potuto tagliare col coltello. Invece Stanislao, sotto lo sguardo stupefatto
della servitù, sollevò il cucchiaino d’oro (la mano gli tremava un po’),
prelevò qualche frammento di questa Chimera: di quest’ibrido che si era
materializzato sotto i suoi occhi, e lo portò alla bocca.
Quel che provò lo sappiamo. Lo abbiamo provato tutti
la prima volta che lo abbiamo assaggiato il babà. Perché nessuno può
dimenticare il primo istante in cui si è trovato faccia a faccia con Lui
(nessuno, tranne i napoletani: in genere, per loro questo momento
arriva quando sono troppo piccoli per ricordarsene).
Fu questa, una giornata memorabile per l’umanità.
All’invenzione casuale del dolce inventato dal
Re polacco tra le brume della Lorena: mancava il nome.Fu sempre Re
Stanislao a dedicare questa sua creazione ad Alì Babà, protagonista del celebre
racconto tratto da “ Le Mille e Una Notte”. Libro che il sovrano amava leggere
e rileggere nel suo lungo soggiorno a Luneville .
Il babà da Luneville arrivò presto a Parigi,alla
pasticceria Sthorer. Qui in tanti lo conobbero e lo apprezzarono. A portarlo
successivamente a Napoli,dove assunse la forma definitiva assai caratteristica
(quella di un fungo) furono i “monsù”,chef che prestavano servizio presso le
nobili famiglie napoletane.
E da allora il babà elesse Napoli a proprio
domicilio stabile. Un’ultima considerazione: nella cucina napoletana esiste più
d’un dolce che – per il suo sapore – “po’ ghì annanz’o Rre”: può essere
presentato al re. Ma il babà è l’unico dolce che dinanzi al Re non c’è andato:
c’è nato.
P.S.: I progetti utopistici di Re Stanislao si
realizzarono in pieno: di fronte a una guantiera di babà tutte le controversie
si appianano, e la Pace e la Concordia regnano sovrane.
.
L'ANTICHISSIMA STORIA DEL TARALLO (Partenopeo):
Da dove nasca la
parola tarallo, non si sa con certezza. Per cui si sprecano le ipotesi: c’è chi
dice dal latino “torrère” (abbrustolire), e chi dal francese “toral”
(essiccatoio). Facendo riferimento alla sua forma rotondeggiante, qualcuno
pensa che tarallo derivi invece dall’italico “tar” (avvolgere), o
dal francese antico “danal”, (pain rond, pane rotondo).
La tesi più attendibile vuole peraltro
che tarallo discenda dall’etimo greco “daratos”, “sorta di pane”.
Se non è chiaro da quale etimo nasca il tarallo, si sa invece dove
cresce: sotto un panno che ne favorisce la lievitazione. E soprattutto si sa
quando il tarallo si è diffuso, e perché.
Matilde Serao, che tanto ha scritto su Napoli,
e sul tarallo partenopeo, nella sua famosa opera “Il Ventre di Napoli”,
descrive i famosi “fondaci”, le zone popolari a ridosso del porto, brulicanti
di una popolazione denutrita e di conseguenza famelica. Il Ventre di Napoli era
pieno di gente, ma il ventre di quella gente era spaventosamente vuoto. A
riempirlo, dalla fine del 700, ci provavano (e spesso ci riuscivano) i
taralli.
Dove non c’è quasi nulla, nulla si distrugge, e tutto
si crea. Così i fornai non si sognavano neppure di buttare via lo ”sfriddo”,
cioè i ritagli, della pasta con cui avevano appena preparato il pane da
infornare.
A questi avanzi di pasta lievitata aggiungevano un
po’ di “nzogna” (la sugna: in italiano, lo strutto, il grasso di maiale) e
parecchio pepe, e con le loro abili mani riducevano la pasta a due
striscioline. Poi le attorcigliavano tra di loro, davano a questa treccia una
forma a ciambellina, e via nel forno, insieme al pane.
All’inizio dell’800 il tarallo “’nzogna e pepe” si
arricchì di un altro ingrediente che tuttora ne è parte integrante: la
mandorla. Non si sa chi l’abbia presentata per primo al tarallo, ma chiunque
sia stato, merita la nostra gratitudine: il sapore della mandorla va
infatti a nozze col pepe.
Il tarallo, ennesimo figlio della prolifica
creatività partenopea, faceva del bene a tutti: al fornaio, che
utilizzava la pasta di pane rimasta, con poca fatica: e al popolo, che a pochi
soldi (dati i bassi costi di produzione) se lo comprava. Il tarallo era una
vera benedizione per la borsa, ma pure per il palato (la sugna e il pepe, e in
seguito la mandorla, gli danno un sapore eccellente), e per la sopravvivenza:
il grasso che contiene è infatti molto calorico.
Per la sua caratteristica di cibo povero, il tarallo
andava via come il pane, da cui in fondo (e in forno) deriva. Lo si consumava
nelle osterie, in cui si accompagnava a del vino spesso assai poco pregiato. Da
una parte aumentandone il consumo (il pepe mette sete), ma dall’altra
riducendone gli effetti negativi su stomaci altrimenti vuoti.
Gli specialisti del tarallo sostengono che vada
mangiato inzuppato nell’acqua di mare. Oggi questa raffinatezza va evitata,
dato lo stato dei nostri mari: ma anche in passato, quest’uso dev’essere stato
responsabile di molte gastroenteriti.
I taralli sono uno sfizio tutto napoletano. E’
tuttora un classico comprarli a Mergellina, nei chioschetti sistemati sul
lungomare, e sgranocchiarli passeggiando col Vesuvio da un lato e
Posillipo dall’altro.
Una volta i taralli napoletani non aspettavano i
clienti nei chioschi, o nelle panetterie, come oggi; gli andavano incontro per
la strada.
Il “tarallaro” era una figura caratteristica. Con la
sua cesta sulle spalle, batteva senza posa la città per vendere i taralli ai
passanti. Oggi è sparito, ma quello che scompare nella realtà spesso sopravvive
nel linguaggio: ancora adesso, per indicare una persona senza voce in capitolo,
sbattuta di qua e di là dagli eventi, e costretta ad affaccendarsi senza sosta,
si dice “me pare ‘a sporta d’o tarallaro!”
Nei suoi interminabili giri, il tarallaro dava la
voce: “Taralle, taralle cavere!” La parola “cavere” non va letta alla latina,
con l’accento sulla seconda “e” (cavère), e dunque col significato di
“fare attenzione, evitare”. Stare alla larga dai taralli? Dio ce ne guardi!
Va letta alla napoletana: càvere, caldo. Taralle
cavere vuol dire appunto “taralli caldi”.
E caldi, dovevano essere tassativamente, per poter
sprigionare la loro caratteristica fragranza, e invogliare la gente
all’acquisto. Era per questo, e non per motivi igienici (a quell’epoca ci si
badava poco), che il tarallaro copriva la sua preziosa merce con una
coperta.
Da allora il tarallo ne ha fatta, di strada: o meglio,
ha continuato a farne, ma questa volta sulle sue proprie gambe. Dalla sporta si
è passati all’esportazione: dapprima fuori dei confini della Campania, e poi (è
un dato recentissimo, ancora allo stato embrionale) sui mercati esteri.
Tutto questo è stato possibile perché il tarallo ha
visto modificarsi la propria tipologia di consumo: da genere di
prima necessità, (un tempo lo si sarebbe potuto addirittura definire un
alimento salvavita), il tarallo napoletano(‘nzogna e pepe) è diventato un
bene voluttuario, privilegiato da un target giovanile.
Oggi, la morte sua (cioè la maniera migliore di
consumarlo) è infatti con la birra, meno alcolica del vino cui si accompagnava
prima. Nelle birrerie e nei pub, frequentati dai ragazzi, taralli e birra
formano attualmente un duo ben affiatato, e particolarmente
richiesto.
Grazie a queste nuove abitudini di consumo,
attualmente il tarallo lo si trova pure al supermercato, per lo meno nelle
catene migliori. Ben impacchettato, confezionato sotto vuoto, con
l’indicazione: “riscaldare prima dell’uso”. Non c’è bisogno del forno a
microonde: è sufficiente un semplice termosifone, per sprigionare quel po’ di
calore che basta perché la sugna liberi nuovamente tutto il suo aroma, e la
mandorla dia il meglio di sé. A proposito: l’esame della mandorla è un
ottimo test per valutare la freschezza del tarallo. Se è ancor bella dura, ed è
profumata, tutto OK. Se invece è molle, e non emana alcun odore, vuol dire che
il tarallo è vecchio.
L’abbinamento con la birra ha portato il tarallo
dentro le nostre case: lo si impiega sempre più spesso come “spuntino”. Per
assecondare (e promuovere) questa nuova tendenza, le aziende alimentari
hanno messo sul mercato il tarallo di taglia piccola, dunque meno calorico,
e più facile da commercializzare.
Ovviamente, tarallo piccolo, mandorla piccola: a
questo scopo si impiegano mandorle spezzate (che prima non trovavano posto sul
tarallo), oppure mandorle più piccole selezionate all’uopo (scartate nella
lavorazione dei taralli).
Al di sotto di una certa misura, comunque, il tarallo
napoletano non riesce ad andare (e neppure lo vorrebbe): per poter fare la
caratteristica ciambellina con le mandorle, un certo calibro è comunque
necessario.
Oltre che nell’alimentazione, i taralli trovano
spazio anche nel linguaggio. Inequivocabilmente napoletano è il modo di
dire: “Se ti tirassen’ na sport’e taralle, nun ne cadesse uno ‘nterra”.
Traduzione: se ti lanciassero una cesta di taralli, non ne cadrebbe alcuno al
suolo. Perché?
Pecchè tien’e ccorna! (Traduzione: Perché la tua
consorte intrattiene una relazione con un altro uomo).
E’ facile immaginare che il destinatario di questa
frase non la prenderà bene. Ma niente paura: il tarallo “ciacca”, e il tarallo
medica. Fa’ danni, ma poi li ripara: è sempre grazie a lui che si fa la
pace, e tutto finisce
“a tarallucci e vino”.
Quest’ altra espressione è nata nelle osterie, ed ha
un senso blandamente denigratorio: il tarallo, già di per sé alimento
povero, viene ridotto al rango di “taralluccio”, a significare una
composizione un po’ superficiale di una vertenza. Un “vogliamoci bene” di
facciata, di maniera.
Oggi quest’espressione, anch’essa esportata, come il
tarallo, in tutta Italia, sta invece a significare semplicemente il raggiungimento
di un lieto fine.
Per taralluccio s’intende quindi il tarallo per
antonomasia e cioè quello napoletano di formato ridotto tutt’al più e non,come
qualcuno crede il tarallino.
Col termine “tarallini” s’intende invece la varietà
pugliese.
Il tarallino pugliese si è diffuso in
Italia (e all’estero) prima di quello napoletano.
Già all’aspetto, appare molto diverso dal suo cugino
napoletano: più piccolo, liscio, di calibro minore, è fatto con l’olio
d’oliva, e non ha le mandorle. Spesso vi si aggiungono semi di finocchietto e/o
di peperoncino.
Il tarallino pugliese nasce probabilmente dal
“daratos” greco: da quella “sorta di pane” greco da cui proviene anche il
tarallo napoletano. Poi però ha preso una strada differente, grazie
all’olio del tavoliere di Puglia che ne è diventato ingrediente fondamentale. .
I tarallini pugliesi sono sempre stati piccoli come
adesso. Le sue dimensioni ridotte, associate ad un basso potere calorico
(non contengono sugna!), li hanno resi adattissimi come aperitivo. E come
accompagnamento agli aperitivi. Va ricordato che - per ironia della sorte
- l’Italia, che fino a non moltissimi anni fa faceva la fame, è
attualmente leader mondiale nella …. consumo degli aperitivi.
Questo tipo di bevanda viene abbinata comunemente
agli snacks: salatini, arachidi, e - appunto - tarallini pugliesi.
Piccoli, leggeri, e dunque adattissimi allo scopo.
L’esportazione del tarallino pugliese, ormai
consolidata, nasce proprio da quest’impiego.
La sua produzione non è del resto particolarmente
complicata: mancando dell’”intreccio” manuale della pasta, il tarallino
pugliese non ha bisogno di una sofisticata lavorazione artigianale.
Da quanto si è detto, non sorprende che il tarallino
pugliese, consumato come (e con l’) aperitivo, abbia “aperto” la strada alla
produzione del tarallo napoletano di dimensioni ridotte, desideroso di
inserirsi in questa ghiotta fascia di mercato.