Salvatore Rotta, dell'Università di Genova, è uno dei massimi esperti mondiali di Montesquieu. Attualmente è fra i curatori dell'opera completa dello scrittore di Bordeaux-La Brède che si va stampando tramite la Voltaire Foundation di Oxford col contributo dell'Istituto di Studi Filosofici di Napoli. Studioso di rara pignoleria di tutti gli argomenti che concernono la storia dell'età moderna e dell'Illuminismo (come testimonia d'altronde il testo che proponiamo ) si occupa in verità di ogni qualsiasi cosa lo possa stuzzicare, trovandosi in definitiva più a suo agio nei panni del letterato e dell'erudito che in quelli del "professore". E' stato fra l'altro uno dei primi a riportare l'attenzione sulla scapigliatura genovese e, in particolare, su Remigio Zena. Osservatore attento e, in molti casi, militante partecipe -in aree libertarie- delle vicende sociali e politiche, come responsabile del "circolo Gobetti"genovese caldeggiò ed ottenne, ad esempio, la pubblicazione di un saggio di Andrea Caffi con la prefazione dell'immancabile Chiaromonte. Di grande fecondità restano comunque, come è confermato fra l'altro dal Venturi, le sue ricerche pionieristiche intorno all'illuminismo ligure e ai suoi protagonisti, soprattutto Celesia e Lomellini, nonché quelle relative al giansenismo regionale e (ben prima del Roscioni) a straordinari irregolari come il Marana. Per l' amicizia che ci lega, Salvatore Rotta ha assicurato la sua collaborazione alle nostre pagine.

Salvatore Rotta

discorso per il bicentenario della Società Economica di Chiavari (1791-1991)

Signor Presidente della Repubblica, Signore e Signori, Soci ornatissimi, nessuno dubita più, da trent'anni a questa parte, della penetrazione profonda delle idee illuministiche nella Genova settecentesca. Agostino Lomellini e Pier Paolo Celesia occupano ormai, tra gli amici del nuovo pensiero filosofico-politico, un posto di spicco. Non c'é uomo in vista del mondo dei lumi, di qua o di là dall'Atlantico, che non abbia avuto il Celesia tra i suoi familiari. La rete delle relazioni intellettuali di questo coltissimo e amabilissimo cosmopolita é sterminata. Pochi nel suo secolo, pure fervidissimo di contatti tra gli uomini di pensiero, gli si possono mettere accanto. Tra i suoi più geniali interlocutori in patria: Stefano Rivarola, il "primo motore" e costante impulsore finché visse della Società Economica. A lui il Celesia, ammiratore da sempre del sistema "rappresentativo", aveva confidato, nel 1797, alla caduta del regime oligarchico, i suoi più gelosi sentimenti politici: l'adozione dì quel sistema era il solo modo per porre fine alla "guerra civile tacita" che da un secolo in qua aveva opposto i popoli delle Riviere alla Dominante. Quanto al Rivarola, anch'egli un cosmopolita affezionatissimo al suo paese, aveva cercato egli pure in passato di uscire dall'angustia della vita in patria con un ufficio diplomatico stabile presso qualche prestigiosa corte straniera: Londra, Vienna. Deluso dagli oligarchi, aveva per un momento accarezzato il pensiero di ritornarsene a Pietroburgo, mettendosi al servizio della grande imperatrice Caterina, che gli aveva mostrato replicatamente i suoi segni di stima negli anni trascorsi presso di lei - dal 1783 al 1785 - come ministro plenipotenziario della Repubblica. Non sarebbe stato il primo caso - bisogna aggiungere - di migrazione per impazienza dell'ambiente genovese. Si pensi soltanto a Gio.Luca Pallavicini, uno dei primi a sentire i bisogni dei tempi nuovi, il quale, fattosi servitore dell'Austria, esplicò altrove, a Milano, la sua energia riformatrice.

La fama di Agostino Lomellini corse larga per l'Europa, da quando soprattutto il D'Alembert gli aveva dedicato con parole caldissime ("j'ècris à un philosophe") la sua Précession des équinoxes (1749). Qualche anno dopo, nel 1753, lo aveva collocato, nell'Essai sur la société des gens de lettres, accanto al marchese d'Argenson, tra quei pochissimi grands seigneurs che sapevano spogliarsi del proprio rango e discutere con gli hommes de lettres da pari a pari. Espertissimo del calcolo sublime (Condorcet e Lagrange inviarono a questo "géomètre profond" i primi frutti delle loro ricerche e rimasero ansiosi del suo giudizio), poeta intenso, dilettante di musica e molto più avanti del suo secolo in fatto di teoria musicale, aveva - del resto -buoni titoli per essere annoverato lui stesso tra gli uomini di scienza. E infatti le accademie scientifiche europee non tardarono ad aggregarselo. La sua elegante versione italiana del Discours prélirninaire - il grande manifesto dell'illuminismo enciclopedico - uscita a Lucca nel 1753 é all'origine della prima delle due edizioni toscane - quella lucchese - dell'Encyclopédie.

Nel 1760 il Lomellini fu elevato al dogato. L'opinione illuminata d'Europa esultò: la filosofia era finalmente salita sul trono della vecchia Repubblica. Ereditava una situazione disastrosa. Da tre anni, per un puntiglio del re di Spagna, Ferdinando VI, il commercio ibero-americano (la maggior voce - i due terzi -del commercio estero della Repubblica) era stato interrotto; da trent'anni la Repubblica andava consumando le sue risorse per domare con le armi la ribellione dei Còrsi, fattasi negli ultimi cinque anni più minacciosa, da quando cioè essa aveva trovato in Pasquale Paoli un capo politico e un organizzatore militare. Oltre tutto l'opinione europea, o piuttosto coloro che tale opinione contribuivano a formare, simpatizzava apertamente con i ribelli, soprattutto con il loro capo, che gli ammiratori a gara andavano paragonando a questo o a quello eroe tra i più famosi del mondo antico o del mondo moderno. Al Gibbon ricordava, per esempio, il Cromwell.

Bisognava, per prima cosa, riaprire il commercio con la Spagna. Fortuna per il Lomellini che il nuovo re, Carlo III, gli si fosse affezionato dal tempo che era ancora re di Napoli. Il divieto fu lasciato cadere. Le manifatture, che dal decreto sospensivo erano state quasi annientate, respirarono: il pericolo di lasciare inoperose circa trentamila persone fu scongiurato.

Bisognava porre fine al più presto alla guerra di Corsica. Va a merito del Lomellini l'aver cercato una soluzione politica del conflitto che fosse onorevole per entrambe le parti. Visto che le milizie della Repubblica non riuscivano a trionfare della resistenza di quella fiera nazione, non c'era altra via per pacificarla che l'integrazione: "faire entrer les Corses dans le gouvernement à fin de n'en former qu'un seul et mème peuple avec les Génois". Nel maggio del 1761 parti da Genova una "grande deputazione" composta da sei senatori muniti dì ampi poteri per cercare un accordo con i ribelli. Ma la buona volontà genovese si urtò contro l'irrigidimento del Paoli che dichiarò ai principi d'Europa: "Le massime presenti della Repubblica niente dissimili sono da quelle che per l'avanti hanno animato il di lei governo, reso tanto odioso ai Còrsi". Ormai per lui l'obiettivo della lotta - la prima guerra coloniale dei tempi moderni - era l'indipendenza. Dopo due mesi di conferenze con i capi dei malcontenti la commissione rientrò nel luglio a mani vuote. Ma era pur sempre riuscita a indebolire la posizione del Paoli, a disunire gl'insorti: un piccolo successo che darà più tardi i suoi frutti. Sarà per6 la Francia, non Genova a raccoglierli. Vanificato il tentativo di liberale conciliazione, il Lomellini nel 1768 giudicherà "elegante" la decisione, adottata dal governo anche con il suo consiglio, di disfarsi di quei sudditi irriducibili.

Purtroppo i padri della costituzione, per amore dell'uguaglianza repubblicana e per sbarrare per sempre la strada a ogni potere personale, avevano limitato a un solo biennio la durata della carica dogale: troppo breve tempo per dare esecuzione ai suoi vasti piani di governo e vincere l'inerzia dell'ambiente. L'appello da lui lanciato nell'estate del 1761 al mondo imprenditoriale a impiantare nuove arti e a migliorare quelle esistenti rimase senza risposta. Né ebbero l'effetto sperato i provvedimenti di liberalizzazione del commercio adottati dal suo governo.

Eppure, i tempi erano propizi. La fine della guerra dei sette anni aveva eccitato dappertutto le iniziative di rinnovamento. Già prima che la guerra finisse, a Berna si era formata nel 1760 per volontà e sotto la guida deI grande Haller, la Oekonomische Geselischafi, destinata a diventare il modello e il centro di stimolo e di raccordo delle Società economiche di tutta Europa. L'Accademia dei Georgofili, nata a Firenze nel 1753, era stata all'avanguardia. Ma il suo vero decollo si colloca intorno al 1768, quando per impulso del granduca Leopoldo inizia le sue grandi inchieste. Per volontà di Henri-Léonard Bertin, un ministro "agronomo", la Francia si va coprendo tra il 1761 e il 1780 di una rete fittissima di Sociétés d'agriculture. In Spagna, per fomentare l'industria popolare, Pedro Rodriguez Campomanes moltiplica tra il 1775 e il 1786, sull'esempio della società economica basca nata nel 1763, le Societades de amigos del paìs. Il movimento travalica l'oceano e tocca anche i domini americani della corona di Spagna: società dello stesso tipo nascono a La Habana, a Santiago de Cuba, a Lima, a Quito, a Bogotà, a Caracas. In Italia, sull'esempio di Berna, accademie agrarie nascono a Udine, a Verona, a Conigliano; e via via un po' dappertutto, nel nord e nel sud della penisola.

La situazione di Genova è particolarissima. Il movimento illuministico vi aveva assunto precocemente forti valenze pòlitiche. Non si trova negli anni cinquanta un altro testo italiano (Antonio Rotondò lo ha ben dimostrato) da mettere accanto alle Notti alfee: un piano di totale rifacimento della costituzione politica ed economica della Repubblica elaborato all'indomani della crisi del 1746, per sollecitazione di un gruppo di patrizi volonterosi, dal filosofo pisano Giovanni Gualberto de Soria. Un decennio circa più tardi, stretti dalle difficoltà create dalla guerra di Corsica, gli stessi circoli di governo pare che formassero il proposito di metter mano a riforme dell'assetto oligarchico dello Stato. Superate però bene o male quelle difficoltà, ne avevano presto omesso l'idea. Ma intanto era andata formandosi, qui come altrove, per effetto del generale rimescolio d'idee, un'opinione pubblica, che nel 1777 riuscirà a darsi una tribuna per esprimersi e farsi valere: gli Avvisi di Genova. Pur dentro i limiti consentiti dall'autorità, sugli Avvisi si discute di tutto e si affrontano temi scottanti: i salari operai, l'educazione pubblica, la riforma del processo penale, il regime carcerario, l'eliminazione della mendicità, il censimento delle risorse, il rilancio del commercio, della navigazione, delle manifatture. Non c'è che da riaprire quei fogli per rendersi conto della maturità politica dei loro lettori. Gli occhi di tutti sono puntati verso l'Europa: a quei paesi d'Europa - s'intende - dove le idee nuove cominciavano a tradursi in programmi di governo, ma soprattutto verso l'Inghilterra, il paese della libertà d'espressione e delle istituzioni rappresentative, della florida agricoltura, delle industrie in piena espansione e dei commerci estesi e resi sicuri da una potente marina da guerra.

Gli Avvisi avevano preparato il campo. La Società patria per le arti e le manifatture, nata nel 1786, offrì finalmente ai più intraprendenti uno strumento d'azione. Associazione volontaria di patrizi e borghesi d'ambo i sessi essa fu dal Governo oligarchico appena tollerata. In effetti, un corpo sociale che ravvicinava e mescolava gli ordini e che perseguiva il programma di dibattere in comune temi di natura sociale ed economica non faceva presagire niente di buono. Ambrogio Doria manifestò in Consiglio il timore che fosse o potesse diventare un club all'inglese o una société de pensée alla francese; che facesse rinascere, in altre parole, lo spirito di fazione. La discussione nei Consigli se autorizzasse o no la Società si concluse con un nil actum: vale a dire che, essendo i pareri perfettamente divisi, non si seppe decidere. La Società fu dunque lasciata vivere.

I timori del Doria erano infondati. Se tra gli uomini più in vista della Società -G.B. Grimaldi, Niccolò Cattaneo Pinelli - c'erano dei franchi oppositori all'attuale indirizzo di governo, i suoi intenti non erano per niente eversivi. All'opposto, essa fu il tentativo estremo compiuto dalla frazione più illuminata e più dinamica del patriziato di conservare la sua funzione di guida: di qualificarsi cioè come il gruppo sociale meglio idoneo, per la sua antica esperienza di governo e di affari, a interpretare i bisogni dell'intera società e a conservare allo Stato, insieme all'indipendenza politica, l'indipendenza economica. L'invito rivolto ai grandi finanzieri genovesi, fattisi creditori ormai di tutte le corti d'Europa, a destinare una parte almeno dei loro capitali in investimenti produttivi nel paese, ha un trasparente significato. Spingere quei manieurs d'argent a farsi imprenditori delle industrie nazionali era un modo per affezionarli ai destini della loro piccola patria, per obbligarli a sentirsene di nuovo responsabili. Il patriziato avrebbe potuto conservare a Genova la sua funzione di governo soltanto se quegli internazionalisti si fossero mutati in patrioti, e invece di sfuggire come facevano le cariche onerose avessero di nuovo sentito il dovere di partecipare alla cosa pubblica. Scopo della Società sarà appunto quello di rinvenire sia per il capitale finanziario sia per il capitale commerciale le forme migliori d'investimento in patria.

Le manifatture, beninteso: ma quali e in qual modo organizzate? Era evidente che, per vincere la concorrenza con le nazioni che si andavano rapidamente industrializzando, l'intero settore manifatturiero andava riorganizzato e modernizzato. Per esempio: bisognava ampliare, per mettersi al passo con l'Europa, il settore dell'industria cotoniera. E poi l'agricoltura. Metà almeno del territorio ligure era incolto; l'altra metà malissimo valorizzata. La terra ligure era ingrata? Vecchio pregiudizio. Ormai una scienza nuova - l'agronomia - era nata, che riunendo in un fascio varie altre nuove scienze (la chimica, la geologia, la botanica sistematica, la zootecnia, la medicina rurale, etc.) aveva promosso l'agricoltura da pratica empirica a razionale disciplina. Alla scuola di questa scienza la fisionomia del paesaggio rurale ligure poteva essere radicalmente trasformata. Ausiliari preziosi nella diffusione della "nouvelle agricolture" tra i contadini rozzi, diffidenti e tradizionalisti: i parroci rurali. In Spagna, in Francia, in Italia si assiste a una grande mobilitazione, da parte delle Società agrarie, del clero di campagna, fatto in tal modo strumento del progresso sociale. E bisogna dire che molti di questi pastori d'anime accolsero di buon grado l'invito e si dedicarono con entusiasmo a questo compito nuovo. La congregazione dei parroci rurali di Chiavari, per fare un esempio a noi vicino, spinse tanto oltre il suo zelo da promettere spontaneamente nel 1795 di rivolgere ai parrocchiani alla fine delle funzioni, un sermoncino sull'agricoltura e le arti. Tanto ardore diede i suoi frutti: il chiavarese divenne il polo di diffusione della patata, la scoperta essenziale degli agronomi settecenteschi. Questo tubero prodigioso, che si poteva raccogliere due volte l'anno, provocò alla fine del '700 un"'esplosione di gusto", una vera e propria infatuazione, soprattutto tra i parroci. Lo mangiarono in tutti i modi: crudo in insalata, bollito, fritto, cotto sotto la cenere, fatto a tagliatelle, mescolato col mais, panizzato; e lo trovarono sempre squisito. I gastronomi francesi erano stati più cauti; e per qualche tempo avevano preferito alla patata - "le plus mauvais de tous les légumes" - il topinambour, di gusto più gradevole. Dopo la grande carestia del 1817 venne anche a Chiavari l'ora del topinambour. Fu lo stesso Rivarola - il fondatore e il rifondatore della Società Economica - a diffondere una memoria sul modo di coltivarlo. La patata rimase comunque un cibo da poveri. La cucina genovese se ne servi parsimoniosamente, per ispessire gli stufati o come additivo alla farina da frumento.

La sperimentazione settecentesca non si limitò, beninteso, alla patata. Si tentò d'introdurre in Liguria la radice d'abbondanza (che in Francia chiamavano di disette) - una barbabietola - l'orzo di Siberia, il grano saraceno, il cinquantino, il trifoglio, l'erba medica, il tanto celebrato sainfoin (la lupinella), il pastel o guado, il tè infine, pianta non cosi esotica come si credeva - assicurava il Rivarola nel 1807 - visto che le foglie degli specimini messi a dimora in Rapallo e in Carasco avevano un gusto non troppo "dissomigliante da quello del celebrato cinese". E già era entrato, e nel chiavarese prima che altrove, il mais. Più tardi, nel 1816, il Rivarola tenterà d'introdurvi la coltura dell'arachide per spremerne l'olio dai semi.

L'agricoltura non era, del resto, la sola risorsa della terra. Con che diritto - diceva il 23 giugno 1795 il Rivarola, allora presidente della Società Patria ai consoci - si guarda ai monti come "a semplice ammasso d'inutili materie"? Potrebbero celare nelle loro viscere metalli preziosi, semimetalli utilissimi, carbon fossile: quel carbon fossile la cui ricerca, data la crescente penuria del carbone vegetale, si era fatta sempre più ansiosa. La scoperta di piccoli giacimenti nel sarzanese prima, poi a Cadibona alimentava le speranze. E intanto la Società chiavarese andava studiando fornelli e pentole di coccio che permettessero di risparmiare combustibile. Sperimentazioni e studi non sterili. Nel 1833 il socio Niccolò Della Torre, un fabbro, riuscì finalmente a mettere al punto i suoi "Rumford popolari", adattando ingegnosamente un'invenzione vecchia di trent'anni di Sir Benjamin Rumford, instancabile promotore (morì nel 1814) dell'applicazione della nuova scienza ai mille usi della vita domestica. Non è senza significato che la ricerca a scopo filantrqpico del fisico americano avesse trovato proprio a Chiavari, un abile prosecutore. Il ritrovato, il "rumfò", forno e fornelli di ghisa e mattoni refrattari, si diffuse ampio in tutto l'arco ligure, sia nelle campagne sia nelle città, e fors'anche fuori di Liguria, grazie alla propaganda che ne fece il "Giornale Arcadico" (T. LVIII). C'è da rammaricarsi che l'opera di J.P.H. Curnin (History oftheDomestic Grate, 1934) sia rimasta dattiloscritta presso la libreria dell'Università di Londra; e che non ci sia stato nessun studioso in questi anni che abbia condotto ricerche del genere nell'area italiana. C'era l'allevamento. Eliminata totalmente la "razza malefica" delle capre, bisognava introdurre nel genovesato pecore della miglior razza: le merinos spagnole o almeno le bergamasche. I tentativi compiuti da Ippolito Durazzo e da Giuseppe Grimaldi erano incoraggianti. Nasce in questi anni una figura sociale inedita a Genova: il gentilhomme cultivateur. Di personaggi del genere è ricca soprattutto la Società chiavarese: G.B. Solari, Gio. Cristoforo Gandolfi, Stefano Rivarola ne sono incarnazione perfetta. A visitare i frutteti di Gerolamo Gnecco a Nervi si mosse nel 1787 perfino Thomas Jefferson, lui stesso un gentleman farmer. Per effetto dell"'agromanie" del secolo la torva Repubblica di mercanti sembrava che stesse per trasformarsi in un'idilliaca Repubblica di Cincinnati. Nella prima metà dell'Ottocento - devo aggiungere - questo amore e cura dei campi si trasformeranno in amore e cura degli orti botanici: gli spazi urbani di Genova, che ancora si sforzava di conservare il suo antico aspetto di città-giardino, ne furono tutti allietati.

C'era poi, non ultimo, il problema della difesa dei confini. G.B. Pini - oracolo dell'una e dell'altra società - propose di spartire le terre comuni e di creare delle fattorie modello per coloni-soldati, che avrebbero difeso all'occasione la patria generosa certamente meglio degli inetti mercenari che formavano tutta la sua truppa. I problemi e le preoccupazioni di fondo della Società patria erano dunque assai complessi, com'era da aspettarsi da una compagnia nata nella Dominante. La Società, che nell'aprile del 1791 cinquantacinque primari cittadini di Chiavari chiesero di formare, restrinse invece la sua attenzione esclusivamente ai problemi del territorio. Si vietò anzi per costituzione di parlar d'altro. L'art. 2 del cap. I dello Statuto (correzione del 1795) recita: "non si occuperà che di materie le quali abbiano relazione ai menzionati soggetti" (cioè agricoltura, arti e commercio del territorio di Chiavari). L'art. 3 ribadiva con forza quella scelta: "Qualunque affare alieno dal suo instituto non potrà nè meno prendersi in discorso". Espressione estrema del pragmatismo e concretismo dei lumi essa prese per motto il detto di Swift che "un uomo, il quale sapesse far nascere due spighe dì grano in vece di una, è preferibile a ogni genio politico". Questo regime di austerità lasciò in qualcuno il desiderio di cibi più piccanti. Nel 1796, parallela all'Economica, si formò un'altra società (composta in prevalenza di sacerdoti) che si disse dei Filomati con lo scopo di discutere qualche "interessante teorema" e insomma dibattere le grandi questioni scientifiche. La loro prima cura fu di formare una libreria ad uso pubblico. Nel maggio del 1796, nell'imminenza della sua apertura, ne stesero il regolamento. Ma quando i Filomati, che formavano nell'Economica una classe separata e priva del diritto di voto, chiesero il 1° novembre 1796 ai soci dell'Economica di assumersi la spesa di due lumi per tenerla aperta nelle ore notturne, nacque un pandemonio. Il socio Liborio Carboneschi si oppose addirittura a che la proposta venisse messa ai voti "perché importa - ecco le sue parole - una spesa aliena dagli oggetti del nostro instituto" (Sess. 51). Fece annullare la prima votazione e alla seconda rifiutò da partecipare. La proposta fu approvata alla fine con 17 voti favorevoli e 14 contrari. Gli avvenimenti del 1797 impedirono comunque alla biblioteca di funzionare non soltanto nelle ore notturne, ma anche in quelle poche ore che il regolamento prevedeva: cinque, nei mesi da novembre ad agosto (chiusura totale dal 10 agosto al 10 novembre). Per un quarto di secolo, fino al 1820, anno nel quale fu, sempre avaramente, riaperta agli studiosi nella sua sede attuale, ebbe vita clandestina, non cessando tuttavia d'arricchirsi. Primo custode ne fu lo Spotorno, erudito degnissimo. Purtroppo non ebbe successori del suo stesso calibro. Il modesto nucleo di opere, che i volonterosi Filomati erano riusciti a mettere insieme con i propri mezzi, venne sempre più arricchendosi in virtù dei cospicui lasciti dei soci Antonio Mongiardini (1841), Agostino Rivarola (1842), Giuseppe Bontà (1845), Lazzaro Revello (1872), Giuseppe Gazzino (1884) tra tutti il più cospicuo, che la riempi di cose rare e preziose, sia a stampa sia manoscritte. Per nostra fortuna la Società si mostrò di idee più larghe di quella del socio Carboneschi.

Nata per per iziativa di cittadini di Chiavari, fattisi emuli dei cittadini della Dominante (un modello di istituzione periferica) e tutta assorta come dicevo - nello studio dei problemi della città e del suo territorio, la Società Economica fu, nei primi sei anni di vita, attivissima. Un suo presidente disse una volta che in questi primi anni "ulivi e tele furono le sue sole preoccupazioni". Era ingiusto. Basta scorrere i verbali delle sue cinquantasei sedute e le memorie in essa lette e discusse (tutte di buon livello) per rendersi conto che, se ulivi e tele furono i temi maggiori, non furono gli unici. Molte delle sue iniziative (l'illuminazione pubblica, per esempio, o la ricerca di fondi per la costruzione di un ponte di pietra sull'Entella) fanno pensare che la Società volesse, se non proprio sostituire, almeno stimolare gli organi di autogoverno locale. Erano in ogni caso manifestazioni concrete di zelo per il bene pubblico, cosi come lo intendeva - tanto per trovare un termine dì paragone illustre - Beniamin Franklin, che di iniziative del genere per far più bella e confortevole la vita dei cittadini della sua Filadelfia andava fiero. È la prosa dell'illuminismo.

Ma pur sempre d'illuminismo si tratta, cioè di una lucida presa di coscienza dei problemi della comunità unita alla volontà di agire, di migliorare, di uscire dal sonno. "È ormai tempo di risvegliarci": è il forte ammonimento che G.B. Solari rivolse ai soci adunati nella prima seduta plenaria della Società appena nata. Bisognava guardarsi attorno, farsi attenti, mettersi alla scuola dei più avanzati: "Se i nostri talenti - spiegava - non c'incalzano ad essere inventori, la nostra indolenza non ci proibisca di essere imitatori". Nell'imitazione - imitazione creativa, s'intende - i membri della Società più e più volte si distinsero. L'esempio più noto è quello di Giuseppe Gaetano Descalzi, l'ebanista che seppe "rapire" alla metropoli (allora, in età napoleonica, era Parigi) i segreti delle sue sedie (lo stile "impero") e con quelle di sua ideazione di stile "gotico" si guadagnò due medaglie d'oro e non so quante d'argento e alla fine della sua lunga vita la croce di cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro. Lui morto nel 1855 e passate di moda quelle sue creazioni, venute a genio le

sedie viennesi, la Società si fece premurosa di carpirne i metodi di fabbricazione; e nel settembre del 1879 inviò due soci - il cav. Giacomo Massa e Giacomo Canepa - a visitare il grande stabilimento Thonet a Bystrzitz in Moravia, i quali ne fecero al ritorno distinta relazione. L'anno successivo un artigiano chiavarese partecipò con le sue seggiole viennesi di faggio curvato al vapore all'Esposizione Universale di Milano e ne riportò una medaglia d'argento. Malgrado le cure della Società, va detto però che l'industria delle seggiole non riuscì mai a decollare: gli artigiani che vi si dedicarono erano troppo pochi, privi dì capitali e di capacità imprenditoriale. Nel 1911 il presidente Coppola si disfece finalmente dell'illusione, accarezzata per tutto un secolo, di farne la voce più importante delle esportazioni chiavaresi. Altri tentativi d'imitazione andarono invece del tutto a vuoto. Per migliorare la filatura, la tessitura e il candeggio delle rozze tele di lino che Chiavari riusciva a malapena ad esportare in Sardegna e in altri mercati poco esigenti, e farne di simili a quelle di Fiandra la Società nei primi anni - come dicevo - s'impegnò energicamente. Consultò i teorici (G.B. Pini), chiese aiuto agli esperti del settore. Fu Michele Lanzi, il famoso artigiano che la Società di Genova era riuscita a strappare alla sua Firenze, a impostare nel 1794 a Chiavari una scuola per filatrici e pettinatrici. Si cercò d'introdurre in luogo dell'arcolaio il "curletto modificato", un dispositivo che, con la stessa fatica, triplicava la quantità del filato. Peine perdue. L'industria delle tele languì e presto decadde, soprattutto dopo che i dazi aumentati resero proibitivi in età piemontese l'importazione della materia prima dalle terre lombarde. Per migliorare la qualità dell'olio chiavarese il Solari, dotto olivocultore, proponeva di "rapire" le tecniche di spremitura che rendevano tanto pregiato l'olio del ponente ligure. Anche in questo caso l'imitazione non diede risultati apprezzabili o forse non fu neppure tentata. Gli olivi del chiavarese sono ormai piante di nessun valore economico.

Nel triennio democratico la Società stentò a farsi ammettere. Nata la Repubblica Ligure, cercò invano nell'aprile del 1802 di riprendere il corso interrotto delle sue sessioni: i soci si erano diradati. I partécipanti della quarta seduta erano sei. Annessa la Liguria all'Impero, Napoleone eresse Chiavari in capoluogo del Dipartimento degli Appennini il 2 giugno 1805.Il ruolo della città crebbe. Nel Dipartimento, oltre agli undici feudi ex-imperiali (Ottone, Carrega, Crocefieschi, Rocchetta, Isola S. Stefano, Cabella, Savignone, Torriglia, Ronco, Mongiardino, Arquata) già annessi alla Liguria nel 1797 l'Imperatore incluse parte delle terre dell'antico Ducato di Parma (Borgotaro). La Società ottenne, mutato nomine, l'autorizzazione a riprendere nell'aprile del 1806 la sua attività. Divenuta Société d'agriculture et d'encouragement ricevette un sussidio e fu affiliata, assieme a tutte le altre che operavano nel territorio del Grand Empire, alla Société centrale di Parigi. E a far transunti delle memorie pubblicate dal Bollettino della capitale i soci spesero gran parte del loro tempo. Nel 1808 misero a stampa i risultati di quelle loro subalterne fatiche. Ben più preziosa collaborazione la Società avrebbe potuto fornire all'amministrazione napoleonica, se questa avesse saputo o voluto servirsene. Disgraziatamente il prefetto -un antico émigré - il barone Jean-André-Louis Rolland de Villarcieux, competente soprattutto in questioni finanziarie (condenserà nel 1816 la sua esperienza di amministratore in un rarissimo opuscolo dal titolo: Des ressources que l'administration peut fournir aux finances) disprezzava Chiavari - un triste, anzi "foutu village" - detestava i suoi abitanti, riluttanti come si mostravano alla francisation; e non vedeva l'ora di andarsene. Maurice Duval, che lo sostituì nel 1811, era null'altro che un onesto burocrate. Davvero Chiavari poteva invidiare a Savona il suo Chabrol de Volvic. In mancanza di uno Chabrol, dovette accontentarsi del volenteroso Giuseppe de Ambrosiis.

Chiavari conservò lo stesso un gran ricordo dell'età napoleonica. La costruzione della route impériale da Parigi a Roma dotò la città di qualche opera di interesse vitale (ponti, strade, fortificazioni). Ma fu soprattutto il blocco continentale ad avvantaggiarla: i suoi marinai scoprirono nella guerra da corsa una fonte inestimabile di lucro. In confronto, ben triste divenne la vita sotto il Regno di Sardegna, benché avesse conservato il titolo di provincia. Abbandonata a se stessa, non ricevette dal governo nessun aiuto, ma piuttosto infiniti ostacoli: "il commercio non protetto - si legge in un testo autorevole del 1853 - i miglioramenti vietati, o impediti assolutamente, o resi nulli da un cieco sistema di diffidenza".

In quegli anni grigi la Società, che già aveva perduto velocità col declinare dell'Impero (per tre anni - dal 1814 al 1816 - rimase soppressa l'esposizione annuale, che pure era obbligatoria per statuto) divenne un nido di nobili e di notabili del Regno Subalpino. Nel 1830 su sessantadue soci sei erano cardinali o vescovi; diciotto, grandi funzionari regi; ventiquattro, nobili piemontesi. Dei quattordici chiavaresi la più parte (compreso l'ottimo Mongiardino, fatto presidente nel 1816) dimorava a Genova. La diffidenza verso le grandi teorizzazioni venne esplicitamente raccomandata ai soci; e a predicare questo meraviglioso regimen sanitatis fu nel 1833 non già un piemontese, ma il genovesissimo Antonio Brignole Sale, fattosi però devoto al nuovo signore di Genova e da questi promosso a ministro di Stato.

Nuova linfa fu immessa nella Società (che per circa tre decenni si era retta con il contributo dei soci e con "pochi sussidi della provincia e della città") nel 1842 dal lascito del socio Emanuele Gonzales, "primo uffiziale al ministero degli interni". Ora finalmente, fatta ricca, poteva dedicarsi a quel vasto programma di assistenza e istruzione che era il suo sogno più caro. E vi si dedicò infatti non appena - morto il congiunto che dell'eredità Gonzales aveva l'usufrutto - poté disporre realmente di quel patrimonio. Creò asili, scuole, ospizi, casse di risparmio, cattedre ambulanti di agricoltura, con una solerzia ammirevole. E continuò a curare le esposizioni annuali, che aveva inaugurato nel 1793 per stimolare con i premi l'ingegnosità di artigiani e di agricoltori. Ma se nei primi anni era dalla Società che veniva l'impulso e lo stimolo a innovare; se le innovazioni erano fatte oggetto di attenta discussione tra i soci prima ancora di essere proposte, quella delle esposizioni annuali divenne, con il passare del tempo, routine e, quel che è peggio, l'unica occupazione della Società. Lo ammise apertamente il vicepresidente Giovanni Casaretto nel 1874: "Le operazioni della Società nostra ormai si aggirano quasi esclusivamente intorno alle Esposizioni". Il fascismo, nel 1935, togliendole questa consuetudine, la lasciò quasi inoperosa. Per l'occasione dell'esposizione il presidente o il vicepresidente declamava su questo e quel gran tema, che sul finire del secolo era poi sempre lo stesso: come contrastare la strada al socialismo e al sindacalismo politicizzato. Era finita l'era del disimpegno ideologico. Costretta dai conflitti in atto a prender posizione, la Società orientò le sue simpatie verso il movimento cooperativistico, di marca liberale, di lord Rosebary. Per capire la nuova realtà sociale - in particolare i fenomeni rivoluzionari - qualcuno ricorreva con finezza al Pareto. La discussione delle idee, ricacciata indietro in passato, faceva insomma la sua comparsa nei discorsi encomiali. Ma quanto in queste annuali esibizioni era opinione personale e quanto frutto di dibattito intorno alla Società? Comunque sia, questa stagione durò finché durò l'età liberale. In seguito, al tempo della semi-dittatura del Copello (1917-1933) prevalse la retorica, che era pur sempre un parlare anche se fastidioso. Dopo il 1935 i presidenti rimasero silenziosi. O si dedicarono, come l'Oxilia e il Boggiano, a simpatiche spigolature nella storia della Società. A poco a poco la Società si andava orientando verso la storia. E un gran convegno di storia ha voluto promuovere per ricordare i suoi duecento anni. A qualcuno parrà un segno di senilità. A me, che vi parlo a nome del suo presidente, pare piuttosto l'espressione della volontà di ritrovare il primo slancio e di ripensare la propria funzione in un mondo molto mutato da quello che la vide nascere.