Franco Nasi

Strand, un Canadese. Pittura e poesia

 

 

Negli ultimi anni, nelle librerie americane, un bell’addensarsi di libri di Mark Strand ha consacrato finalmente un grande poeta dell’oggetualità e del silenzio, un “realista metafisico” non per caso innamorato di Edward Hopper (e di de Chirico e Bailey): linea nella quale ha infatti trovato il più congruo corrispettivo figurativo

 

Negli anni Cinquanta Mark Strand (nato nel 1934 in Canada, ma cresciuto negli USA) frequenta la Yale School of Art and Architecture con l’intenzione di diventare un artista. In quegli anni lavora per un’estate a Città del Messico come assistente di Siqueiros. L’esperienza con i murales non è decisiva per la sua carriera di pittore né lo avvicina alla poetica realista dell’artista messicano: “Stavo là in alto, sulle impalcature; brandivo un grande pennello e seguivo le indicazioni del maestro, mentre dentro di me ero in completo disaccordo con tutta la sua arte”. In un saggio sulla poesia del 1991 (ora ripubblicato nella splendida raccolta di prose Weather of Words, Knopf, New York, 2000, il cui primo scritto, L’alfabeto di un poeta, è stato tradotto da D. Abeni per L’Obliquo, 2001), Strand racconta del giorno in cui comunicò alla madre di avere cambiato idea circa il suo futuro e di aver deciso di vivere facendo il poeta. Se già è difficile mantenere una famiglia facendo il pittore, con  la poesia “non ti guadagnerai mai da vivere”, commenta rassegnata la madre. Il cambiamento invece segna l’inizio di una fortunata carriera che porta Strand ad insegnare nelle più prestigiose università americane e gli procura riconoscimenti importanti, come la nomina a Poet Laureate nel 1990 o il Pulitzer Prize per Blizzard of One nel 1999 (in gran parte tradotto, insieme ad altre poesie di Strand, sempre da Abeni, ne L’Inizio di una sedia, Donzelli, 1999).

Oltre a dieci volumi di poesia, Strand scrive saggi sulla letteratura, libri per bambini, raccolte di racconti, cura diverse fortunate antologie e manuali di poesia, e traduce in inglese numerosi poeti soprattutto dallo spagnolo e dal portoghese e, occasionalmente, dall’italiano. Nonostante l’intensa attività letteraria, Strand non  abbandona la pittura né come pratica creativa né come esercizio critico. Le sue monografie su Bailey (1987) e Hopper (1995, ma nuova edizione ampliata Knopf, 2001), la sua “traduzione” in versi di due quadri giovanili di de Chirico in Blizzard of One, come il saggio sulle relazioni fra fotografia e poesia in Weather of Words sono piccoli capolavori di acume interpretativo, oltre che un’elegante lezione di stile per tutti coloro che si occupano di critica, e forniscono una chiave davvero unica per entrare nel mondo poetico e nella riflessione estetica di Strand. 

       Non a caso Selected Poems (1964-1980), testo fondamentale per avvicinarsi alla poesia di Mark Strand, e riedito ora da Knopf, propone in copertina proprio una natura morta del pittore americano William Bailey, quasi un preludio visivo alle poesie che si stanno per leggere. Sul piano di un tavolo di legno, addossato a una parete rossa, sono raggruppati otto oggetti da cucina. Sono caraffe, brocche, tazze, vasi, pentole e altri utensili ripresi frontalmente e dipinti con precisione. Le forme e i materiali sono antichi, i colori naturali, le ombre e le luci definiti con accuratezza fotografica. Ma c’è qualcosa in loro di strano: sono oggetti quotidiani che sentiamo come estranei. Gli strumenti dipinti sono insoliti nelle nostre cucine e fanno pensare a un villaggio del New England anziché a Terontola, la cittadina Toscana, che dà invece il titolo all’olio di Bailey. Inoltre hanno forme antiche eppure sembrano nuovi, non consumati dall’uso, come contenitori che non hanno mai contenuto nulla. Sembra che la loro sola funzione sia di mettersi in posa. C’è, nella loro disposizione, una calma silenziosa che invita ad osservarli, ma anche ad andare oltre.

       Calma, silenzio, immobilità sono parole che  ritornano continuamente sia nelle poesie di Strand sia nei suoi scritti sull’arte e sulla poesia. In questa atmosfera di “stillness” onnipresente, di quiete assoluta, gli oggetti, sempre uguali eppure sempre diversi delle nature morte di Bailey, sembrano negarsi allo sguardo, assumendo un’aria di riservatezza e di mistero. Si mostrano, ma da una sorta di incolmabile distanza, come fossero edifici di cittadine dell’Italia centrale arroccate sulla cima di colline. E i titoli dei quadri (Città di Castello, Mercatale, Monterchi) ne sono una chiara indicazione di lettura. Il mondo delle nature morte di Bailey ( e“natura morta” in inglese è “Still life”, vita quieta, immobile e silenziosa a un tempo) non è un “mondo delle apparenze”, ma un mondo “di idee”. Il realismo di Bailey, per Strand, non ha niente a che fare né con il naturalismo né con il realismo ideologico. Si tratta piuttosto di un “realismo platonico”, in cui il mondo pittorico tende a un mondo invisibile delle idee, un realismo ieratico e distaccato che ha molti più punti in comune con la pittura metafisica del primo de Chirico che non con un realismo esistenzialista alla Morandi.

Lo stesso approccio “estetico” guida Strand anche nella sua originale lettura dell’opera di Hopper. “I dipinti di Hopper – scrive nella premessa –  non sono documenti sociali, né allegorie dell’infelicità o di altre condizioni che possono essere applicate con altrettanta imprecisione alle caratteristiche psicologiche degli americani”. Le figure dei suoi quadri non sono rappresentazioni di una realtà determinata, non vivono in uno spazio e in un tempo definibiti. Il loro spazio è solo virtuale. Sono come colti nell’interstizio tra due tempi, “a time between times”, in una “still life”, appunto, dove improssivamente il tempo viene a mancare e si resta avvolti in una “amazing stillness”, in una sorprendente quiete, in attesa che qualcosa avvenga, “come se una rivelazione fosse a portata di mano”. L’annunciazione non avviene o, se avviene, è contemplata solo da coloro che sono all’interno del quadro. I dipinti di Bailey e di Hopper, come quelli di de Chirico, si offrono dunque allo sguardo dell’osservatore come un enigma.

Come queste tele, anche la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica.  Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata.

Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti. E proprio lì, sul palcoscenico autonomo della sua rappresentazione, nella ricerca ininterrotta di una perfezione formale, la poesia trova le ragioni della propria legittimazione. Le riflessioni estetiche di Strand, che ricordano certe pagine dell’Angelo necessario del maestro Wallace Stevens (a cura di M. Bacigalupo, Se, 2000), e che si inseriscono nella tradizione dell’autonomia dell’arte che da Kant, attraverso Coleridge, permea l’estetica del novecento americano, non potevano essere più lontane dalle preoccupazioni di Siqueiros.

 

Il manifesto-Alias”, 5 ottobre 2002