Quella che fu detta, in un momento di esposizione mediatica, “Nuova Destra”, non ha più modo di insistere troppo sull’aggettivo, ché cosa ormai di lustri -  e non son pochi. Quanto al sostantivo sembra essere meno inderogabile d’una volta. Colpisce tuttavia la mole, peraltro mai invadente, del lavoro al quale si è sottoposta, principalmente nei nomi di spicco, a cominciare dal  de Benoist che ne è stato -  e, crediamo si possa dire,  ne è  - il mallevadore. E proprio in de Benoist, ma non solo in lui, si ritrovano tali e tanto ben espresse capacità che anche di fronte a motivi e spunti di discordia non si può, onestamente, che restare ammirati. Rilevando dalle pagine di “Diorama” -  la più vecchia testata italiana ascrivibile alla corrente - questa recensione (del suo direttore) al recente libro di Germinario su de Benoist, s’è voluto dunque far prevalere l’intenzione chiarificatrice  che la anima su tutto il resto – per giunta tutt’altro che ordinario.    

Marco Tarchi

il de Benoist di Germinario

Francesco Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle droite, Bollati Boringhieri, Torino 2002

Chiunque abbia familiarità con le idee di Alain de Benoist, sa che racchiuderle in un’analisi unitaria è impresa ardua. Sono occorse quasi quattrocentocinquanta pagine, per provare a farlo, a Pierre-André Taguieff, in quel La Nouvelle droite. Jalons d’une analyse critique (Descartes & Co) che resta di gran lunga il miglior libro in argomento; eppure anche quel risultato non può dirsi esaustivo. Sarebbe stato difficile far meglio riempiendone poco più di un terzo, e non è dunque l’incompletezza il difetto che si può rimproverare a Francesco Germinario; né gli si può far troppo carico di una lettura qua e là marcatamente antagonistica della materia nella quale si è addentrato, perché le sue non celate passioni di militante di una sinistra poco propensa ad aprirsi alle altrui ragioni – testimoniate dalla collaborazione al quotidiano di Rifondazione comunista, "Liberazione" – avrebbero autorizzato ad aspettarsi ben di peggio. Al contrario, i toni riflessivi e pacati con cui l’argomento è affrontato rappresentano il pregio maggiore del libro. La cui vera pecca è di presentarsi come un’opera a tesi, schiva di sfumature, condotta con l’intento non di interloquire criticamente con la filosofia politica del pensatore normanno, ma di inquadrarla in un progetto strategico le cui coordinate sono date per scontate, facendone combaciare a forza i refrattari tasselli.

Questo è infatti il palese proposito con cui è stato scritto La destra degli dei: ridurre il complesso itinerario delle meditazioni dell’autore studiato, che si sono estese lungo sette lustri e hanno conosciuto ripensamenti, contraddizioni e revisioni di rotta, a un ininterrotto e lineare filo rosso, mosso dalla preoccupazione quasi ossessiva di rifondare una "vera destra", rinnovata nelle forme espressive e in taluni contenuti ma rigidamente fedele allo spirito della droite éternelle. Un’intenzione che non può che condurre fuori strada il lettore neofita, invitato a percorrere scorciatoie senza via d’uscita nel tentativo di catturare l’essenza di idee che sono invece, per volontà di chi le ha esposte, aperte all’evoluzione e al dubbio.

Beninteso: che fra gli obiettivi di Alain de Benoist, uscito deluso da un giovanile attivismo nelle file della destra radicale francese, vi sia stato in origine la modernizzazione dell’ambiente dal quale proveniva, non può essere messo in dubbio. Ma, come Taguieff ha documentato e una bibliografia personale ormai di proporzioni straripanti dimostra, proprio gli scarsi esiti dei tentativi da lui effettuati in tal senso sino al 1967 – l’epoca di riviste come "Europe-Action" e i "Cahiers Universitaires" e dell’effimero Rassemblement Européen des Libertés condotto da Dominique Venner –, uniti alla curiosità intellettuale che da sempre caratterizza de Benoist, hanno poi ampliato e ridisegnato quell’orizzonte. Già nella seconda metà degli anni Settanta, quando la sua antologia Vu de droite vinse il premio di saggistica dell’Académie Française, il fondatore di "Nouvelle École" si rese conto di non potersi più dire "di destra", stanti le forti differenze tra le sue convinzioni e le opinioni diffuse negli ambienti a cui quell’etichetta si applicava, e puntò su una formula un po’ equilibristica, affermando che le sue idee si trovavano in quel momento "a destra" per effetto del convergere di una serie di elementi di circostanza, ma avrebbero potuto benissimo collocarsi altrove, cioè anche a sinistra, se quello scenario politico-culturale si fosse modificato.

I suoi atti, da allora in poi, hanno confermato la vocazione di de Benoist a coltivare un pensiero sincretico e trasversale. Non solo, infatti, egli non si è lasciato coinvolgere nelle campagne politiche delle varie destre, ma molte delle scelte compiute lo hanno nettamente separato dagli ambienti nazionalisti, tradizionalisti, conservatori o xenofobi. Le sue pubbliche prese di posizione contro Le Pen e il Front national, accusati di accollare agli immigrati la responsabilità di una serie di squilibri e tensioni che affondano le radici nel cuore delle odierne società industrializzate di massa, ma anche contro i liberali giscardiani succubi della tirannia degli interessi economici o i neogiacobini centralisti annidati nelle file del gollismo, non si contano. Anche se ne La destra degli dei non se ne trova, non casualmente, neppure una flebile eco. Non a caso: perché darne conto avrebbe significato indebolire, agli occhi del lettore, l’ipotesi monolitica del de Benoist votato a "stare a destra", anzi, destinato ad essere "l’ultimo intellettuale che la destra francese del Novecento abbia prodotto", attorno a cui l’intero studio è costruito.

Va riconosciuto che Germinario sostiene la sua tesi, parziale e riduttiva, con accortezza e garbo (quello che da anni si guarda bene dal riservare a uomini e idee dell’ex Nuova Destra italiana, con i quali ha ingaggiato un’unilaterale singolar tenzone che non gli fa onore), evitando di inciampare nei "giudizi orecchiati e semplicistici" di "storici peraltro documentati" (il riferimento diretto è a Eatwell, ma chi si è più spinto avanti su questo versante è Griffin) che hanno presentato Alain de Benoist "come uno tra i "pensatori fascisti più seri del dopoguerra"". Il ricercatore di Molfetta ammette anzi che "ricondurre il pensiero politico di de Benoist al fascismo tout court è operazione quantomeno semplicistica, certamente utile per delegittimarlo, ma sterile sul piano conoscitivo, se non del tutto disonesta sul piano intellettuale" ed esprime disaccordo verso quei critici prevenuti che fanno passare il teorico della Nouvelle droite per "una versione aggiornata e mascherata – e dunque, proprio per questo, più pericolosa – di Alfred Rosenberg e Heinrich Himmler". Ma poi scivola negli stessi errori che addebita agli altri.

La convinzione che "il revisionismo [si noti la scelta del termine, di per sé carico di forti ambiguità, ndr] di de Benoist è riuscito in un certo senso a mantenersi fedele alla precedente cultura di destra" lo spinge infatti a scrivere che costui "ha comunque cercato di rendere presentabile quella cultura di destra che aveva pur sempre assunto a punto di riferimento i regimi e le culture politiche fasciste" e "si presenta come l’ultimo esponente d[el] filone [di destra della cultura francese degli anni venti-trenta], accentuando il terzaforzismo ereditato dalla cultura politica del collaborazionismo (Drieu La Rochelle ecc.), che riteneva il nazismo un tentativo di salvaguardare la civiltà europea dall’espansionismo sovietico e dal mercantilismo delle talassocrazie anglosassoni di schmittiana memoria". E non basta, perché a de Benoist premerebbe soprattutto "ricostruire speditamente i fondamenti della cultura di destra, sottraendola ai sensi di colpa provocati dalla sconfitta del 1945 e addebitando invece alla sinistra le storture di una modernità abbrutente". Da qui a farne quel tessitore di sulfuree trame culturali revansciste caro a certa pubblicistica sbrigativa presente sia al di qua che al di là delle Alpi, il passo è breve, a prescindere dalle buone intenzioni dichiarate in avvio di libro, e Germinario lo compie immediatamente quando scrive, a prezzo di un’evidente contorsione logica, che "de Benoist sembra non avere quasi mai influito sulle scelte politiche dei movimenti di destra europei, almeno nel senso che nessuno dei movimenti di destra politicamente più significativi di fine-inizio secolo si è mai richiamato esplicitamente alle sue posizioni. Eppure non v’è dubbio che proprio lui abbia messo in circolazione alcune tematiche – prima fra tutte, il differenzialismo – che sono entrate nel patrimonio genetico dei movimenti xenofobi, tanto da poter rivendicare una qualche paternità di pensiero rispetto al variegato panorama storico-politico della destra europea di questi ultimi decenni".

Questa paternità, tuttavia, Alain de Benoist non solo non l’ha mai rivendicata, ma si è impegnato in ogni modo per respingerla, ovviamente inascoltato da chi, a sinistra ma anche a destra (basta pensare agli attacchi furibondi degli ambienti più estremisti del cattolicesimo tradizionalista italiano impegnato a destra: per prima Alleanza Cattolica), vuole utilizzare il suo nome nella costruzione di un tipo ideale di Nemico per darsi nuove ragioni di impegno militante che riescano a sostituire quelle ormai al tramonto. Favorevole ad un assennato multiculturalismo e assertore del diritto dei popoli e delle culture ad affermare le proprie specificità – e per questo motivo in aspra polemica con i sostenitori dell’occidentalizzazione del mondo e dell’assimilazione, da lui giudicata spersonalizzante, degli immigrati nelle società multietniche dei paesi di accoglienza –, de Benoist non si è limitato a respingere la gerarchizzazione delle razze, ma ha deplorato le forme di apartheid che i movimenti xenofobi più o meno apertamente sostengono. E non si può certo dire che questo sia l’unico fondamento del contenzioso che lo divide dall’universo politico populista incarnato dai Le Pen, dagli Haider, dai Bossi e dai tanti loro odierni emuli. Altri motivi di conflitto sono infatti le sue critiche del liberismo, del moralismo familista, del produttivismo, dell’individualismo, della tattica del capro espiatorio applicata agli immigrati: altrettanti punti fermi della visione del mondo populista. Mentre le sue convinzioni federaliste e avverse al culto dello stato lo contrappongono alle destre di ascendenza nazionalista e neofascista, inclusa quell’Alleanza nazionale che pure si sforza per includerlo nel suo smilzo pantheon di pensatori di riferimento, a mero titolo strumentale (Fini è arrivato al punto di citare al recente congresso nazionale di An una sua frase decontestualizzata, spingendo il "Corriere della sera" a titolare in sede di commento: "La nuova destra? È quella di de Benoist"), e fa leva sull’isolamento di cui soffre in patria per farne la vedette di convegni e tavole rotonde, indifferente ai contenuti dei suoi interventi ma attenta a trarne il massimo vantaggio d’immagine.

Per enfatizzare i motivi di continuità fra i vari filoni del pensiero di destra del XX secolo e le idee dell’autore studiato e sottacerne gli elementi di rottura e di evoluzione, Germinario effettua una rigorosa delimitazione dell’opera da analizzare, espungendone quasi tutto ciò che de Benoist ha scritto su temi economici, giuridici, sociologici e politici in senso stretto. Cioè quei materiali da cui il suo progressivo distacco dalla cultura e dalla mentalità delle varie destra appare più evidente. Abbondano viceversa i riferimenti agli articoli e ai libri di impianto filosofico, che meglio si prestano a giustificare l’immagine di un pensatore metafisicamente ancorato a destra, che della sinistra avrebbe fatto il proprio idolo polemico, trascinandola "sul banco degli imputati, chiamata a render conto di tutti gli orrori storici, a cominciare dai totalitarismi (tutti i totalitarismi)" e nel cui bagaglio culturale avrebbe ancora un peso cruciale l’insegnamento evoliano. A contribuire a questa scelta è verosimilmente anche l’infondata convinzione che la metapolitica debenoistiana – che Germinario considera, sottoscrivendo un discutibile giudizio di Bobbio, "strategia evanescente e di corto respiro" – esprima una "rinuncia alla politica in nome dell’autoeducazione individuale", prossima all’evoliana apolitìa, mentre è ad un superamento della dimensione meramente istituzionale e quotidiana della politica, proiettato verso un intervento sulle mentalità collettive, che essa è sempre stata orientata.

In questa strategia discorsiva, indirizzata verso quello che potremmo definire un "incatenamento a destra" di de Benoist, l’ambizione di dimostrare l’esaurimento delle capacità descrittive e prescrittive dei concetti di destra e di sinistra è trasfigurata in un banale uso di categorie culturali "appartenenti" alla sinistra, in rilettura da destra di quanto è stato elaborato dalla sinistra, insomma in "parassitismo ideologico". E il passaggio dall’acerbo "né destra né sinistra" degli scritti dei primi anni Ottanta ad una più matura posizione di "e destra e sinistra", in realtà mutuata dalle teorizzazioni della Nuova Destra italiana, è giudicato poco originale e poco trasgressivo, sempre per non sottrarre all’impostazione pregiudiziale del lavoro nemmeno uno dei presupposti che la sostanziano.

Un ruolo cruciale, nell’equazione Nouvelle droite = destra vera, rinnovata ma eterna, lo assume il richiamo alla polemica anticristiana di de Benoist. Di uno dei motivi di fondo della riflessione dell’autore di Come si può essere pagani?, il libro, come il titolo lascia del resto intendere, fa una presenza onnipervadente, chiamata, con non poche forzature, a giustificarne ogni presa di posizione.

L’opposizione tra paganesimo politeista e monoteismo giudaico-cristiano è trasformata arbitrariamente in fondamento storico e metastorico della distinzione assiale destra/sinistra, e la critica che de Benoist fa del cristianesimo è ricondotta all’influenza di Nietzsche "attraverso la mediazione del rigoroso paganesimo di Evola". Facendo leva su alcune delle affermazioni più radicali del filosofo francese, il ricorso al paradosso è sistematicamente invocato a sostegno di questo assunto: nell’interpretazione semplificata del pensiero debenoistiano proposta da Germinario, "san Paolo, espandendo in Occidente il monoteismo di Abramo, ha creato Lenin e il rock’n’roll, Voltaire e Hitler, Robespierre e Mussolini", e il Dio del Sinai "è un Dio di sinistra". E poiché la sinistra oppone e divide, mentre la sua avversaria unifica e accomuna, "la destra non ha bisogno di Dio per governare il mondo" (anche se poi apprendiamo, a pagina 74, che "nell’epoca del dispiegamento della massima potenza del mondialismo, lo scontro non si dà fra destra e sinistra […] ma fra paganesimo e monoteismo": eppure avevamo letto che la seconda di queste opposizioni è il fondamento della prima…).

Il registro della sovrapposizione forzosa tra de Benoist e l’idealtipo della destra è, nel libro, talmente ossessivo da togliere vigore persino ad alcuni interessanti spunti critici che Germinario avanza su particolari aspetti del pensiero dell’autore studiato. Non possiamo comunque non concordare su almeno due delle sue osservazioni. In primo luogo, là dove mette in rilievo il meccanicismo della trasposizione di una concezione spiritualistica e trascendente del divino, quale è quella cristiana, in "quell’utilitarismo che, sia nella versione liberale sia nella versione totalitaria, finisce per emarginare Dio stesso dal mondo", sebbene de Benoist ne faccia una semplice derivazione secolarizzata dell’insegnamento biblico ed evangelico, e di conseguenza invita il teorico della Nouvelle Droite a rendersi conto che l’individualismo cristiano è differente, per sostanza, dall’individualismo invocato dal liberalismo. In secondo luogo, quando imputa all’autore di Comunismo e nazismo di fornire, tramite l’accusa al monoteismo di essere alle radici della mentalità totalitaria, una lettura destoricizzata e depoliticizzata dei fenomeni reali ascrivibili alla categoria del totalitarismo, talché per lui "diviene totalitaria qualsiasi cultura che non si ispiri al paganesimo".

Malgrado queste promettenti incursioni nelle aporie di un pensiero che, come abbiamo notato all’inizio, è necessariamente segnato anche dalle contraddizioni, per la lunga serie di innesti e revisioni che l’autore vi ha operato fra gli anni Sessanta ed oggi, l’analisi complessiva del discorso debenoistiano sulla politica operata da Germinario resta poco convincente. Dopo averne identificati alcuni tratti basilari, come la descrizione del liberalismo come un totalitarismo dal volto umano o il superamento/assorbimento dell’anticomunismo nell’antiamericanismo, egli ne liquida infatti in poche righe i caratteri di novità – il trasversalismo e la "azzardata" scissione fra Europa e Occidente – e si ingegna in una macchinosa indagine che ne sveli invece le stigmate di continuità con la destra. Finisce così o per falsificare dati di fatto – come quando scrive che "per gli intellettuali fascisti degli anni trenta il comunismo sovietico era una particolare forma storica del liberalismo", convinzione che era viceversa propria solo di una ristretta minoranza di essi, perlopiù in odore di fronda – o per attribuire a de Benoist idee (antidemocratiche) che sono ricavate dalle interpretazioni di suoi critici – come l’inscindibilità del binomio "demos e oro", teorizzata da Michela Nacci in merito alla cultura antiamericana dell’Europa fra le due guerre mondiali. E non può non sollevare quantomeno una perplessità il funambolico tentativo di sostenere da un lato che la concezione del divenire di de Benoist resta legata alla cultura della destra tradizionalista, giacché che per lui il futuro si identificherebbe con la custodia del passato (strana lettura della concezione sferica del tempo che l’autore de Le idee a posto ha raccolto – questa sì! – da Nietzsche) e dall’altro che la sua critica del tradizionalismo, anche e specialmente evoliano, è mossa dall’accusa che egli gli farebbe di essere… in realtà di sinistra, perché ancora "tributari[o] della filosofia della storia tipica delle grandi narrazioni ideologiche egualitarie".

È comunque il capitolo conclusivo, Approdi del differenzialismo, a racchiudere i maggiori difetti dell’opera. Usando come argomento di autorità le note (e infondate) insinuazioni di Pierre-André Taguieff sul "razzismo clandestino" che si celerebbe nelle pieghe del discorso della Nouvelle Droite, il libro rilegge la dottrina debenoistiana sul diritto alla differenza, Leitmotiv dei suoi interventi sulle questioni etniche, in modo parziale e polemico. Non volendo aggredirne frontalmente i contenuti, perché essi riecheggiano in larga parte tesi care alla sinistra radicale, Germinario la colloca, senza fornire prove, in una strategia mirante a "rivoltare contro la sinistra i suoi stessi argomenti o di appropriarsi da destra delle culture di sinistra" (approcci, a noi pare, in contraddizione) e la sottopone all’accusa di strumentalismo. Strumentale è, a suo avviso, il confronto con l’altro, che de Benoist predica in opposizione alle chiusure xenofobe, perché "finalizzato a sottolineare la propria specificità", in quanto "l’io vede nell’altro da sé il mezzo per preservare la propria differenza"; e addirittura sostiene che questa attitudine lo apparenterebbe (di nuovo!) ad Evola, più precisamente all’Evola impegnato nella campagna razziale del regime fascista, che celebrava l’"affermazione della qualità e della differenza di fronte al mito livellatore dell’umanitarismo demomassonico e enciclopedico". E strumentale viene addirittura giudicata la dura critica di de Benoist al biologismo razzista, perché, citando Taguieff, in queste forzature davvero cattivo maestro, l’attacco alle assolutizzazioni del dato razziale fondato sul sangue e su presunte leggi di natura viene interpretato come un trasferimento della logica razzista sui "termini nobili della postmodernità: etnia, cultura, patrimonio (culturale e genetico), ereditarietà, memoria, storia, tradizione, mentalità, differenza e identità".

In questo uso fuorviante delle limpide affermazioni debenoistiane in materia di razzismo, Germinario arriva buon ultimo. La schiera dei discepoli maldestri di Taguieff è ormai ampia, e l’infondatezza delle loro accuse, mosse da preoccupazioni esclusivamente ideologico-politiche, merita una trattazione a parte, che abbiamo già iniziato e presto proseguiremo. Ma è grave, e spiacevole, che in un testo che si vorrebbe riassuntivo – oltre che critico – delle opinioni dell’autore studiato, delle repliche che de Benoist ha in più sedi fornito alle insinuazioni dei suoi detrattori non si tenga alcun conto. Se lo si fosse fatto, ci si sarebbe resi conto di come, dietro alla denuncia del presunto "razzismo differenzialista", si celi spesso la volontà di criminalizzare per fini politici proprio alcune delle nozioni che Taguieff cita: identità, differenza, tradizione, etnia, patrimonio culturale, imponendo il diktat del "politicamente corretto" tipico di ogni forma di pensiero intollerante e smaniosa di egemonia.

Se si indulge al gioco delle analogie decontestualizzate ci si può consentire ogni tipo di affermazione, ed è ovvio che, così come scrivendo di critiche al cristianesimo si sono malignamente evocati i nomi sulfurei di Rosenberg e Vacher de Lapouge, possano essere messi nello stesso sacco, in nome della comune diffidenza per l’universalismo, teorici e correnti di pensiero fra i più svariati: di destra, da Joseph de Maistre in poi, come fa Germinario, ma anche di sinistra. Un’analisi equilibrata dei caratteri innovativi del pensiero di Alain de Benoist non si limiterebbe tuttavia ad ammettere che "con il differenzialismo il corpo smette di essere il significante dell’anima e dello spirito, come invece voleva il pensiero razzista classico", insinuando che dietro questo punto di vista si celi un razzismo rinnovato, il cui culto di una differenza promossa ad assoluto farebbe da battistrada a prassi discriminanti verso le minoranze etniche ("una rinnovata ma non per questo meno rigida ghettizzazione". In de Benoist, la differenza non è mai elevata ad assoluto, né il particolare è privilegiato rispetto al generale (posizione che sarebbe in contrasto con il dichiarato olismo dell’autore, per cui il tutto è sempre maggiore della somma delle parti che lo compongono). L’avversione all’egualitarismo si accompagna dichiaratamente, in lui, all’accettazione del dialogo interculturale, e vederlo come l’estensore di "una Dichiarazione dei diritti della natura" contrapposti ai diritti dell’Uomo, all’interno di una visione del mondo nella quale "natura e storia sono dimensione opposte, ed è la prima a dare scacco alla seconda" significa operare una forzatura.

Anche da questo punto di vista, inserire a forza Alain de Benoist nella tradizione culturale della destra significa misconoscerne l’originalità. Che questo sia l’obiettivo di fondo del libro di Germinario appare, finalmente, evidente quando egli scrive che "il differenzialismo debenoistiano non è solo significativo perché ha aggiornato lo statuto teorico di un razzismo screditato e indifendibile, dopo il 1945, davanti alla memoria collettiva" (come si vede, l’accusa di criptonazismo congedata dalla porta viene fatta rientrare, con tutti gli onori, dalla finestra), ma anche perché "dalla contrapposizione fra monoteismo giudaico-cristiano, universalismo, totalitarismo, sinistra da un lato, e politeismo, differenzialismo, destra dall’altro, de Benoist conclude a un giudizio di perversa innaturalità dell’universalismo e quindi della sinistra". Questo giudizio sull’innaturalità della sinistra non risulta, a nostra conoscenza, da alcuna delle molte migliaia di pagine vergate dal teorico della Nouvelle droite. Germinario però lo legge in filigrana, lo decodifica, lo profetizza ricomponendo, nella sua mente di militante della Giusta Causa, tasselli sparsi e non collimanti. Sarebbe interessante sapere se lo fa senza rendersi conto di regalare così un’icona, un autore di culto, un’immaginetta beatificante alle destre reali, e soprattutto agli ambienti giovanili neofascisti alla disperata ricerca di una cultura già pronta in scatola di montaggio che li assolva dai sospetti di impresentabili nostalgie senza farli passare per la fatica dell’autocritica, o se lo fa invece proprio perché vuole ottenere questo risultato, dando in pasto le idee della Nuova Destra all’ultima progenie di una destra stravecchia pur di non rischiare di lasciarle entrare in sinergia con i ben più promettenti e vivaci ambienti di una sinistra non liberale, preda di una sempre più lacerante crisi di identità e strategie.

Lasciando planare senza faziosità il dubbio su questa intenzione, non possiamo esimerci dal constatare come Germinario sbagli quando legge nel differenzialismo un desiderio di emanciparsi dalla politica o di metterla fuori gioco, ripetendo l’errore commesso nel ridurre l’intuizione contenuta nel cosiddetto "gramscismo di destra" ad una riedizione dell’apolitìa evoliana. Tutte le riflessioni recenti di de Benoist testimoniano, all’opposto, la volontà di rimettere la politica al centro della vita collettiva, in un’epoca in cui essa ne è stata evacuata dal predominio combinato dell’economia e dell’etica (ma sarebbe meglio dire del moralismo). E anche se nella rivendicazione del realismo e della concretezza la sua visione della politica si apparenta a quella di altre destre, addebitargli la convinzione che "natura e storia sono dimensioni opposte, ed è la prima a dare scacco alla seconda" – accostandolo, per l’ennesima volta, al nazionalsocialismo – vuol dire travisarne l’opera. È esagerato dire che il suo pensiero assume il rousseauismo come idolo polemico; se così fosse, perché mai un filosofo impegnato a prendersela con "l’ombra malefica di Rousseau, ritenuto il padre di tutte le rivoluzioni e sovversioni moderne" avrebbe scritto, e per giunta in "Études et Recherches", la rivista di formazione interna del Grece, officina culturale della Nouvelle Droite, un articolo intitolato Relire Rousseau, in cui si mette in guardia dalle interpretazioni deformanti che gli esegeti di destra hanno fornito del pensatore ginevrino e si invita a riconsiderarne l’opera senza prevenzioni?

La cosa è strana, si converrà. Peccato che nel libro di Germinario di questo saggio, come di molti altri testi debenoistiani "eretici" o collidenti rispetto al pensiero di destra, non si trovi neppure l’ombra di una traccia o di un riferimento. Prenderli in considerazione, analizzarli e discuterne gli elementi di originalità avrebbe messo a dura prova l’impalcatura granitica e squadrata attorno a cui è stato costruito La destra degli dei. La cui lettura si risolve così, malgrado gli innegabili sforzi di erudizione dell’autore, in un esercizio scarsamente utile alla conoscenza di un pensiero critico e anticonformista che oggi, piaccia o non piaccia ai manichei, ha molto più da dire alla sinistra postmarxista tuttora in crisi che alle destre gonfie di fragili e molto soggettive certezze.

Diorama letterario”, giugno-luglio 2002