Mentre cresceva l’infatuazione per il cambio di regime a Mosca, Rose Wilder Lane (1886-1968) dopo gli esordi per un giornale socialista di San Francisco e gli impieghi come telegrafista, pubblicista, agente immobiliare, licenziava da free-lance una biografia di Henry Ford. ”Nel 1917” ricorderà “divenni una convinta, pur se non praticante, comunista”: in Russia, dove successivamente viaggiò, la pensavano diversamente e qualche eccessiva attenzione della Ceka ne affrettò il distacco dall’idealismo di Reed e compagni frequentati a New York. “California, Ozarks e Balcani sono la mia patria” avrebbe poi sostenuto più coerentemente con una storia che la vedeva discendente di pionieri: fu come editor e ghost-writer dei ricordi materni sulla vita di frontiera del secondo ottocento (otto libri tra il trenta e il cinquanta a comporre il serial Little House) che da molti è ricordata, ma è in quanto autore di The discovery of Freedom (1943) che altri, A.J. Nock in testa, l’elogiano. La frequentazione ravvicinata del vecchio mondo, come corrispondente della croce rossa americana prima, come curiosa viaggiatrice all’uso inglese poi (con una singolare predilezione per l’Albania) le avrebbero confermato di non essersi mai mossa da casa e di essere rimasta un’americana fondamentalista che ripeteva: “datemi un po’ di tempo e vi dirò perché individualismo, laissez-faire e una lievemente corretta anarchia capitalistica offrono le migliori opportunità per lo sviluppo dello spirito umano”. Renitente persino a pubblicare libri o riviste che, in quanto fonte di reddito, avrebbero giovato al governo (“la tassazione è una rapina a mano armata”), sul finire degli anni trenta i temi principali delle sue collaborazioni a numerosi periodici divennero la libertà individuale e il lavoro ad ago, con il colpo di coda finale ( a settantotto anni ! ) di un viaggio in Vietnam come inviata. Tre decenni prima, sul Saturday Evening Post, nel 1936, era apparso  il suo Credo da cui sono tratte le righe seguenti.

 

Rose Wilder Lane

il Credo di Rose

  Nel 1919 ero comunista. Gli amici bolscevichi di allora si sono oggi dispersi; alcuni sono tranquilli borghesi, altri sono morti, altri ancora sono in Cina e Russia, e non ho conosciuto gli ultimi capi americani della Terza Internazionale che ora ufficialmente abbracciano la Democrazia. Mi avrebbero di certo ripudiato come compagna rinnegata, poiché non fui mai membro del Partito. Ma fu solo un caso che non lo diventassi.(…) Tuttavia, nel cuore ero comunista. Molti, come me a quel tempo, considerano lo Stato collettivista, un’evoluzione della democrazia. Sotto tale riguardo il quadro è quello di gradini progressivi verso la libertà.(…) In Russia, allora, la nostra speranza si era realizzata; era avvenuta la rivoluzione economica. Il Partito Comunista aveva preso il comando al grido di “Tutto il potere ai soviet!” Il capitalismo di stato russo e i deboli inizi della libera impresa in Russia vennero distrutti e il popolo prese il controllo della ricchezza nazionale. Vale a dire che, in effetti, un uomo sincero ed estremamente abile, Lenin, era al potere, consacrato allo stupendo compito di ridurre moltitudini di esseri umani all’ordine economico efficiente, per quello che quest’uomo e i suoi seguaci credevano onestamente essere il definitivo benessere materiale di tali moltitudini. E quello che vidi non era l’estensione della libertà umana, ma l’instaurazione della tirannia su una nuova base ampiamente diffusa e più profonda. La novità storica del governo sovietico era il suo movente. Altri governi sono esistiti per mantenere la pace tra i sudditi, o ammassare soldi grazie a loro, o usarli nel commercio e in guerra per la gloria di uomini che li governavano. Ma il governo dei Soviet esiste per far bene alla sua gente, che le piaccia o no. Ed io sentivo che, di tutte le tirannie cui gli uomini sono stati soggetti, quella sarebbe stata la più spietata e più angosciosa da sopportare. C’è qualche rifugio per la libertà sotto altre dittature, dal momento che sono meno coscienziose e non così spietatamente armate di rettitudine. Ma dalla benevolenza nel potere economico non potevo vedere nessun riparo. Ogni rapporto che da allora ho sentito sull’Unione Sovietica ha confermato questa opinione, e ascolto solo relazioni dei suoi amici, poiché credo che i Comunisti capiscano meglio quel che là avviene. Per ventisette anni gli uomini che governano quel paese hanno faticato prodigiosamente per creare proprio la società che sognavamo; una società in cui l’insicurezza, la povertà, la disuguaglianza economica saranno impossibili. A tal fine hanno soppresso la libertà personale, la libertà di movimento, di scelta del lavoro, la libertà di espressione nei modi di vita, la libertà di discorso, la libertà di coscienza. Dato il loro proposito, non vedo come avrebbero potuto far diversamente. Produrre nutrimento dal mare e dalla terra, ricavare beni da materiali naturali assemblati, e immagazzinarli, scambiarli, trasportarli, distribuirli e farli consumare a grandi moltitudini di esseri umani sono tutte attività così strettamente interrelate ed interdipendenti che un efficace controllo di ogni minima parte richiede il controllo del tutto. Nessuno può così controllare masse di uomini senza costrizione, e tale costrizione deve crescere. Deve aumentare perché gli esseri umani sono naturalmente diversi. E’ nella natura umana fare la stessa cosa in maniere diverse, sperimentare, inventare, fare errori, abbandonare il passato verso un’infinita varietà di direzioni. Piante ed animali ripetono più meccanicamente, ma gli uomini che non sono costretti andranno verso il futuro come esploratori in un nuovo paese, e l’esplorazione è sempre dissipatrice. Un gran numero di esploratori non porta a termine nulla e molti si perdono. La costrizione economica è perciò costantemente minacciata dall’umana ostinazione. Essa deve costantemente sopraffare quella caparbietà, schiacciare ogni impulso di egotismo e indipendenza, distruggere diversità di desideri e comportamenti umani. Il potere economico centralizzato che si sforza di pianificare e controllare i processi economici di una nazione moderna è costretto a fallire o a tentare di divenire potere assoluto in ogni sfera della vita umana. “Non importa cosa accade agli individui” dicono i comunisti. “L’individuo è nulla. La sola cosa che conta è lo Stato collettivista.” La speranza Comunista di uguaglianza economica in Unione Sovietica riposa adesso  sulla morte di tutti gli uomini e donne presi come individui.(…) Uscii dall’Unione Sovietica non più comunista, poiché credevo nella libertà personale. Come ogni americano, consideravo come vera la libertà individuale in cui ero nata. Mi pareva necessaria ed inevitabile come l’aria che respiravo; mi sembrava l’elemento naturale in cui vivevano gli esseri umani. Il pensiero che avrei potuto perderla non mi aveva mai remotamente sfiorato. E non potevo concepire che masse di uomini avrebbero volontariamente vissuto senza di essa. Avvenne che trascorsi parecchi anni in paesi dell’Europa e dell’Asia Occidentale, in modo che alla fine imparai qualcosa non solo sulle lingue parlate dai vari popoli, ma sul vero significato di determinate parole. Nessuna parola, naturalmente, è mai esattamente traducibile in un’altra lingua; le parole che usiamo sono rozzi simboli per significare, e supporre che termini come “guerra”, “gloria”, “giustizia”, “libertà”, “casa” significhino la stessa cosa in due lingue, è un errore. Ovunque in Europa m’imbattei nelle realtà viventi della casta medievale e dello statico ordine sociale medievale. Le vidi resistere, ed opporsi strenuamente, alla libertà individuale e alla rivoluzione industriale. Era impossibile conoscere la Francia senza conoscere la richiesta francese di ordine, disciplina, freno delle forme tradizionali, regolazione burocratica delle vite umane mediante il potere centralizzato di polizia, e senza sapere che la fiera democrazia francese non è un grido di libertà individuale ma l’insistere affinché le classi superiori non sfruttino troppo duramente quelle inferiori.  Vidi in Germania e in Austria pecore disperse e senza leader correre di qua e di la’, anelando alla perduta sicurezza del gregge e del pastore. Con una certa resistenza fui costretta  finalmente ad ammettere, per i miei amici italiani, di aver visto rivivere sotto Mussolini lo spirito dell’Italia. E mi pareva che tale risveglio fosse basato sulla separazione della libertà individuale dalla rivoluzione industriale la cui causa e origine è la libertà individuale. Dissi che in Italia, come in Russia, un ordine economico controllato e pianificato, essenzialmente medievale, stava prendendo il sopravvento sui frutti della rivoluzione industriale mentre ne distruggeva la radice, ossia la libertà dell’individuo. “Perché vuoi parlare di diritti degli individui !” esclamavano, impazienti, gli italiani. “Un individuo è nulla. Come individui non abbiamo nessuna importanza. Io morirò, tu morirai, milioni vivranno e moriranno, ma l’Italia non muore. L’Italia è importante. Importa solo l’Italia.” Il rifiuto dell’io individuale era, lo sapevo, lo spirito che animava i membri del Partito Comunista. Sentivo che era lo spirito che cominciava ad animare la Russia. Era lo spirito del Fascismo, lo spirito che indubitabilmente ravvivava l’Italia. Una gran quantità di piccoli incidenti lo rivelavano. Nel 1920, l’Italia era un covo pulcioso di straccioni e ladri. Si avventavano sullo straniero e lo divoravano. Non c’era momento in cui il bagaglio potesse essere lasciato incustodito; ogni conto aveva un sovrapprezzo e non c’era servizio, quantunque piccolo, scompagnato da fattura; i taxi scartavano in strade desolate e le barche si fermavano prima di raggiungere le navi, cos1 autisti e barcaioli potevano terrorizzare timidi passeggeri facendosi pagare due volte. Ogni passo in Italia era una disputa  e una lotta. Nel 1927,  mi si guastò l’auto dopo il tramonto nei pressi di un piccolo paese italiano. Tre uomini, un cameriere, un carbonaio e lo chauffeur in uniforme di ricchi viaggiatori ospiti dell’alberghetto, lavorarono tutta la notte sul motore. Quando riprese a funzionare nell’alba fredda, tutti e tre rifiutarono qualsiasi pagamento. Gli americani in una situazione simile avrebbero rifiutato per umana cordialità e personale orgoglio. Gli italiani dissero fermamente: “No, signora. L’abbiamo fatto per l’Italia.” Questo era tipico. Gli italiani non erano più centrati su sé stessi, ma su quella creazione mitica delle loro immaginazioni verso cui rivolgevano le proprie vite, l’Italia, l’immortale Italia. Cominciai finalmente a riflettere sul valore di quella libertà personale che era parsa così intimamente giusta. Vidi quanto raro, quanto nuovo nella storia è il riconoscimento dei diritti umani. Dalla Britannia a Bassora consideravo le rovine di brillanti civiltà i cui popoli mai intravidero l’idea che gli uomini sono nati liberi. In sessanta secoli di storia umana quell’idea era un elemento della fede religiosa giudaica-cristiana-musulmana, mai usata come principio politico. E’ stata un principio politico solo per pochi uomini sulla terra, per poco più di due secoli. L’Asia non la conosceva. L’Africa nemmeno. L’Europa non l’aveva mai pienamente accettata, e ora la stava respingendo. Cominciai a chiedermi “ Cos’è la libertà individuale ?”(…)

( a cura di Eric Stark )