Saverio Zuffanti

filmsofia

Quando non citano opere specialistiche, i filosofi, di preferenza, citano poesie, romanzi, opere teatrali. In misura minore capita di imbattersi nella descrizione di una qualche opera d'arte, ma assai rare sono le escursioni in un territorio popolare come il cinema. Nel corso dell'anno 2000 sono tuttavia usciti in Italia, tradotti, due libri nei quali la filosofia dialoga esclusivamente con le opere cinematografiche: Alla ricerca della felicità, la commedia hollywoodiana del rimatrimonio di Sanley Cavell (Einaudi) e Da Aristotele a Spielberg di Julio Cabrera (Bruno Mondadori). La coincidenza, va detto, è solo italiana e fra i due corrono differenze sensibili. Il primo è addirittura un libro vecchio di vent'anni, già tradotto da tempo in Francia, quasi a sottolineare che mentre gli italiani sono meno attenti di quanto erano in passato verso ciò che accade all'estero i francesi sembrano finalmente meno concentrati su se stessi (è d'obbligo ricordare tuttavia che "Cinema e Cinema" pubblicò bel 1982 un estratto di Alla ricerca della felicità). Eppure Cavell, docente ad Harvard, per quanto non tradotto, è un nome non da oggi noto agli specialisti, soprattutto a chi si interessa di quella zona di confine, meno netta di quanto non fosse prima, venuta a stabilirsi fra i filosofi "analitici" e i filosofi "continentali". Neanche a farlo apposta, sempre lo scorso anno è uscita una raccolta di studi finalizzata sul fuggevole Wittgenstein politico (Feltrinelli) che riporta un saggio, per l'appunto, di Cavell, che di Wittgestein è uno specialista (e di Wittgestein è la seguente frase: "un ingenuo e stupido film americano può insegnare qualcosa nonostante la sua scempiaggine e per mezzo di essa"). A curarlo è stato Davide Sparti, che proprio al libro sulla "commedia americana del rimatrimonio" aveva dedicato tempo fa, prima della traduzione di Emiliano Morreale per Einaudi, un ampio saggio pubblicato da "Studi di Estetica" (anno XXVII), una delle riviste fondate da Luciano Anceschi. L'interesse di Cavell nei confronti del cinema è comunque più antico del volume in questione. Già nel 1971 aveva pubblicato The world viewed, reflection on the ontology of film, che è entrato da tempo, come una sorta di fiore all'occhiello, nelle bibliografie cinematografiche, anche di genere (lo abbiamo visto menzionato, ad esempio, fra i libri che si occupano di cinema orrifico).

Come osserva Davide Sparti il "senso della ricerca di Cavell nei confronti dei film non è tanto quello di presentarli come forma d'arte o parte integrante dell'eredità intellettuale americana, ma piuttosto quello di una lotta contro i pregiudizi, nel tentativo di far accettare alla comunità dei filosofi i film quali portatori di contenuti filosofici". La "commedia hollywoodiana" di cui si occupa nel libro pubblicato da Einaudi è un sotto-genere -se si vuole, un quadro di situazioni- che nel titolo, con un neologismo, indica come quella del "rimatrimonio" (remarriage). In questo modo Cavell non vuole evocare la coppia che dopo una vecchia crisi di divorzio si risposa. Il "rimatrimonio" è quello che dopo una serie di equivoci, stizze e prese di posizione i due protagonisti accettano come se dopo aver affermato le proprie singole individualità scoprissero di essere fatti l'uno per l'altra . I film sono tutti classici degli anni trenta e quaranta e l'analisi di Cavell li seziona con una lunga sequenza di punti di domanda (com'è nella migliore tradizione analitica). Più di recente, nel 1996, Cavell si è dedicato, in Contesting tears (Chicago University Press), ad un'altra serie di vecchi film che hanno in comune, questa volta, la "donna misconosciuta" (Melodrama of the unknown woman è l'altra parte del titolo).

La lettura di questi libri è comunque tutt'altro che facile (anche se non sono "oscuri") per la pertinenza, più che la densità, dei problemi filosofici affrontati. Alla fine rimane però il sospetto, assai fondato, che invece che di cinema in senso stretto si sia parlato di "trame" o, per usare un termine specialistico, ci si sia fermati all'aspetto "diegetico". Ciò è tanto più vero in quanto, viceversa, un lavoro come quello del filosofo argentino Julio Cabrera, volto ad assicurarsi una posizione in quei tentativi di divulgazione "eccentrica" della filosofia entrati nel costume da un po' di anni, fa uno scoperto tentativo di mettere le mani avanti sotto il profilo del linguaggio cinematografico. Il primo capitolo di Da Aristotele a Spielberg è infatti dedicato alla configurazione di una metodologia che l'autore riassume inventandosi la parola concettimmagine. Ma che metta insieme l'Acquinate con Polanski, Locke con Tim Burton o il passaggio dal muto al sonoro con Wittgenstein ("ciò che può essere mostrato non può essere detto") l'argentino rimane lontano dai suoi stessi propositi. C'è da dire invece che il suo libro si legge volentieri e, qui e là, è perfino penetrante. Il dubbio, semmai, resta sulla fattibilità di una divulgazione così concepita.

 

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