Giovanni Bonometti

la proprietà è sacra

> Guglielmo Piombini, La proprietà è sacra, Il Fenicottero, Bologna, 2001

Questo ultimo lavoro del noto saggista liberale Guglielmo Piombini (che raccoglie e rivede testi già precedentemente usciti sulla rivista "Federalismo & Libertà") rappresenta una straordinaria occasione per avvicinare il liberalismo contemporaneo in alcune delle sue espressioni più originali, coraggiose, "controcorrente": quella concezione libertaria che riconduce la libertà civile alla proprietà e, quindi, alla dignità dell’uomo (che per i libertari non può essere aggredito nella sua vita, incolumità e proprietà).

Nel primo saggio l'autore mostra che il vero conflitto di classe del nostro tempo non sia quello immaginato da Marx tra capitale e lavoro, ma tra i membri dello stato (la classe politico-burocratica e i suoi favoriti) e i produttori privati (dipendenti o indipendenti che siano). Il punto di partenza dell'analisi è costituito dalla constatazione che esistono infatti solo due mezzi per procurarsi delle risorse: i mezzi economici (la produzione e lo scambio pacifico e volontario) e i mezzi politici (l'appropriazione coercitiva e parassitaria della risorse prodotte da altri). I membri dello stato sono gli unici soggetti della società che, insieme ai delinquenti comuni, si procurano le risorse col secondo (tassazione) e non col primo mezzo (contratto). Viene poi tratteggiato lo sviluppo storico della teoria liberale della lotta di classe, la cui elaborazione ha radici anteriori, e ben più solide, di quella marxiana, ed è stata alla base delle rivoluzioni liberali classiche del XVIII e XIX secolo. La conclusione è che solo una convincente teoria liberale della lotta di classe può fornire le difese culturali necessarie per respingere gli inevitabili tentativi di assalto armato dei poteri politici e criminali alle ricchezze e alle libertà dei ceti produttivi privati.

Nel testo intitolato "Casi di federalismo radicale: città private e comunità condominiali" Piombini critica con numerosi argomenti sia il concetto di pianificazione urbanistica che, più in generale, la teoria ortodossa dei beni pubblici. L'autore descrive quindi il funzionamento delle città private e delle comunità condominiali americane: realtà territoriali interamente private dove tutti i servizi ai residenti, dalla sicurezza alla nettezza urbana all'antincendio, ecc., vengono offerti da imprese e compagnie private. Queste "privatopie" sono riuscite a risolvere perfettamente tutti i problemi di insicurezza, criminalità, traffico, inquinamento, e degrado, che ancora assillano le città statalizzate.

Molto apprezzato per i suoi studi sull’ambiente, Piombini non manca di riservare una parte del volume all’illustrazione dei temi dell’ecologismo liberale. Contrariamente alla vulgata ecologista corrente che tuttora domina i media di sinistra e di destra, per la tradizione liberale è la proprietà pubblica che sta all'origine di tutte le forme di inquinamento esistenti, mentre la proprietà privata e il sistema dei prezzi di mercato rappresentano i migliori strumenti di conservazione esistenti. Questo spiega l'ecocidio avvenuto nei paesi ex-comunisti, dove la proprietà privata era inesistente. E spiega anche la ragione per cui solo gli animali in proprietà pubblica (come i bisonti, le balene, i pesci dell'oceano, gli elefanti del Kenya) rischiano l'estinzione, mentre tutte le specie animali in proprietà privata (mucche, galline, cavalli, salmoni atlantici norvegesi, elefanti dello Zimbabwe, ecc.) proliferano meravigliosamente. La soluzione ai problemi ambientali consiste dunque nella privatizzazione delle risorseambientali nel ritorno agli istituti giuridici tradizionali della responsabilità civile.

Nel suo sforzo di rendere "percepibile" e comprensibile la superiore moralità e razionalità del mercato, Piombini non si sottrae all’esigenza di offrire esperienze storiche. Ed ancora all’insegna dello spirito provocatoria che caratterizza ogni suo testo si lancia quindi in una rilettura del West americano. Statistiche alla mano, egli documenta così come la Frontiera americana del secolo scorso fosse infinitamente meno caotica di quanto appaia nei film western: certamente molto meno violenta dell'Est o dell'America attuale. Al contrario, i diritti individuali e le proprietà erano efficacemente protetti da istituzioni private (sceriffi assunti con contratto, comitati di vigilantes, bounty-killer, agenzie d'investigazione, ecc.) che si rivelarono estremamente efficienti, secondo un modello simile a quello teorizzato dagli anarco-capitalisti. Proprio perché mancava un governo centrale, gli uomini del West furono in grado di autogovernarsi liberamente, al riparo da irreggimentazioni e spoliazioni statali. La propaganda statalista che demonizza il Far West è clamorosamente smentita dai fatti, perché invece di fuggire terrorizzati dall'anarchia dilagante milioni sfidarono ogni genere di rischio, pur di raggiungere quelle terre. Il Far West era infatti, proprio grazie all'assenza dello stato, il luogo della terra dove nel XIX secolo vi era il massimo sviluppo economico e demografico, e dove era più facile fare fortuna e trovare la libertà.

Nel saggio "Proletari per il laissez-faire!" l’autore documenta come i primi movimenti operaisti e socialistidell'Ottocento fossero radicalmente antistatalisti e a favore del libero mercato. Le Trade Union inglesi, ad esempio, durante l'epoca vittoriana si battevano contro l'ingerenza statale nelle fabbriche, contro l'assistenza di stato, per la riduzione delle tasse e delle spese pubbliche, e a favore del libero scambio. Il fatto che nel nostro secolo sia prevalsa la versione statalista del socialismo non deve quindi farci dimenticare che nel secolo scorso e fino ai primi decenni del '900 esistevano robuste correnti socialiste favorevoli più completo laissez-faire. Questi filoni, rappresentati in Italia dai cosiddetti socialisti liberisti (come Enrico Leone, Arturo Labriola, o Romeo Soldi) e in America dagli anarchici individualisti - Ezra Heywood, William Greene, Stephen Andrews, Lysander Spooner, e Benjamin Tucker - erano accomunati dalla convinzione che i più gravi problemi sociali che affliggevano le masse lavoratrici non derivavano dalla libera concorrenza, ma dalle pratiche protezionistiche e monopolistiche; che il laissez-faire rappresentava una condizione positiva per gli interessi delle masse operaie, sia come lavoratori che come consumatori; e che lo Stato rappresentava una sovrastruttura parassitaria, dannosa tanto per le attività degli imprenditori che per quelle dei lavoratori. Il colossale disastro con cui si è conclusa la parabola del socialismo statalista, autoritario e accentratore non può che rivalutare le intuizioni di questa tradizione liberista e libertaria del movimento operaio. Se c’è allora un lontano socialismo anti-statalista che può essere recuperato, esso ebbe ben poco a che fare con Marx. Nel suo "Il comunismo da Marx a Pol Pot", infatti, Piombini si colloca sulla scia di Murray N. Rothbard, dimostrando che - all'opposto di quanto solitamente si afferma - il marxismo prefigura un sistema sociale molto peggiore di quelli che si sono storicamente instaurati nei paesi del socialismo reale. In tutta la costruzione marxiana, infatti, è fondamentale l'idea che il comunismo si realizzi solo con la scomparsa della specializzazione del lavoro e dello scambio, visti come la fonte di tutte le disuguaglianze tra gli uomini. La dottrina marx-engelsiana si pone quindi un obiettivo profondamente disumano: sostituire l'infinita diversità degli individui con l'uniformità tipica del formicaio. La realizzazione di questo programma spaventoso richiede un uso continuo e massiccio della coercizione e della violenza. Ecco perché, lungi dall'essere un nobile ideale tradito da maldestri esecutori, il comunismo di Marx ha rappresentato un modello talmente negativo, che anche i rivoluzionari più fanatici non sempre hanno avuto il coraggio di seguire fino in fondo. L'unico caso storico in cui tutte le condizioni richieste da Marx per l'esistenza della società comunista furono messe in pratica con la massima coerenza è stato probabilmente quello della Cambogia dal 1975 al 1979. La conclusione è che i governanti comunisti sono stati tanto più dispotici quanto più cercavano di avvicinarsi al modello puro di comunismo prefigurato da Marx. La nozione prevalente che il comunismo marxiano rappresenti un glorioso ideale umanitario pervertito dal tardo Engels, da Lenin, o da Stalin può ora essere posta nella giusta prospettiva: nessuno degli orrori commessi da Lenin, Stalin o da altri regimi marxisti leninisti può essere paragonato alla mostruosità dell'ideale comunista di Marx.

Come si vede, non si tratta certo di un volume banale, scontato o destinato ad essere esaltato dai soliti mediocri commentatori che affollano il "Maurizio Costanzo Show". Il fatto che non abbia trovato spazio nei cataloghi Mondadori o Feltrinelli è, d’altra parte, un’ulteriore conferma dell’originalità delle sue tesi.

Parafrasando Nietzsche, si può allora dire che questo è davvero "un libro per pochi". Per quei pochi uomini liberi che ancora hanno voglia di mettere in discussione i loro dogmi e per cercare – senza timori e senza reticenze – quanto vi può essere di vero e di autentico nella tradizione di pensiero che qui Guglielmo Piombini così bene sa interpretare.

>il volume può essere ordinato direttamente all’editore scrivendo a info@ilfenicottero.it

(numero telefonico: 051 239969)

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