sovvenzionare l'arte?

Frédéric Bastiat*

teatri, belle arti

Lo Stato deve sovvenzionare le arti?
C’è certamente molto da dire a favore e contro.

In favore del sistema delle sovvenzioni, si può dire che le arti allargano, elevano e poetizzano l’anima di una nazione, che la strappano alle preoccupazioni materiali, le danno il sentimento del bello, e agiscono anche favorevolmente sui suoi modi, i suoi usi, i suoi costumi e anche sulla sua industria. Ci si può domandare cosa ne sarebbe della musica in Francia senza il Teatro-Italiano; e dell’arte drammatica senza il Teatro-Francese; della pittura e della scultura senza le nostre collezioni e i nostri musei. Si può andare più lontani e domandarsi se, senza la centralizzazione e la conseguente sovvenzione delle arti, questo gusto squisito, che è la nobile prerogativa del lavoro francese e impone i suoi prodotti all’universo intero, si sarebbe sviluppato. In presenza di tali risultati, non sarebbe una grave imprudenza rinunciare a questa modica colletta di tutti i cittadini che, in definitiva, realizza, nel centro dell’Europa, la loro superiorità e la loro gloria?

A queste e ad altre ragioni, delle quali non contesto la forza, ne possiamo contrapporre altre non meno potenti. C’è anzitutto, si potrebbe dire, una questione di giustizia distributiva. Il diritto del legislatore deve arrivare fino ad intaccare il salario dell’artigiano per costituire un supplemento di profitti per l’artista? Il sig. Lamartine diceva: "Se voi sopprimete la sovvenzione ad un teatro, dove vi fermerete su questa via, e non sarete logicamente portati a sopprimere le vostre Facoltà, i vostri Musei, i vostri Istituti, le vostre Biblioteche?" Si potrebbe rispondere:
"Se volete sovvenzionare tutto ciò che è buono e utile, dove vi fermerete su questa via, e non sarete logicamente portati a costituire sovvenzioni per l’agricoltura, l’industria, il commercio, la beneficenza, l’istruzione?" e poi, è certo che le sovvenzioni favoriscano il progresso dell’arte? E’ una questione lontana dall’essere risolta, e noi vediamo coi nostri occhi che i teatri che prosperano sono quelli che vivono di vita propria. Infine, elevandosi a considerazioni più alte, si può fare osservare che i bisogni e i desideri nascono gli uni dagli altri e aumentano all’interno di regioni via via sempre più epurate, nella misura in cui la ricchezza pubblica permette di soddisfarli; che il governo non debba affatto occuparsi di questa corrispondenza, poiché in una condizione dovuta alla fortuna attuale, non saprebbe stimolare, attraverso l’imposizione fiscale le industrie di lusso senza penalizzare le industrie di prima necessità, invertendo anche la marcia naturale della civilizzazione. Si può fare osservare che questi spostamenti artificiali dei bisogni, dei gusti, del lavoro e della popolazione, mettono i popoli in una situazione precaria e pericolosa, che non dà sicurezza.

Ecco alcune delle ragioni che addurrebbero gli avversari dell’intervento dello Stato, in quello che concerne l’ordine nel quale i cittadini credono dover soddisfare i loro bisogni e i loro desideri, e conseguentemente indirizzare la loro attività. Io sono tra quelli, lo confesso, che pensano che la scelta, la spinta debba venire dal basso, non dall’alto, dai cittadini, non dal legislatore; e la dottrina contraria mi sembra condurre all’annientamento della libertà e della dignità umane.

Ma, attraverso una deduzione tanto falsa quanto ingiusta, sapete di cosa si accusano gli economisti? E’ che quando respingiamo una sovvenzione, respingiamo la cosa stessa che si intende sovvenzionare, e di essere nemici di tutti i generi di attività, perché noi vogliamo che queste attività, da una parte siano libere, e dall’altra cerchino in esse stesse la loro ricompensa. Così, chiediamo che lo Stato non intervenga, attraverso le tasse, nelle materie religiose? siamo degli atei. Chiediamo che lo Stato non intervenga, attraverso le tasse, nell’educazione? noi odiamo il progresso della ragione. Diciamo che lo Stato non deve dare, attraverso le tasse, un valore artificiale ai terreni, come all’industria? siamo nemici della proprietà e del lavoro. Pensiamo che lo Stato non debba sovvenzionare gli artisti? siamo dei barbari che giudichiamo inutili le arti.

Protesto qui con tutte le mie forze contro queste deduzioni. Lungi dal fatto che noi abbiamo l’assurda intenzione di annientare la religione, l’educazione, la proprietà, il lavoro e le arti quando chiediamo che lo Stato protegga il libero sviluppo di tutte queste attività umane, senza assoldarle a spese le une delle altre, crediamo al contrario che tutte queste forze vive della società si svilupperebbero armoniosamente sotto l’influenza della libertà, che nessuna di esse diverrebbe, come vediamo oggi, fonte di discordie, di abusi, di tirannia e di disordine.

I nostri avversari credono che una attività che non sia né sussidiata né
regolamentata sia una attività annientata. Noi crediamo il contrario. La loro fede è nel legislatore, non nell’umanità. La nostra è nell’umanità, non nel legislatore.

Così, il sig. Lamartine diceva: "Nel nome di questo principio, bisogna abolire le Esposizioni Pubbliche che fanno l’onore e la ricchezza di questo paese."
Io rispondo al sig. Lamartine: "Dal vostro punto di vista, non sovvenzionare significa abolire, perché, partendo da questo dato che niente possa esistere se non per volontà dello Stato, voi ne concludete che niente che non sia fatto vivere attraverso le tasse possa vivere. Ma vi restituisco l’esempio che voi avete scelto, e vi faccio osservare che la più grande, la più nobile delle Esposizioni, quella che è concepita dal pensiero più liberale, più universale, e posso anche servirmi della parola umanitario, il che non è qui esagerato, è l’Esposizione che si prepara a Londra, la sola nella quale nessun governo si immischia e che nessuna tassa finanzia."

Ritornando alle belle arti, si possono, lo ripeto, addurre pro e contro il sistema delle sovvenzioni, delle ragioni potenti. Il lettore comprende che, secondo l’oggetto di questo scritto, non dovrei né esporre queste ragioni, né decidere su di esse.
Ma il sig. Lamartine ha messo avanti un argomento che non posso far passare sotto silenzio, poiché rientra nell’ambito molto preciso di questo studio economico.

Egli ha detto: "La questione economica, in materia di teatri, si riassume in una sola parola: lavoro. Poco importa la natura di questo lavoro, è un lavoro tanto fecondo, tanto produttivo quanto ogni altro genere di lavori in una nazione. I teatri, voi lo sapete, non nutrono meno, non pagano meno, in Francia, di ottantamila lavoratori di qualsiasi natura, pittori, muratori, decoratori, scultori, architetti, ecc., che sono la vita stessa di diversi quartieri di questa capitale, e, a questo titolo devono ottenere le vostre simpatie !"

Le vostre simpatie ! - traducete: le vostre sovvenzioni.

E più lontano: "Le gioie di Parigi sono il lavoro e il consumo dei Dipartimenti, e i lussi del ricco sono il salario e il pane di duecentomila lavoratori di ogni specie, che vivono dell’industria così molteplice dei teatri sulla superficie della Repubblica, e ricevono da questi piaceri nobili, che danno lustro alla Francia, l’ alimento della loro vita e il necessario per le loro famiglie e i loro figli. E’ a loro che darete questi 60000 F." (Moltobene ! molto bene ! numerosi segni d’approvazione.)

Per quanto mi riguarda, sono obbligato a dire: molto male ! molto male ! restringendo, beninteso, la portata di questo giudizio all’argomento economico del quale qui discutiamo.

Si, è ai lavoratori dei teatri che andranno, almeno in parte, i 60000 F. dei quali parliamo. Alcune briciole potranno anche perdersi per strada. E anche, se guardiamo la cosa da vicino, probabilmente si scoprirebbe che la torta prenderà un’altra strada; felici i lavoratori se rimarrà loro qualche bocconcino! Ma voglio anche ammettere che l’intera sovvenzione andrà ai pittori, decoratori, costumisti, parrucchieri, ecc. E’ ciò che vediamo.

Ma da dove viene questa sovvenzione? Ecco il rovescio della medaglia, altrettanto importante da esaminare che il fronte. Dov’è la sorgente di questi 60000 F.? E dove andranno, se un voto legislativo non li dirigerà prima verso rue de Rivoli e da lì verso rue de Grenelle? E’ ciò che non vediamo.

Sicuramente nessuno oserà sostenere che il voto legislativo ha fatto sgusciare questa somma dall’urna dello scrutinio; che essa è una pura aggiunta fatta alla ricchezza nazionale; che, senza questo voto miracoloso, questi sessantamila franchi sarebbero stati per sempre invisibili e impalpabili. Bisogna bene ammettere che tutto ciò che ha potuto fare la maggioranza, è decidere che sarebbero stati presi da qualche parte e inviati da qualche altra, e che non avrebbero avuto una destinazione se non fossero stati deviati da un’altra.

Stando così le cose, è chiaro che il contribuente che sarà stato tassato di un franco, non avrà più quel franco a disposizione. E’ chiaro che sarà privato di una soddisfazione nella misura di un franco, e che il lavoratore, chiunque esso sia, che gliel’avrebbe procurata, sarà privato del salario nella stessa misura.

Non facciamoci dunque questa puerile illusione di credere che il voto del 16 maggio aiuti in qualche modo il benessere e il lavoro nazionale. Sposta le sostanze, sposta i salari, ecco tutto.

Si dirà che a un genere di soddisfazione e un genere di lavoro, sostituisce delle soddisfazioni e dei lavori più urgenti, più etici, più ragionevoli? Potrei lottare su questo terreno. Potrei dire: Strappando 60000 F. ai contribuenti, diminuite i salari dei coltivatori, scavatori, carpentieri, fabbri, e aumentate allo stesso tempo i salari dei cantanti, parrucchieri, decoratori e costumisti. Che non si dimostra che quest’ultima classe sia più interessante dell’altra. Il sig. Lamartine non lo argomenta. Dice lui stesso che il lavoro dei teatri è tanto fecondo, tanto produttivo (e non più) di qualsiasi altro, cosa che potrebbe ancora essere contestata; poiché la miglior prova che il secondo non è altrettanto fecondo del primo, è che questo è chiamato a sussidiare quell’altro.

Ma questa comparazione tra il valore e il merito intrinseco delle diverse nature dei lavori non rientra nel mio oggetto di discussione attuale. Tutto ciò che devo fare qui, è di mostrare che se il sig. Lamartine e le persone che hanno applaudito alle sue argomentazioni hanno visto, con l’occhio sinistro, i salari guadagnati dai fornitori dei commedianti, avrebbero dovuto vedere, con l’occhio destro, i salari perduti dai fornitori dei contribuenti; altrimenti, si sarebbero esposti al ridicolo di prendere uno spostamento per un guadagno. Se fossero fedeli alla loro dottrina, chiederebbero delle sovvenzioni all’infinito; poichè ciò che è vero per un franco e per 60000 F., è vero, in circostanze identiche, per un miliardo di franchi.

Quando si tratta di imposte, signori, provatene l’utilità attraverso ragioni fondate, ma non certo attraverso questa spropositata asserzione: "Le spese pubbliche fanno vivere la classe lavoratrice." Essa ha il torto di nascondere un fatto essenziale: che le spese pubbliche si sostituiscono sempre a delle spese private, e che, conseguentemente, fanno ben vivere un lavoratore al posto di un altro, ma non giovano in nessun modo all’insieme della classe lavoratrice. La vostra argomentazione è tanto di moda, ma è troppo assurda perché la ragione non ne abbia ragione.

1850

(trad.: Fabio Lazzarin)

*1801-1850 (vedi "circolare 2000", archivio)

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