Nell’Italia unita le donne vennero fin dall’inizio escluse dal godimento dei diritti politici. Basta ricordare che la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’onorevole Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne “al pari degli analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti” ed a concedere quindi alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini.

Nonostante Anna Maria Mozzoni avesse fondato nel 1879 una Lega promotrice degli interessi femminili, che si batteva per il diritto di voto alle donne, le prime femministe italiane si interessarono molto di più delle questioni sociali, anche per l’influenza del neonato partito Socialista. Tale partito però inizialmente non sostenne la causa della tutela del lavoro femminile, nonostante lo slogan socialista: “Le donne che lavorano come voi, sono uomini”.

Sul versante dei diritti politici, intanto, erano nate l’"Associazione nazionale per la donna" a Roma nel 1897, l’"Unione femminile nazionale" a Milano nel 1899 e nel 1903 il “Consiglio nazionale delle donne italiane”, aderente al “Consiglio internazionale femminile”.

Nel 1881 Anna Maria Mozzoni tenne un’accorata perorazione del suffragio femminile (il Comizio dei Comizi): “Se temeste che il suffragio delle donne spingesse a corsa vertiginosa il carro del progresso sulla via delle riforme sociali, calmatevi! Vi è chi provvede freni efficaci: vi è il Quirinale, il Vaticano, Montecitorio e Palazzo Madama, vi è il pergamo e il confessionale, il catechismo nelle scuole e.... la democrazia opportunista!!”. Ed infatti tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne, o meglio, ad alcune categorie di donne, vennero regolarmente bocciati (Minghetti 1861, Lanza 1871, Nicotera 1876-77, Depretis 1882, ecc...).

Sul fronte dell’istruzione venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà le iscrizioni femminili continuarono ad essere respinte. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultarono comunque iscritte alle università italiane 250 donne, 287 nei licei, 267 nelle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionale e commerciali. Quattordici anni dopo le donne iscritte agli istituti di istruzione media (compresi gli istituti tecnici) risultarono circa 1000.000.

Il titolo di studio non garantiva ancora l’accesso alle professioni. Nel 1881, infatti, una sentenza del Tribunale annullò la decisione dell’Ordine degli avvocati di ammettere l’iscrizione di una certa Lidia Poet, laureata in legge e procuratrice legale. Nel 1877 venne però approvata una legge che ammetteva le donne come testimoni negli atti di stato civile.

Nel 1903 venne convocato il primo “Consiglio nazionale delle donne italiane”, articolato in vari settori sui diritti sociali, economici, civili e politici. Negli anni seguenti nacquero associazioni orientate al raggiungimento dei diritti politici e civili – come “l’Alleanza Femminile” e il “Comitato nazionale pro suffragio”- e associazioni legate a partiti e ideologie di altro tipo – come “l’ UDACI” (Unione Donne di Azione Cattolica Italiana), che si batteva contro la laicizzazione della scuola, e “l’Unione nazionale delle donne socialiste” svolse interessanti inchieste sul lavoro femminile.

I socialisti però si scontrarono con le femministe, accusate di essere portatrici di interessi borghesi. Dal lato femminista, la Mozzoni sosteneva invece che: “L’emancipazione femminile è  la suprema, la più vasta e radicale delle questioni sociali,capace di unire le donne di tutti i ceti per la causa della loro libertà e del loro riscatto”.

Intanto nel 1906 la studiosa di pedagogia Maria Montessori si appellò alle donne italiane attraverso le pagine de “la Vita” affinché  si iscrivessero alle liste elettorali.

Un gruppo di studentesse affisse l’appello sui muri e molte donne tentarono di rispondere all’appello così come era stato fatto con successo negli USA.

Sulla stampa si scatenò un dibattito fra i sostenitori del voto alle donne e i  contrari.

Le Corti d’Appello di molte città respinsero tali iscrizioni, tranne la Corte di Ancona, dov’era presidente Ludovico Mortara, ma anche questo tentativo fu annullato dalla Corte di Cassazione.

Nel 1910 il Comitato Pro- Suffragio chiese al Partito Socialista di pronunciarsi sulla questione del suffragio femminile. Turati si pronunciò contro il voto alle donne, mentre la compagna Anna Kuliscioff gli rispose nelle pagine di ”Critica Sociale” difendendo il suffragio femminile, anche se alla fine la stessa Kuliscioff finì col sostenere una posizione meno rigida.

Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto  di legge della riforma elettorale che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, i deputati Mirabelli, Treves, Turati e Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti però si oppose strenuamente, definendolo “un salto nel buio”. Secondo Giolitti il voto alle donne doveva essere concesso gradualmente, a partire dalle elezioni amministrative: le donne avrebbero potuto esercitare i diritti politici solo quando avessero esercitato effettivamente i diritti civili.

Nominò quindi un’apposita commissione per la riforma giuridica del Codice Civile, rimandando in pratica la questione sine die.

Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati dal fronte vennero occupati dalle donne, nei campi, ma soprattutto nelle fabbriche. Circolari ministeriali permisero infatti l’uso di manodopera femminile fino all’80% del personale, nell’industria meccanica e in quella bellica (da cui le donne erano state escluse con la legge del 1902). Con la fine della guerra, però, le donne accusate di rubare lavoro ai reduci, persero i loro posti di lavoro.

Nel dopoguerra riprese il dibattito sul voto delle donne.

Nel 1919 Papa Benedetto XV si pronunciò pubblicamente favorevole al diritto di voto alle donne.

Il 30 Luglio dello stesso anno venne abolita l’autorizzazione maritale, pur con notevoli limitazioni, dando così alle donne almeno l’emancipazione giuridica. Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Le camere furono sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo la legge venne di nuovo approvata dalla Camera , ma non fece in tempo ad essere approvata dal Senato , poiché vennero convocate le elezioni.

Nel 1930 Rocco scrisse il codice penale in cui si legge che l’adulterio della donna è reato mentre quello dell’uomo no.

Con l’avvento del fascismo la speranza del suffragio universale femminile svanì.

Se ne riparlò di nuovo solo a fascismo finito, nel 1945. Nel febbraio dello stesso anno il diritto al voto venne riconosciuto, ed  effettivamente le donne  italiane votarono nel 1946, quando fu chiesto al popolo, attraverso il referendum, di scegliere tra Monarchia e Repubblica.