ANTIMAFIA
Duemila
Anno 1 N° 3 GIUGNO 2000
Corruzione: l’anticamera della mafia al nord
di Enzo Guidotto,
Presidente dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso
“Oggi, se un boss
mafioso intende riciclare o investire al Nord capitali di provenienza
illecita non può che rivolgersi a politici o amministratori corrotti”
aveva detto Paolo Borsellino nel maggio del ’90. I fatti gli hanno
dato ragione. La scoperta di tutte le grandi corruzioni del Nord –
sostiene Luciano Violante – mostra l’esistenza di canali tra
amministrazione, politica, impresa e criminalità, che possono aver
robustamente favorito la stabilizzazione di gruppi mafiosi anche in zone
tradizionalmente estranee a Cosa Nostra ed alle altre organizzazioni
meridionali”.
<<Vorrei che
tutti i genitori provassero a spiegare ai propri figli perché è stato
ucciso in questa città il commissario Giuseppe Montana: forse cercando
di spiegarlo ai propri figli potrebbero capirlo anche loro>>. Sono
parole del vice questore Ninni Cassarà, trentotto anni, padre di tre
bambini, ucciso nell’estate dell’85 assieme al giovanissimo agente
di polizia Roberto Antiochia; frasi scritte in un comunicato stampa che
rappresentano un autentico testamento spirituale non soltanto per i
genitori, ma anche per gli insegnanti e per quanti hanno a cuore il
futuro dei giovani.
Quale era infatti il senso di quel messaggio? Ci uccidono in Sicilia, ma
anche in Calabria e in Campania – voleva dire l’eroico funzionario
– perché proprio qua, in queste regioni, esistono i vertici, i capi,
i centri nevralgici della <<piovra>> assassina, ma i suoi
viscidi tentacoli che attuano i traffici e gli intrallazzi più
impensabili o serpeggiano alla ricerca di compromessi, complicità,
collusioni, connivenze, protezioni e padrinaggi, si estendono un po’
dappertutto, anche oltre i confini dell’isola, specialmente laddove un
certo <<brodo di coltura>> ne agevola le infiltrazioni.
La logica che sta alla base della convinzione espressa da Ninni Cassarà
è quindi facile da capire. Se per definizione la mafia è un potere
economico e politico esercitato con violenza, i tentacoli della
<<piovra>>si possono dividere in tre precisi gruppi,
ciascuno dei quali si muove ormai in ambito nazionale – oltre che
internazionale – secondo le direttive di massima emanate da una
centrale di comando, spesso in collaborazione con organizzazioni
presenti in vari Paesi e continenti o con poteri che agiscono in Italia
ed all’estero in modo più o meno occulto: il primo gruppo di
tentacoli alimenta l’economia mafiosa; il secondo tiene i collegamenti
con i pubblici poteri; il terzo stritola quanti, operando in prima
linea, ad oltranza e senza guardare in faccia a nessuno, ostacolano i
piani per la realizzazione del grande business o si avvicinano troppo ai
<<santuari inviolabili>> che custodiscono i segreti sui
legami fra gli <<uomini d’onore>> ed i gestori più
inquinati del <<Palazzo>>.
Corruzione,
anticamera della mafia.
Ma questo non è
ancora tutto. Se è vero che la violenza mafiosa, finora, ha colpito i
rappresentanti delle istituzioni più esposti soprattutto nelle zone in
cui il fenomeno è più diffuso, è pure vero che - <<il terreno
– sosteneva in tempi…“insospettabili” il giudice Adriano Sansa
(Famiglia Cristiana, 41/1990) – è disposto pressoché ovunque, nel
nostro Paese, alla penetrazione malavitosa e mafiosa in particolare:
certo, le aree più ricche attirano maggiormente la criminalità, che
trova più agevole nascondersi nelle pieghe di ambienti nei quali
entrano in gioco molti interessi e ingenti capitali. Ma il vero elemento
che prepara e propizia l’intervento criminale è la corruzione, pur se
a lungo nominata e posta in evidenza dalla formulazione della
“questione morale”>>.
Poco tempo dopo, l’analisi del magistrato – che a Genova diventerà
sindaco del <<nuovo corso>> - si rivelò profetica. La
veridicità delle sue osservazioni cominciò infatti a manifestarsi
clamorosamente a partire dall’autunno del ’91, quando le inchieste
giudiziarie consentirono di accertare che la pratica della
<<bustarella>> non si presentava più a <<pelle di
leopardo>>. Da parecchio tempo si era diffusa piuttosto a macchia
d’olio, dal centro alla periferia del Paese, e particolarmente al
Nord, dove era stata elevata a sistema di vita politica ed
amministrativa. Non si trattava, dunque, di casi sporadici di
tangentomania, ma di un vastissimo fenomeno degenerativo che aveva
trasformato la democrazia, che è <<governo di popolo>> in
tangentocrazia, che è <<governo dei corrotti>>. Gli onesti,
invece, un po’ alla volta, erano stati relegati in posizioni
marginali, quando non erano stati addirittura esclusi dalle liste
elettorali o <<trombati>> attraverso candidature in collegi
ad alto rischio, anche nelle competizioni del 5 aprile del ’92.
Eppure, nel dicembre dell’anno prima, la <<Commissione
d’inchiesta sulla diffusione del crimine organizzato>> del
Parlamento europeo aveva rilevato l’opportunità che negli Stati
membri della CEE i partiti, per <<sradicare potenziali “fattori
d’inquinamento”>>, avrebbero dovuto <<scegliere i loro
candidati in base ai criteri più rigorosi ed escludere i candidati
notoriamente o presumibilmente esposti alla corruzione>>.
<<La corruzione è l’anticamera della mafia>> aveva detto
Paolo Borsellino nel maggio del ’90, nel corso di un incontro che ebbi
modo di organizzare a Castelfranco Veneto. In che senso? <<Se un
esponente delle organizzazioni mafiose va in cerca di punti di
riferimento per riciclare o investire nell’economia legale capitali di
origine illecita fuori dalla propria regione – aveva spiegato – non
può che rivolgersi a un uomo politico o ad un amministratore corrotto e
quindi disponibile ad ulteriori intrallazzi>>. Una convinzione,
questa, che è stata puntualmente confermata da colleghi operanti al
Nord. <<Se domani la mafia avesse l’interesse di controllare il
mercato economico e finanziario, oppure la gestione
dell’amministrazione pubblica a Verona, come in qualsiasi città
settentrionale, avrebbe la strada spianata>> dichiarò nel
settembre di due anni dopo il dottor Guido Papalia, procuratore della
Repubblica a Verona, all’indomani dell’arresto del boss agrigentino
Giuseppe Madonia nella vicina provincia di Vicenza ( Il Mattino di
Padova, 8/9/1992). <<L’importante sistema delle tangenti e il
dilagare della corruzione – precisò – consentirebbe infatti alla
mafia di introdursi ed acquisire potere più facilmente anche in questo
territorio. In tal senso, tutte le città del Veneto e del Nord in
genere vanno bene, perché permettono la penetrazione in un mercato
finanziario in continua espansione e quindi in grado di assorbire gli
enormi capitali guadagnati illecitamente nelle regioni che più sono
sotto il diretto controllo della mafia>>. In questo contesto,
l’arresto a Longare, nel cuore del Veneto, di Giuseppe Madonia –
concluse il magistrato - <<rappresenta la dimostrazione che
determinate regioni e zone d’Italia, considerate tranquille dalla
mafia, vengono usate per affari diversi da quelli che vengono svolti in
altre regioni. La mafia non ha interesse a esercitare qui un potere con
gli stessi metodi violenti esercitati in Calabria o Sicilia>>.
I forzieri della
mafia al Nord.
Identico il parere
di Luciano Violante, all’epoca presidente della Commissione
parlamentare antimafia. <<Fino a qualche anno fa – ebbe modo di
rilevare in un convegno svoltosi proprio in Veneto (La Tribuna di
Treviso, 11/10/1992) – i quartier generali di Cosa Nostra e delle sue
filiali erano nel Sud. Di lì partivano gli ordini di esecuzione dei
nemici, lì si gestivano gli affari più rilevanti, lì si intrecciavano
le relazioni con la politica. Poi da quelle lontane città si
allungavano i tentacoli per tutto il resto d’Italia, spesso in
direzione di aree dove, grazie alla miope politica del soggiorno
obbligato, si erano già insediati segmenti di famiglie mafiose. Ma
questi tronconi del Nord non avevano autonomia e, soprattutto, non una
funzione strategica nei confronti della città casamadre meridionale>>.
E poi? <<Negli anni le cose sono cambiate. L’inserimento di Cosa
Nostra nel traffico di droga ha fatto di città come Verona e Milano
veri e propri capisaldi con insediamenti stabili e perfettamente
integrati nel sistema di potere mafioso. E’ del tutto evidente che
tutto ciò non poteva verificarsi senza forme di acquiescenza da parte
di poteri ed istituzioni del luogo, che preferivano chiudere occhi ed
orecchie per non correre il rischio di apparire come
“criminalizzatori” della città. La mafia dell’eroina è
diventata, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, mafia dei
grandi capitali finanziari. Il danaro accumulato con il traffico degli
stupefacenti e con gli altri affari criminali, si tratta di migliaia di
miliardi, è infatti capace di produrre di per sé altre colossali
ricchezze. Oggi il settore trainante del grande potere mafioso non è più
probabilmente il traffico di droga, ma la capacità di manipolare,
riciclare e investire questo danaro. Per l’impresa criminale si è
sviluppato un processo di finanziarizzazione analogo a quello che ha
interessato molte imprese legali. Si tratta di una vera e propria
mutazione genetica, che ha cambiato lo stesso modo di essere del potere
mafioso. Le migliaia di miliardi da riciclare, nascondere, investire,
richiedono raffinate consulenze, un sistema bancario e finanziario
capace di condurre in porto delicate operazioni, abituato a trattare
grandi quantità di danaro e ad avere rapporti con la finanza
internazionale. Le piazze in grado di compiere questi lavori sono
collocate nel Nord e non nel Sud del Paese. Mentre non si hanno notizie
di grandi e sistematiche operazioni di riciclaggio nel Sud, è ormai
consolidata la prova di queste operazioni nel Nord. A questo punto
cambia decisamente la geografia del potere mafioso. La casamadre
politica e militare resta Palermo, ma nascono le città-cassaforte della
mafia, collocate al Nord, dove circola più danaro e dove è più facile
compiere operazioni finanziarie. Il Nord ha acquisito perciò
un’importanza strategica per la mafia e nessuna successione potrà
restituire la verginità perduta>>.
E qui il discorso si ricollega a quanto, nel ’90, aveva detto Paolo
Borsellino. <<La scoperta di tutte le grandi corruzioni del Nord,
da Venezia a Milano, mostra – concluse Violante – l’esistenza di
canali tra amministrazione, politica, impresa e criminalità, che
possono avere robustamente favorito la stabilizzazione di gruppi mafiosi
anche in zone tradizionalmente estranee a Cosa Nostra>>.
La
<<tangente>> è come il <<pizzo>>.
D’altra parte, non
si può non riconoscere che i metodi seguiti dai politici boss non sono
mai stati diversi da quelli seguiti dai boss mafiosi. Siamo sinceri:
esiste qualche differenza fra la tangente imposta agli imprenditori
dagli esponenti del mondo della politica, della pubblica amministrazione
e dei partiti ed il <<pizzo>> che viene imposto agli stessi
dalle organizzazioni mafiose che non operano più soltanto nel più
profondo Sud? Decisamente no. Perché? Il mancato pagamento della prima
escludeva di fatto gli operatori economici dal giro degli appalti
pubblici; il mancato pagamento del secondo espone industriali e
commercianti alle ritorsioni che a lungo andare scoraggiano la libera
iniziativa. Sia la <<tangente>> che il
<<pizzo>>, quindi, condizionano nelle aziende
l’autofinanziamento peggiorando la situazione economica complessiva.
L’andazzo, in definitiva si rivela dannoso per i cittadini per almeno
due motivi. Primo: l’entità del danaro erogato per la realizzazione
di opere pubbliche veniva fissata in misura tale da consentire ai
vincitori degli appalti di poter <<ungere le ruote>> delle
cricche che manovrano le gare; per cui, se non fosse esistita questa
condizione, la spesa pubblica sarebbe stata inferiore e la pressione
fiscale che grava su tutti i contribuenti avrebbe potuto essere più
leggera. Secondo: gli operatori economici vittime del racket delle
estorsioni sono costretti a correre ai ripari predisponendo misure di
sicurezza e stipulando polizze di assicurazione e il tutto ha un
inevitabile riflesso sui prezzi di vendita dei generi trattati, e quindi
sulle tasche dei consumatori. Conclusione: in mancanza sia della
<<tangente>> che del <<pizzo>> la gente
pagherebbe meno imposte e farebbe la spesa più a buon mercato.
Concussione ed
associazione mafiosa.
La corruzione non è
mafia, si dice. E’ vero. La concussione, però a certe condizioni, può
assumere la configurazione dell’associazione mafiosa, reato
contemplato dalla Legge La Torre-Rognoni. A sostenerlo non sono le
solite…<<malelingue>> dell’antimafia né tanto meno i
giudici accusati dai politici e dai loro difensori di essere visionari:
sono gli stessi avvocati penalisti che mettono le loro capacità ed
esperienze professionali al servizio degli inquisiti. Illuminante si
rivela in tal senso l’interpretazione, estensiva ma non troppo,
prospettata nell’ottobre dell’83 dagli avvocati della Camera penale
di Venezia in seno al seminario di studi sul tema Difesa della
convivenza civile dalla mafia e dalle altre associazioni di tipo
mafioso. Cosa hanno sostenuto di preciso? Che la Legge La Torre- Rognoni
non è applicabile soltanto nei confronti dei malavitosi del Meridione,
così come il campo d’azione della norma non può ritenersi
rigorosamente circoscritto a situazioni che si verificano nel settore
produttivo, distributivo o finanziario. <<E’ pacifico – hanno
rilevato Antonio Forza, Antonio Franchini, Sandro Grandese, Eugenio
Vassallo ed Elio Zaffalon – che la legge ha, nonostante un chiaro
conciso richiamo alla delinquenza mafiosa, un ambito di applicazione ad
una cerchia più ampia di destinatari. A voler, sia pur larvatamente,
approfondire tale concetto, si nota che, applicando la norma, sono
criminalizzate anche altre associazioni, che non trovano, però, come
mafia, camorra o ‘ndrangheta, addentellati socio-economici nel
territorio in cui sono sorte. Vietare l’associazione che si serva
dell’intimidazione – scaturente dal senso di forza che sorge dal
vincolo associativo, il quale, come emanazione di potere, possa
assoggettare, creando omertà, per poter conseguire determinati scopi
anche non necessariamente delittuosi – significa cogliere con tale
apparentemente generica definizione una fattispecie che travalica, pur
comprendendola, quella di associazione mafiosa, potendo essere
applicata, non solo, a gruppi anche non numerosi, ma organizzati, di
criminali i quali si adoperino per commettere una serie di reati (quali,
ad esempio, estorsioni, rapimenti, furti, ecc.), ma, anche, al
comportamento di chi, partecipando ad un’associazione politica,
religiosa, trust finanziario, ecc., si riserva per conseguire gli scopi,
pur leciti, del vincolo associativo per acquisire il controllo di
attività economiche o concessione o appalti versando magari
integralmente il compenso all’associazione medesima. Sempreché
ovviamente sia dimostrato il vincolo causale tra intimidazione ed
assoggettamento od omertà, così come previsto nella condotta
tipica>>.
Il testo della legge sull’associazione mafiosa, infatti, non prevede
l’esistenza di alcuna forza di coercizione materiale, di forza fisica
per il raggiungimento degli obiettivi che rientrano nel programma
criminoso. L’associazione di tipo mafioso – aveva sottolineato del
resto l’on. Pio La Torre nella relazione illustrativa del progetto di
legge – produce <<i suoi effetti, anche senza concretarsi in una
minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati dal Codice
penale>>. Il punto centrale che caratterizza l’atteggiamento dei
suoi esponenti è infatti costituito dall’intimidazione. Ma in cosa
consiste con precisione? Alla luce della casistica esaminata nei primi
tre anni di applicazione della norma, la Cassazione ha chiarito
nell’’85 che essa, il più delle volte, si estrinseca in
<<forme subdole e diverse>> rappresentate, ad esempio, da
<<frasi e comportamenti sottilmente allusivi, ma pur sempre
efficaci per il raggiungimento dei fini perseguiti dall’associazione>>.
Per quanto riguarda gli esponenti dei partiti che riescono ad influire
sulle scelte della pubblica amministrazione, le allusioni potrebbero
riferirsi alla prospettiva, per gli interlocutori, di essere estromessi
dal giro degli appalti; il fine, quello dell’accaparramento di
tangenti. <<Io non voglio difendere assolutamente la categoria
degli imprenditori – è stato il commento di Giancarlo Ferretto, ex
presidente degli industriali del Veneto – ma mi sembra che quanto sta
emergendo dimostri come evidentemente queste erano le regole del gioco.
O paghi oppure non lavori con il settore pubblico. Ma chi ha centinaia
di dipendenti da retribuire tutti i mesi, ha anche responsabilità
morali nei confronti delle loro famiglie. E allora o stai alle regole
oppure chiudi o ti trasferisci altrove. E’ per questo che nessuno si
era mai sognato di mettere in discussione un meccanismo perverso>>.
Di Pietro:
“datazione ambientale”.
Ed è stato così
– rilevò in proposito Antonio Di Pietro, all’epoca sostituto
procuratore a Milano – che la corruzione <<è diventata quasi
una costante nel budget di alcune imprese e nella distribuzione dei
lavori pubblici: una situazione di fatto che ho definito “datazione
ambientale”, intendendo per essa quella situazione in cui tra il
pubblico ufficiale e l’imprenditore si forma un automatismo –
ambientale, appunto – per cui, chi riceve il denaro nemmeno più ha
bisogno di chiederlo e chi lo consegna non aspetta nemmeno che gli venga
richiesto>>.
Possiamo finalmente dire oggi, in pieno 2000, che il fenomeno appartiene
ormai al passato? Stando alle relazioni tenute nel gennaio scorso dai più
alti vertici della magistratura civile, penale e contabile in occasione
dell’inaugurazione dell’anno giudiziario sembra proprio di no. Un
esempio particolarmente significativo? La scoperta, nel 1995, di quel
“piano finanziario” che stava per essere attuato a Milano in vista
dell’assegnazione di un appetitoso appalto pubblico: per
accaparrarselo, una “entità” molto facoltosa aveva previsto di
assegnare dal primo all’ultimo consigliere di Palazzo Marino, vere e
proprie tangenti calcolate in misura direttamente proporzionale al peso
politico dei gruppi di appartenenza.
Ancora una vola, dunque, in tema di mafia e di corruzione, la storia non
si rivela maestra di vita. Ricordate la vicenda della Duomo Connection?