Massimo Bacigalupo

Shakespeare: ma che razza di lingua è?

Nelle librerie è comparsa sotto le feste una scatolona contenente su cd-rom Tutto il teatro di Shakespeare, nonché un’ "enciclopedia multimediale" per avere a portata di clic tutto ciò che si vuole sapere sul drammaturgo, i suoi tempi, i personaggi, le edizioni, la critica… persino "un’ora di musiche originali" (Garzanti, L. 79.000). Si tratta essenzialmente di una riedizione in formato elettronico dei 38 volumi dei drammi pubblicati da Garzanti negli anni ’80-’90, a cura di Nemi D’Agostino e Sergio Perosa, con nuove traduzioni e commenti di una schiera di studiosi italiani, che hanno così collettivamente esemplificato come Shakespeare si legge, interpreta e traduce alla fine del ’900. Con perizia filologica, sensibilità storica e qualche fervore politico e poetico (molti dei curatori si sono formati negli anni ’60). Anche sensibilità agli aspetti teatrali, per quanto la maggior parte di queste traduzioni non abbiano conosciuto la prova del palcoscenico, sia per la tradizionale separazione fra accademia e spettacolo, sia perché di rado i teatranti italiani esplorano Shakespeare al di là della decina di titoli sicuri. Il risultato è comunque un monumento anche editoriale, da cui si potrà imparare molto su Shakespeare, ma anche (e sempre più col passare degli anni) su di noi, su cosa ci passava in capo mentre lo leggevamo.

In contemporanea a questo poderoso omaggio italiano è uscito in Inghilterra e in Italia un ampio studio di uno dei critici inglesi più accreditati, Frank Kermode, Il linguaggio di Shakespeare (trad. Giovanni Luciani, Bompiani, pp. 412, L. 38.000). Kermode vi offre la sua lettura di tutto il teatro, sostenendo che le recenti storicizzazioni hanno perso di vista lo specifico linguistico, il farsi del discorso e del pensiero nel discorso, e ci ricorda che interi drammi possono leggersi come variazioni su una parola: onestà in Otello, opinione in Troilo e Cressida, azione in Amleto, tempo in Macbeth. Nella prima parte sorvola tutta la prima produzione fino al 1599, poi dedica una serie di capitoli abbastanza ampi a ognuna delle opere a cominciare dal Giulio Cesare. L’argomentazione è sempre serrata e non troppo specialistica, anche se occorre inevitabilmente essere famialiari coi drammi per seguire il commento. Kermode è affascinato dall’oscurità di certi brani, e si chiede se sia dovuta a imperizia (come nelle opere giovanili?) o se sia una voluta ricerca del non-finito. Ma visto che a teatro il linguaggio è azione la seconda ipotesi è la più probante, l’autore intende "presentare il personaggio in tutta la sua inaccessibilità, in un linguaggio almeno tanto opaco quanto necessario". Del resto le parole – "Essere o non essere", "It is the cause, it is the cause" (Otello) -- spesso sono chiarissime, ma suscitano un’impressione di vastità, vaghezza, terribilità. Sono pensiero nell’atto di farsi, non pappa pronta. Qui sta il bello e la sfida di Shakespeare.

Kermode è anche salutarmente immune da idolatria (o bardolatria, come si dice), e spesso dichiara che un brano non gli dice niente, anche fra i più celebri. (Dopo tutto ogni critico cerca di dire qualcosa di diverso dall’opinione comune.) Sostiene che indubbiamente le prime opere sono frutto di collaborazione e contengono brani non shakespeariani. Questa era una tesi ottocentesca, poi tramontata e ora, sembra, tornata a galla. Ma se è vero che, mettiamo, Tito Andronico è di più autori, allora perché nessuno è mai d’accordo su quali brani siano di Shakespeare e quali dei presunti collaboratori? Sicché temo non ci sia speranza di giungere a una conclusione in argomento, e sia meglio presupporre che Shakespeare abbia scritto Shakespeare. Nell’Amleto Kermode individua una struttura basata sull’endiadi, cioè due parole di senso simile e non eguale, insomma la duplicazione, lo specchio, il raddoppiamento (il solililoquio "Oh che vigliacco malfattore sono" in cui Amleto si paragona sfavorevolmente a un attore è definito "una piccola giungla di specchi"). A volte, dice Kermode, il modello si riproduce a eccesso, sicché il lamento di Ofelia sull’ottenebramento di Amleto ("O che nobile mente è qui travolta!") sarebbe pieno di "raddoppiamenti noiosi": "L’aspettativa e fiore del bello stato, / lo specchio della moda e lo stampo della forma, / l’osservato di tutti gli osservatori, tutto, tutto giù!". Sono davvero noiose queste endiadi che restano nella memoria? E Kermode vuol dire che Ofelia è una donna querula e noiosa, o che Shakespeare sonnecchiava? Già Eliot in una pagina famosa diceva che Amleto era un dramma fallito, ma almeno aveva la scusante di essere un dadaista travestito da professore.

Eliot era anche un grande poeta, e così era John Keats, che in un sonetto memorabile ci dice come leggere Re Lear : "Nell’aspra lotta tra la desolazione / e la creta fremente di nuovo mi devo / consumare, ancora devo umile saggiare / questo frutto di Shakespeare dolceagro". Sono versi che consiglio di leggere nel bel volumetto John Keats, Sonetti, a cura di Roberto Cresti (Garzanti, pp. 152, L. 16.000), purtroppo deturpato da molti errori nell’inglese, ma che ha il merito di farci leggere insieme alcuni dei testi più struggenti del piccolo Keats, e così magari prepararci a intendere "the bitter-sweet of this Shakespearian fruit". Keats trasforma tutto in senso, che è il segreto del linguaggio poetico: lasciarsi palpare, degustare.

Tradurre questa corporeità è difficile, sicché capire Shakespeare in una lingua diversa dalla sua resta un miraggio. D’altra parte un amico inglese m’ha detto di invidiare i tedeschi e gli italiani che possono sentirlo in lingua moderna, mentre lui… non ci capisce niente. Il traduttore però si può provare a comunicare la compattezza ritmica e verbale con i mezzi della sua lingua. E’ quello che ha fatto Roberto Piumini in una magnifica traduzione dei Sonetti (Bompiani, pp. 319, L. 16.000), che riesce a rispettare le rime dell’originale senza forzatura e arcaismi, reinventandolo e ricreandolo: "Se né bronzo né pietra, terra o mare, / resistono al potere della morte, / come bellezza lo può contrastare, / che di un fragile fiore è meno forte?" (65). E’ una specie di diagramma o radiografia del melodioso originale, una riscrittura nella lingua arguta di un poeta abilissimo. Non è tutto Shakespeare, ma una sua convincente metamorfosi. L’alternativa è una traduzione parola per parola, e sfido chiunque a leggere per piacere una qualsiasi della parafrasi dei sonetti in commercio. Giacché in un sonetto il senso conta solo fino a un certo punto, decisiva invece è la compattezza, l’impressione di difficoltà superata. Piumini è riuscito nell’impossibile, il che è molto shakespeariano.

Un poeta che è anche studioso ferrato, Gilberto Sacerdoti, ha compiuto un’operazione simile con i trascurati Poemetti che Shakespeare dedicò cortigianamente a un suo patrono, e che rientrano nella letteratura scabrosetta: Venere e Adone (1593) e Lo stupro di Lucrezia (1594), due chicche alla Henry James, all’apparenza noiosissimi rifacimenti di Ovidio e Livio in cui Venere cerca grossolanamente di sedurre il casto giovanetto (sarà un vecchio pedofilo?), e Tarquinio piega Lucrezia alla lussuria dopo averle piantato per cominciare le manacce sul "mondo" del seno. Sembrano quadri di Tiziano, quei quadri troppo grandi e troppo bui. Ma Sacerdoti ha messo in luce gli aspetti paradossali e fin comici di questi esercizi di bravura, e li ha tradotti in endecasillabi robusti (ma senza rima): "Amore scalda, è sole dopo pioggia, / lussuria è la tempesta dopo il sole; / amore è primavera sempre fresca, / lussuria è inverno giunto a mezza estate…". Le ambiguità traditrici della lussuria tornano nel famoso sonetto 129: "Anima in spreco e scempio vergognoso / è la lussuria in atto…" (Piumini). E’ quello che Keats chiamava il "dolceagro" di Shakespeare (e della vita). Nel volume dei Poemetti Sacerdoti ha anche incluso una breve ermetica poesia, La fenice e la tortora, che narra di un amore casto e perfetto di due morti amanti (la tortora è maschile). Su questa Kermode si sofferma ampiamente vedendovi l’atto di nascita dell’ultimo shakespeare metafisico. Su Shakespeare del resto tutti dicono di tutto. Lui, per fortuna, ha detto la sua.

"Alias-Il manifesto", 27 gennaio 2001

<