Nel 1984, per il ventennale della morte di Pinot Gallizio, venne organizzato ad Alba un convegno (oltre che una mostra) al quale parteciparono Renato Barilli, Mirella Bandini, Constant, Marco Meneguzzo, Franco Torriani, Piero Simondo, Carlo Romano, Marisa Vescovo. Di seguito riportiamo la trascrizione della preziosa testimonianza di Simondo sul Laboratorio Sperimentale di Alba, la quale fu oggetto di un bell'opuscolo pubblicato a Genova dalla libreria Sileno editrice in collaborazione con Pink Moon, un negozio di dischi.

alle origini dell'internazionale situazionista:

Piero Simondo

cosa fu il laboratorio sperimentale di Alba

Non è probabilmente il caso di spiegare a un pubblico d'esperti che cosa significasse o che cosa significhi il nome "Bauhaus immaginista", anche se una spiegazione del genere non è mai stata data esplicitamente e soprattutto in positivo. Come è ben noto, d'altra parte, è molto più facile parlare di ciò che non è una certa cosa piuttosto che dire ciò che essa sia. Nel caso specifico poi, quella della Bauhaus immaginista era molto più una "opposizione" che una "posizione"; un negativo appunto.

Ricordo molto bene che ai tempi dell'ormai famoso (?) micro-congresso internazionale di Alba del '56, gli architetti milanesi, coinvolti più o meno consenzienti da Asger Jorn nelle vicende immaginiste, che erano inoltre o si ritenevano ovviamente molto meno "micro" di quanto non ci ritenessimo noi, tendevano a considerare tutta la storia del Bauhaus immaginista una storiella e il nome stesso del Movimento poco più di una boutade.

Non è detto che in fondo non potessero aver ragione, certo è che non avrebbero allora scommesso una lira, non dico su di me, non dico su Pinot Gallizio, che aveva appena iniziato il suo apprendistato d'artista e si autoproclamava "bidello" del Laboratorio, ma nemmeno su Asger Jorn, biondo vichingo d'assalto che veniva giudicato da un autorevole esponente della Triennale, una macchietta (a causa dell'intervento di Jorn contro Max Bill alla Triennale dell'54) una specie di nordico pulcinella, salvo salutare in lui, pochi anni dopo uno dei grandi maestri (in pulcinellerie?) dell'arte europea postbellica. Ovviamente non nego a nessuno il diritto, democratico e progressista, di cambiare opinione.

Vorrei tuttavia evitare l'aneddotico e lo storico, entrambe le specializzazioni non fanno direttamente parte della mia esperienza professionale: sono un pessimo raccontatore d'aneddoti e non sono storico d'alcunché; desidero soprattutto evitare di cadere nel tranello del farsi la storia da sé: come a dire pisciarsi sui piedi o meglio scavarsi la fossa con le proprie mani.

L'argomento che più potrebbe interessare, a mio avviso e di cui potrei parlare, è propriamente l'idea del laboratorio sperimentale; dico esplicitamente l'idea, non per partito preso idealistico, che anzi s'era allora - e si è ancora - anti-idealisti, ma perché quel Laboratorio sperimentale per una Bauhaus immaginista rimase molto più in idea che nel fatto ed ebbe inoltre, in quel suo relativo non essere, una vita brevissima.

Per poter parlare del Laboratorio sperimentale d'Alba, devo tuttavia premettere alcune ulteriori considerazioni, non escludendo neppure che tutto l'intervento si riduca ad essere la premessa d'un intervento futuro: il gioco dell'intervento e del post-intervento (post-modern), il gioco del Laboratorio, l'in-lusione: non esiste una teoria del Laboratorio d'Alba, non esiste forse una teoria del "laboratorio" tout-court.

Oggi va di gran moda parlare di Laboratorio, ovunque; si nominano i laboratori più strani; in generale qualsiasi aspetto della vita sociale può essere etichettato come laboratorio (il vezzo probabilmente va scemando con l'onda montante del riflusso politico), ma che confusione. A me pare che quest'usanza non sia da incoraggiare anche se il nome è suggestivo. Esso infatti contiene sia un richiamo esplicito al lavoro, che come noto è il padre di tutte le virtù, sia un carattere "onniricopritivo", "estensivo" in senso logico-retorico: si può ben immaginare ad esempio che la strage di Bologna (mi scuso per la crudezza dell'esempio) sia stata e sia forse ancora inscrivibile nella classe "laboratorio politico" ed anche "giudiziario".

Bene, voglio subito precisare che quello del Bauhaus sperimentale di Alba non fu e non nacque come laboratorio di quel tipo, e prescindo da riferimenti ad eventuali estensioni situazioniste posteriori; nacque come forma specifica al confine tra artigianato ed industria, come il suo nome di Bauhaus voleva significare.

Tutto ciò è stato detto per "esprimere" il semplice fatto che non è esistito, e non esiste, a mia conoscenza, un vero dibattito sul laboratorio sperimentale del M.I.B.I.; ma e soprattutto, nessun libro sui fondamenti teorico-pratici di quel laboratorio è mai stato dato alle stampe (ne si può considerare come studio preliminare, come tentativo teorico specifico il Rapport di Debord, che semmai è un testo antilaboratorio).

Non nego che vi siano stati tentativi e aneliti, approcci anche lodevoli ma tuttavia esterni alla problematica specifica: l'oggetto mi pare che permanga misterioso - non sarà forse proprio perciò che se ne parla ancora?

Ho già detto che oggi si tende a laboratorizzare tutto; anche questo Convegno, cui indegnamente partecipo, non sarà per caso, a mia insaputa un laboratorio convegnistico, un laboratorio critico?

La mia impressione modestissima è che, per motivi vari e concreti, serpeggi oggi fra gli uomini un complesso post-industriale, una paura di non lavorare a sufficienza che spinge a buttarsi in laboratorio non appena si può ed anche quando non si può. Non era cosi' allora, lo posso testimoniare di persona: l'iniziativa del Laboratorio di Alba era di "pigri" non di "attivisti". Jorn raccontava che, invitato da due amici ad aderire ad un Movimento antisportivo con tre membri, aveva rifiutato perché gli pareva già troppo sportivo raggiungere il luogo della progettata riunione fondatrice. Dal punto di vista "attivo" il Laboratorio era un anti-laboratorio. Dal punto di vista produttivo esso apparteneva piuttosto all' "onirico": ci sarebbe parso già troppo sportivo considerarlo il Laboratorio dell'anti-Laboratori9, ed anche eccessivamente letterario- non si voleva, suvvia, una metafora di laboratorio o un laboratorio metaforico, per quando duro sia districare metafora e realtà.

Gli storici o i cronistorici, bontà loro, riconoscono una data ufficiale di fondazione del Laboratorio d'Alba: quella contenuta nel documento spesso riprodotto firmato da Jorn e da me come promotori e da Gallizio in qualità di "direttore tecnico" - Non soltanto, esso contiene un gioco di parole jorniano, onde il nome Pinot è scritto come Pierrot, con un riferimento a Pierro (Piero), che è il mio nome, e pertanto con una dichiarata ambiguità di funzioni come la presunta direzione tecnica, l'appartenenza di Gallizio all'area chimico farmaceutica e l'allusione ai miei tronchi studi di chimica pura: il cotè scientifico del Laboratorio, di cui Jorn avrebbe rappresentato il coté artistico-movimentista-internazionale: Tutto ciò in "assenza", di tecnica, di scienza, di strumenti e di tecnologie, di movimento, anche, se non in idea. Ulteriore ambiguità: anche Piero era un artistino (studi con Casorati all'Accademia), artista non era: che trama, qual intreccio di intrecciati destini.

L'idea, un certo progetto in quella direzione esisteva già prima; l'idea di laboratorio esisteva almeno dal '52, devo confessarlo, soprattutto nella mia testa: un gioco? E' necessario intenderci in proposito: in tutta la faccenda d'Alba gioca propriamente il gioco. lì laboratorio d'Alba nasce (intendo' la fondazione) per gioco: è un'in-lusione. Nato per gioco mette in gioco le persone e le cose (le cose, la "roba", sono e furono punti dolenti) con una certa inconscia crudeltà che è propria di ogni ludo rispettabile. Questa messa in gioco, tendenzialmente totale va spesso oltre le stesse intenzioni originarie del gioco avviato: l'illusione come ben si sa ha un enorme potere.

Quel gioco del Laboratorio aveva pertanto una parte del suo fondamento, altrettanto in-lusorio, su di un certo numero di giochi di parole giocati più o meno consapevolmente, per quanto concerne la città d'Alba, con la "società colta", la consorteria culturale "regnante" allora nella perla delle Langhe. Con ciò non voglio sostenere che tutto si riducesse a un gioco di parole, o che il gioco giocato non avesse uno spessore al di la della sua stessa illusorietà: mi pare proprio al contrario che, per ragioni abbastanza trasparenti, di storia e di cultura innanzitutto, quel gioco avesse le sue buone basi "tragiche e drammatiche", tanto più in quanto poteva sembrare che avesse indossato, o non avesse mai smesso, la maschera grottesca al limite della buffoneria.

lì laboratorio di Alba non fu tuttavia un Laboratorio di maschere, un laboratorio teatrale o ancor peggio di animazione culturale, come se ne sono visti moltissimi in seguito; eravamo fieramente contrari alla drammatizzazione mimetica, malgrado una certa innegabile teatralità (una certa guitteria provinciale?):

esso contraddittoriamente fu o rimase quello che non avrebbe dovuto essere: un'idea, appunto, un simbolo. Ma se lo fu, in che senso e di che?

Sono costretto, per quanto possa sembrare scorretto, a lasciare senza risposta la domanda girandola ad eventuali curiosi e studiosi. Dicendo simbolo voglio semplicemente alludere al fatto che esso rimase soprattutto come "medaglia", "etichetta", "marchio di fabbrica" per una o più merci aventi o in cerca di mercato.

C'è ancora una premessa in questo intervento di premesse, che voglio porre: non per autocitarmi, ma nel videotape, realizzato dalla Rai Tv su Gallizio, che viene credo proiettato alla mostra di Pinot (una bella mostra nel complesso) durante l'intervista che mi è stata fatta nei locali dei "laboratori" (ma lo saranno poi?) dove lavoro all'Università e che mi hanno visto, ancora una volta in veste di cofondatore, ho detto che sono stato coinvolto in questa storia del Bauhaus d'Alba "per caso". L'espressione corrisponderebbe all'interpretazione di storici e cronistorici secondo cui la mia presenza-partecipazione ad Alba avrebbe un carattere di marginalità e di occasionalità rispetto a quella dei cosiddetti "protagonisti", lasciamo tuttavia queste questioni ad personam. Devo precisare che l'espressione citata, il richiamo alla casualità ha a che fare con il Laboratorio nel senso che quel laboratorio, cosi com'è fu ma soprattutto non fu, avrebbe potuto essere o nascere benissimo da un'altra parte, senz'alcuna "predestinazione" albese. Se fu ad Alba, ciò avvenne proprio perché per caso - I che significa ovviamente per una catena concausale - ci fu un incontro, mediato da altri, tra persone che erano "dissidenti" quasi costituzionali e professionali con un "dissidente" locale di una cittadina, Alba appunto, che era del tutto fuori dal giro delle cose dell'arte plastico-figurativa, ad esempio. Infatti Asger Jorn, che viveva allora in Italia, ad Albissola (tornata centro d'arte ceramica per certe più o meno casuali circostanze) non riuscì a realizzare il suo gioco del Movimento per un Bauhaus immaginista (non il gioco del Laboratorio) colà, né ed ancor meno a Milano dove era stato in precedenza allo scopo, per la semplice ragione che in entrambi i luoghi "si giocavano altri giochi artistici più ricchi e/o più snob" - ad Alba no, o non quelli almeno. lì mio piccolo gioco di laboratorio era oggettivamente troppo piccolo, tuttavia per averci di fatto vissuto dal '52 al '57 (un lustro, una guerra, un tempo-lager, una vita) potrei dire dei giochi albesi caratteristici, che non erano in genere del tipo "artistico".

lì luogo avrebbe dunque ben potuto essere quello di un'altra "provincia". Né voglio né sono in grado di affrontare il tema dei destini della "provincialità". Posso affermare però che l'idea del Laboratorio sperimentale non erà di origine provinciale nè in alcun modo provinciale, né cosi, filosoficamente sprovveduta come qualcuno ha, penso superficialmente, detto. Lo era anzi tanto poco che, ancor oggi è rimasta, mi pare e forse fortunatamente, estranea alla nobile città d'Alba, al di la dei riti celebrativi del cittadino meritorio. Dirò di più, Alba, come città intendo, ha probabilmente ben fatto addirittura a rifiutare quel museo d'arte contemporanea che, al termine del Congresso degli artisti liberi, noi, gruppetto d'artisti "ignoti", le si voleva imporre e regalare.

Sono convinto che l'idea di Laboratorio sperimentale fosse buona, ne sono convinto anche ora e per lo meno nell'accezione che mi è e mi era più congeniale l'ho perseguita e la perseguo ancora, anche se in modi diversi (dal Movimento CIRA all'Università), pagando di persona e senza sponsorizzazioni. Quell'idea era in effetti molto più di una semplice idea: era un intrico contraddittorio nel suo genere esplosivo.

Tenterò molto sommariamente di ricostruire quel groviglio dal punto di vista, sia pur limitato, dei "concetti" impliciti. Gli appartenevano:

1 - Un concetto storico come progetto di una continuità da recuperare dialetticamente fra passato, presente e futuro ed insieme fra "popolare" e "colto", nel nome di cambiamento artistico-sociale. Si trattava anche di colmare le fratture, i crateri scavati materialmente e spiritualmente in Europa dalla guerra e dai nazi-fascismi. Questo concetto era portato soprattutto e non a caso da Jorn: il nome di Bauhaus immaginista gli appartiene. Per Jorn il Laboratorio era essenzialmente la tribuna del suo progetto, lo strumento, il coagulo del suo Movimento e di altri apparentemente convergenti. Non a caso egli riteneva che il "prodotto" del Laboratorio di Alba fosse innanzitutto una rivista: "Eristica" (il cui nome invece è mio) e successivamente un Congresso, che ci fu, ma forse non proprio quella tribuna e quella cassa di risonanza artistico-politica che egli s'attendeva.

Jorn era dominato da due preoccupazioni: la cultura popolare, come radice profonda dell'artista autentico; la collocazione, il ruolo dell'artista nella società industriale sviluppata. Nel suo concetto arte ed industria si coniugavano contraddittoriamente con le avanguardie ormai storiche ed in particolare con il surrealismo, in quanto movimento di punta, sia pur datato, di una necessaria critica politico-artistica. Fu questo latente surrealismo ideologico di Jorn che apri il passaggio e l'ingresso dei lettristi-situazionisti, con la conseguente dissoluzione del Bauhaus immaginista, ovviamente in nome di un superamento.

2 - Un concetto che possiamo dire "metodologico" aperto, che era in fondo mio, di costruzione non solo o non tanto delle esperienze ma anche se non soprattutto di strutture di ricerca nel campo delle arti visive largamente intese. Concetto metodologico tutto da giocare: la metodologia come in-lusione (Eristica non era nome scelto a caso). Su questa idea ci incontravamo io e Jorn sia pure con equivoci che non vennero mai di fatto chiariti.

Voglio soltanto aggiungere in proposito che il concetto metodologico implicava un'idea di produzione. Sono convinto ora come allora che un "laboratorio sperimentale" debba essere un luogo produttivo in cui si affronta tutta la dialettica della produzione e la critica e le crisi; come ciò sia possibile è ancora forse tutto da sperimentare. In secondo luogo tale laboratorio non può prescindere dalle mediazioni tecnologicamente avanzate, con tutte le altre diaboliche contraddizioni che ciò comporta, le in-lusioni e le in-voluzioni: una sfida.

lì laboratorio d'Alba non fu in nessun modo la realizzazione del concetto metodologico di cui sopra.

In quel caso non fu un luogo di produzione sperimentale. Ciò non significa che non vi sia stato prodotto nulla, venne tuttavia a mancare esattamente quella mediatezza tecnico-tecnologica che ne era costitutiva ed in assenza della quale nulla si poteva sperimentalmente fare e produrre: salvo le idee, appunto.

3 - Un concetto che si può dire "pedagogico" o se si preferisce "anti-pedagogico". Tale concetto mediava in un certo senso l'impostazione più artistico-politica con l'impostazione più struttural-metodologica. Esso si tradusse, nel modo in cui avvenne, nella fondazione effettiva ad Alba del Laboratorio sperimentale.

Tale concetto ci riporta da un lato all'antica ed irrisolta questione se l'arte si possa mai insegnare (ci riporta in questo senso a Gallizio bidello-apprendista stregone); d'altro canto si connette al valore o alla valorizzazione sociale dell'individuo che si mette in gioco attraverso l'arte (storicamente data), producendola, consumandola, conservandola, e simili. Questo concetto profondamente ed implicitamente pedagogico attraversa inconsciamente tutte le avanguardie artistiche occidentali ed è pertanto sfuggente, pericoloso e tanto più affascinante. Tale concetto s'è incarnato contraddittoriamente ed esplosivamente nel Bauhaus storico ed ha rappresentato l'ingioco, a livello più modesto, e tuttavia drammatico del laboratorio di Alba. Su di esso il laboratorio, o meglio ciò che esso non fu e fu venne di fatto ad infrangersi e ad esplodere, per una dfferenza pedagogica. Il concetto pedagogico si collega al quarto ed ultimo cui voglio accennare, che può esser visto come una delle forme del più antico e socio-pedagogico problema dell'unità delle arti come utopia estetico-liberatoria.

4 - Questo concetto, di matrice surrealista, (quella matrice presente in Jorn per intenderci) è stato sviluppato prima dai lettristi ma soprattutto dalla frazione internazionalista che si tramuterà nel situazionismo. Il concetto consisteva essenzialmente nell'idea di un superamento delle arti (come momento illusoriamente liberatorio) ed insieme di un superamento delle prassi politiche, altrettanto se non ancor più mistificatrici, nel nome di una creatività rivoluzionaria insieme quotidiana e continua. Questo concetto aveva ovviamente delle consonanze, mai ben chiarite, con gli altri, ma conteneva anche una valenza potenzialmente distruttiva in assenza di adeguate mediazioni. Dal lato del superamento dell'arte quel concetto può esser visto come l'idea di una costruzione quotidiana ed effimera della vita (l'arte della quotidianità come anti-arte) nel senso di un'arte senza artisti, senza mediazione cioè tra il "potere e i potuti". Devo aggiungere che tale componente intervenne dopo il Congresso di Alba e influenzò decisivamente gli sviluppi successivi nel bene e nel male: il regno dei loisirs e delle passioni come rivoluzione continua, secondo Debord.

Ho detto che durante il tempo del Laboratorio sperimentale d'Alba, malgrado tutto, qualcosa si produsse: un numero di Eristica, un Congresso e dei quadri dipinti soprattutto: ciò mi pare tipico dei Movimenti d'arte (comunque poi sviluppati o degenerati) di avere cioè una "intenzionalità" produttiva di gran lunga superiore ai "prodotti" effettivamente realizzati. Un laboratorio sperimentale avrebbe dovuto-potuto produrre "novità", ciò in genere non avviene e non avvenne: i prodotti rimasero individuali e collocati nei generi che il mercato dell'arte in varia misura accettava ed accetta da tempo. Restava e resta forse la relativa novità delle idee, ma in idea tuttavia.

Vorrei chiudere con due battute - me ne scuso in anticipo.

1 - Ho cercato di fornire in questo intervento, proprio nella forma della conferenza un tipico esempio di laboratorio immaginista o meglio immaginario: ho menato il can per l'aia.

2 - L'unico prodotto esportabile del Laboratorio di Alba fu il pittore Gallizio, io stesso ho didatticamente partecipato a quella produzione, e sono del tutto incapace di dire se me ne rallegro oppure no!

Torino, marzo 1986