Joseph R. Stromberg

Rothbard contro Rothbard, un falso dilemma

Dovendo analizzare il pensiero elaborato da un intellettuale di rilievo nell’arco della propria vita, critici e studiosi tendono a suddividerne l’opera in periodi. Anche se le idee del soggetto esaminato non sono mutate in maniera significativa nel corso degli anni, è una cosa che li fa sentire meglio. Accade, a volte, che un approccio del genere sia più che giustificato. Basti pensare a Friedrich Naumann, che oggi i tedeschi considerano il loro più grande “liberale” e che riuscì a passare dal socialismo cristiano al culto del Kaiser, al “navalismo”, ad un impaziente riformismo “nazionalsociale”, all’idea di un’egemonia tedesca sull’Europa centrale, all’internazionalismo del Nuovo ordine mondiale. L’unica costante nel suo pensiero è questa: Naumann sostenne sempre e comunque, in modo alquanto fanatico, la necessità di un massiccio intervento dello Stato in ogni settore. Questo grande “liberale” non ha mai capito niente di mercati, proprietà privata e cose del genere e ricorda molto da vicino lo statunitense Max Lerner, sui cui scivoloni ideologici venivano calibrati gli standard internazionali. E’ stato partendo dal trotzkismo e passando per un socialismo democratico di destra che gli stimati neo-conservatori americani hanno conquistato il loro attuale primato, dall’alto del quale forniscono al mondo le “menti” che si trovano nel mainstream del Partito repubblicano.

Analizzando in questi termini il pensiero di Murray Rothbard, non possiamo far altro che constatare come egli si sia mantenuto stabile e costante nel tempo. Esistono tuttavia valutazioni tendenziose che, sottolineando come il mondo sia leggermente cambiato, ad esempio, tra il 1946 ed il 1992, accusano Rothbard di essersi mostrato incoerente e, quel che è peggio, di essere disceso agli inferi del “conservatorismo”. Una ventina di anni fa, esprimendo il proprio parere a riguardo, Samuel Edward Konkin III, noto agorist, iniziò a fare distinzione tra “rothbardismo di sinistra”, la sua posizione, e “rothbardismo di destra”, la presunta posizione dello stesso Rothbard all’epoca. Ora ci tocca sentir parlare di contrapposizione tra un “primo” Rothbard ed un “tardo” Rothbard o, addirittura, della scioccante “unidimensionalità” della sintesi rothbardiana, secondo l’espressione usata su “Critical Review” e su “Liberty” da Chris Sciabarra, ma Rothbard non può essere così marcusianamente descritto. Ad una tale affermazione, ovviamente, non poteva mancare l’arguta replica di Bill Bradford, editore anticonformista di “Liberty”, che ha osservato come Rothbard venga considerato un ottimo economista dagli storici ed un ottimo storico dagli economisti. Ma chi ne ha letto le opere ha la netta sensazione che se la cavasse piuttosto bene in entrambi i campi. Rispetto ai noiosi babbei dell’analisi storica e agli aridi tecnici dell’economia, Rothbard aveva scelto di cimentarsi in un’impresa estremamente audace: plasmare una scienza interdisciplinare della libertà, che desse corpo, si potrebbe aggiungere, alla claudicante richiesta di “rilevanza” accademica formulata dalla New Left.

Non tutti, tuttavia, desideravano il tipo di “rilevanza” che uno come Rothbard poteva dare. Era un personaggio chiaramente pericoloso, da tenere sotto controllo in caso dovesse risvegliare le belve. Si tratta di una questione soprattutto interna, in quanto è tra le schiere di quello oggi definito “movimento libertario” che troviamo la maggior parte di coloro che esprimono tanto violentemente le proprie rimostranze circa la presunta esistenza di due o più Rothbard. Ce ne sono molti che si dicono scioccati, e ribadisco scioccati, dal fatto che Rothbard sia stato, e sia sempre rimasto, un conservatore culturale. Per usare una caratteristica espressione rothbardiana: e allora? Avrebbe forse dovuto adottare uno “stile di vita alternativo” ed adoprarsi per fare del libertarismo un rifugio accogliente in un’era di lamentazioni multiculturali?

Avrebbe dovuto adeguare le proprie indagini all’ermeneutica del sospetto, che, stranamente, diffida esclusivamente delle motivazioni dei maschi bianchi? Neanche per sogno. Parafrasando l’ex presidente americano L. B. Johnson, si potrebbe dire che Rothbard ha sempre mostrato un costante interesse per la salvaguardia dell’”unica civiltà che possediamo”. Per Rothbard, preservare la civiltà significava anche adoprarsi per accrescere la libertà degli esseri umani. Non si è mai lasciato trarre in inganno dalla linea tradizionalista dei conservatori, secondo cui la libertà conduce alla “licenza” e solo una perfetta conoscenza delle opere di Edmund Burke può impedire tale triste conseguenza. D’altra parte, non è neanche esatto dire che Rothbard non credesse in quella che potremmo definire “libertà ordinata”. Riteneva che il vero “diritto” fosse stato scoperto applicando alcuni ovvi princìpi ai casi che si presentavano, come nella common law britannica e nelle parti più evolute del diritto civile romano. Il filosofo Christian Bay ha condannato pubblicamente, definendolo troppo “borghese”, il suo libro Per una nuova libertà, mentre una certa rivista dell’arido Sud-Ovest degli Stati Uniti, “The Match”, gli ha dato dello “statalista” soltanto perché continuava a credere nell’esistenza di un qualche tipo di diritto.

Sulla “problematica” e sul “progetto” rothbardiani, come li definirebbero le faine della teoria, dirò solo questo: Rothbard intendeva creare una scienza unificata della libertà che fosse un compendio di liberalismo classico, anarchismo individualista, sociologia critica degli Stati, revisionismo storico e dottrina economica austriaca: “scienza” perché poteva essere applicata con rigore e “unificata” perché ogni elemento andava a correggere o a rinforzare gli altri. Alcuni di noi ritengono che abbia fatto un gran bel lavoro, nonostante le lamentele altamente teoriche espresse da una di quelle famose riviste. In tutti i suoi tentativi di “alleanza tattica”, la sua partecipazione e la sua rottura con il Libertarian Party, le sue lotte con i finanziatori e le altre vicissitudini della sua vita, l’approccio di Rothbard si è sempre mantenuto saldamente “borghese” e culturalmente conservatore. Non c’è da stupirsi che si sia rifiutato di sottoscrivere l’attuale sistema di sensibilizzazione pubblica obbligatoria, un sistema dettato dalla sinistra, vera vincitrice della Guerra Fredda, come oggi ben sappiamo. Allo stesso tempo, Rothbard non ha mai lodato nessun presidente americano suo contemporaneo. Le sue denunce contro Reagan e contro il suo operato spiccavano in un movimento di quasi reaganiani. Leggete i commenti che ha espresso durante tutti gli anni Ottanta, se non ci credete.

Coloro che considerano il conservatorismo culturale e la presunta “insensibilità” di Rothbard come deplorevoli sviluppi successivi, ispirati forse da incontri troppo frequenti con Thomas Fleming e Samuel Francis, dovrebbero rileggersi le trascrizioni di alcuni dei primi convegni del Libertarian Party. E poi, critici del genere dimostrano di non essere aggiornati. Intendo dire che, se fossero davvero sensibili, farebbero come i monaci depressi del film di Monty Python, che si trascinavano in giro sbattendosi ritmicamente in testa libri di critica sulla teoria delle razze. Alcuni libertari non si sono mai ripresi dal famoso articolo di Rothbard sulla ribellione “rivoluzionaria” nel penitenziario di Attica, nello Stato di New York. Non è stato lui ad inventare lo Stato. Non è stato lui ad inventare le prigioni di Stato. E non ha mai fatto neanche un complimento a Nelson Rockefeller. In quell’occasione, tuttavia, il suo discorso fu questo: visto che esisteva una prigione di Stato e che i peggiori assassini e criminali di New York e dintorni avevano preso degli ostaggi, cosa avrebbe dovuto fare il governatore? Chiedere aiuto ad un abile team di negoziatori canadesi? Ordinare tè e pasticcini? Ho dovuto faticosamente affrontare gran parte della gotica crisi isterica da liberale del Sud scritta da Tom Wicker prima di capire, finalmente, il significato delle parole di Rothbard. (Ho abbandonato il libro di Wicker verso pagina cinquecento, quando, dopo essersi lasciato sfuggire che alcuni prigionieri bianchi, sopravvissuti in qualche modo alla “rivoluzione”, erano stati improvvisamente ritrovati morti, l’autore non ha ritenuto opportuno o necessario, con la sua grande sensibilità razziale, spiegare l’accaduto).

Nel 1971, Rothbard scriveva: “A parte la sua propensione naturale all’uso della coercizione, la sinistra sembra essere costituzionalmente incapace di lasciare in pace la gente nel senso più fondamentale dell’espressione; sembra non riuscire in alcun modo a trattenersi dal sottoporre a continue arringhe, molestie e vessazioni chiunque si trovi a portata di mano.” Su questo argomento, in qualunque fase della sua vita, Rothbard ha sempre mantenuto la stessa posizione. Il suo attacco al femminismo radicale, reputato infame in certi ambienti o semplicemente prematuro, precede di due anni la citazione appena riportata. Non ricordo che il suo pensiero si sia mai scostato di molto da quello espresso nel 1969. Caso mai, è diventato più caustico a mano a mano che il femminismo e gli altri “ismi” si sono fatti più aggressivi, irrigidendosi sempre più nelle loro posizioni. Gli anni tra il 1970 ed il 1972 sono una miniera d’oro per chi è alla ricerca di critiche rothbardiane alla sinistra. Perché mai adottare una linea di pensiero di questo tipo quando si può dire che la sinistra, in quel periodo, si fosse prefissa un obiettivo ammirevole, e cioè di porre fine alla guerra in Vietnam? Proprio perché la Nuova Sinistra mostrava di possedere i medesimi tratti della vecchia: teppismo, smantellamento della proprietà privata, disprezzo per la vita ordinaria e l’imperiosa necessità di far ascoltare L’oriente è rosso a tutti, tutti i giorni, tutto il giorno. Allora perché Rothbard si è “spostato a destra” dopo il crollo dell’Unione sovietica? Ha scritto che è stato come tornare a casa, alla Old Right della sua giovinezza. Denunciava bellicismo ed interventismo da decenni, ma ora, se non altro, alcuni conservatori avevano deciso di spostarsi verso un nuovo “isolazionismo”. Rothbard ebbe numerosi scontri con i conservatori su parecchie questioni, ma sapeva, in fondo, che non erano loro, in generale, i nemici giurati dell’unica civiltà che possediamo. Non si può dire lo stesso della sinistra.

 

Dalla parte della “vecchia America”

Rothbard ha sempre difeso la “vecchia cultura” ed i veri film: quelli che lui definiva “i film dei film”, quelli che contenevano un messaggio, erano caratterizzati da una certa continuità e realizzati con maestria, tanto da non rappresentare esclusivamente il mezzo scelto dal regista per esprimere il proprio nichilismo e la propria angoscia esistenziale. Diversamente da certi neo-conservatori, non scelse arbitrariamente, proclamandola apice del progresso umano, l’arte ultramodernista degli anni Cinquanta di cui Manhattan era l’epicentro. Era convinto che anche prima della seconda guerra mondiale fosse esistita una cultura americana, quella mostrata nei vecchi film, una cultura che avrebbe dovuto essere bandita al più presto, prima che le pecore si accorgessero della differenza tra la New York degli anni Trenta e quella prodotta da sessant’anni di beneficenza e filantropia liberal. Rothbard rifiutava l’egualitarismo: non per niente un volume che raccoglie suoi saggi si intitola Egalitarianism As a Revolt Against Nature. Ed è sempre stato un “paleo”: era convinto che esistesse un ordine ontologico, una natura delle cose, in cui era compresa anche la natura umana.

La sua adesione alla tradizione filosofica aristotelico-tomistica spiega, in parte, il suo interesse per la tradizione intellettuale cattolica. I cattolici sono in circolazione da molto più tempo dei randiani, ha fatto notare una volta, e potrebbero essere riusciti, nel frattempo, a risolvere uno o due problemini. Rothbard ammirava il razionalismo che riscontrava nella tradizione cattolica. G. K. Chesterton era uno dei suoi scrittori preferiti. Inoltre, si rendeva conto che la civiltà occidentale non sarebbe stata tale senza il cristianesimo. Non ha mai approvato il carattere vistosamente espansivo della nuova civiltà che si profilava all’orizzonte, preannunciata dalla rivista di tendenza “liberale classica” Reason Magazine: una civiltà in cui tutto sarebbe andato a finire per il meglio, a patto di imparare ad accettare maggiormente gli “altri” e a tollerare di più il “totalitarismo”. (A quanto pare, gli “altri” hanno già acquisito tali virtù.).

Rothbard si è mostrato politicamente scorretto sia all’inizio sia alla fine della propria carriera. Nel 1948, come lui stesso ha scritto più tardi, è stato probabilmente l’unico ebreo newyorkese che ha appoggiato il programma dello State Rights Party di Strom Thurmond. All’inizio degli anni Cinquanta, ha denunciato la questione pendente del riconoscimento dello Stato delle Hawaii, definendola un affronto al carattere organico e continentale della federazione degli Stati Uniti. Negli ultimi tempi lanciò lo slogan universal rights, locally enforced (diritti universali fatti rispettare localmente), la cui seconda parte, particolarmente perversa, suggerisce una prospettiva davvero terrificante, in quanto lascerebbe totalmente disoccupati Nato ed “impero”. Facendo il verso agli attuali seguaci di J. M. Keynes, imbarazzatissimi di fronte ad alcune affermazioni del loro maestro, Rothbard amava dire: “Keynes è un keynesiano”. Ma Keynes era fermamente convinto delle proprie idee. E lo stesso vale per Rothbard. Rothbard era un rothbardiano. Non vedo cosa ci sia di male.

Ideazione” n. 1, gennaio febbraio 2003