Riproduciamo di seguito il testo integrale di un fascicolo della serie “ Le Grandi Films” (sic) della Gloriosa-casa editrice italiana. La collana proponeva, secondo un costume invalso nell’editoria popolare, i soggetti di film famosi riscritti per l’occasione. Vi comparve, per esempio, anche il racconto de La grande parata di King Vidor. Nel caso qui proposto,, del 1927, si tratta di una riscrittura (anche nel nome) del Nosferatu diretto da Murnau: L’autore, sicuramente italiano, malgrado il nome slavizzante, scrisse per la stessa collana anche altri testi, fra gli altri quello ispirato a Il Figlio dello sceicco. Alla casa editrice Gloriosa si deve il prototipo del settimanale popolare di informazione cinematografica, “Cine-Cinema”, che cominciò a uscire nel 1924.

 

Ivan Pissilenko

lo spettro della Morte Nera. Romanzo-film. Mosferatu, il Vampiro

Durante il soggiorno di due mesi che noi facemmo nelle montagne dei Carpazi nel 1904 entrammo una sera in casa di una vecchia contadina che volle volentieri darci ospitalità e servirci una generosa cena.

Era una donna intelligente, sapiente assai più che la maggior parte del popolo di quelle contrade e, che, alla fine della giornata, si mise a parlare dei ricordi della sua giovinezza e dell’epidemia della peste che devastò Wisborg nell’agosto 1838.

La nostra raccontatrice aveva 8 anni a quell’epoca, ma la sua memoria era precisa. E di più se ne era parlato così spesso da allora, che non vi era un dettaglio, di quel terribile anno che ella non conoscesse.

La notte era assai avanzata quand’ella tacque, l’indomani mattina noi partimmo per Wisborg…, ove trovammo negli archivi della vita della città la conferma della storia della contadina.

Così ella non aveva mentito, lo spaventoso racconto che ci aveva fatto stare attenti in ogni punto. Noi ritornammo alla sua umile dimora e, fiera della nostra confidenza, ella volle prometterci, che, poiché noi ci interessavamo a questo antico avvenimento, ella ci darebbe un giorno conoscenza di un libro prezioso che aveva nelle mani e che raccontava tutte le circostanze bizzarre di cui fu circondata l’epidemia del 1838 a Wisborg.

Passati degli anni, noi non pensavamo più quasi alla contadina dei Carpazi quando, alla fine del 1920, ricevemmo per posta un quaderno di 250 pagine che ci era stato indirizzato dagli eredi della povera donna, la quale, nei suoi ultimi momenti non aveva dimenticato la sua promessa e così noi siamo venuti in possesso del giornale di «Giovanni Hutter», cittadino di Wisborg, ammogliato in questa città nel 1836 e che morì nel 1850 a Balatz in una casa di pazzi.

Ma il documento che noi abbiamo pubblicato è stato scritto nel tempo in cui Giovanni Hutter era in possesso delle sue facoltà. Era, lo si vedrà, un giovane di una rara intelligenza per cui il quaderno di note potrebbe apparire scritto da Hoffmann se non avesse avuto bisogno di immaginazione per essere un terrificante novelliere.

Giovanni Hutter era un letterato; egli aveva preso i suoi titoli all’università Angosbarre ed egli ha lasciato dei lavori sulla storia della riforma a Vienna e sulla biblioteca del castello Wittelsbach che godono d’una certa autorità presso gli specialisti della storia religiosa e di bibliografia.

Giornale di Giovanni Hutter. Febbraio 1838.

Io non ho ripreso il mio Giornale dopo il mio matrimonio. Perché? Io non ne so niente; forse perché sono stato troppo felice; la felicità non ha bisogno di esprimersi. Il fatto che mi rimetto a notare ciò che passa in torno a me e in me, non implica per altro che io sia infelice ora; ma confesso che da qualche tempo temo che la salute della mia donna sia causa di certi avvenimenti che mi preoccupano, ed io ho la sensazione che a scrivere giorno per giorno i miei ricordi porterà gran sollievo al mio spirito. Elena, la mia donna, è la creatura più squisita che si possa vedere. Ella ha 24 anni, io ne ho 30 non si potrebbe essere meglio assortiti; ella non ha più né suo padre né sua madre, noi viviamo qui presso mia cognata e mio cognato, siamo la famiglia più unita che sia al mondo. Mai una dispiacenza, Elena ed io non abbiamo mai scambiato una parola vivace. Tuttavia, io osservo qualche cambiamento nella nostra intimità, Elena, da un anno è divenuta particolarmente nervosa, è spesso ammalata, si lamenta di soffrire alla testa, piange qualche volta senza ragione, e tutte le parole che io posso trovare per consolarla non servono a niente.

Che avviene? Ho consultato parecchie volte il mio amico il dottor Bulwer. Egli mi ha detto che questo stato nervoso è forse dovuto alla stanchezza del viaggio che facemmo or sono dieci mesi nei Carpazi, e che fu assai movimentato.

Egli ha ordinata che Elena resti lungamente coricata, che abbia una vita regolarissima e che legga il più poco possibile. Ella seguì le prescrizioni di Bulwer con cura; io stesso prendo le più grandi precauzioni perché non si allontani dal suo regime, ma debbo constatare che non va meglio. L’impedimento di leggere è assai incomodo. Ecco una donna che è sola, una parte della giornata; mio cognato è impiegato alla dogana del porto, mia cognata si occupa delle cure della casa, io vado tutto il giorno per parecchie ore dal mio padrone anche e mi occupo degli affari più dissimili.

Quand’ella non ha nessuno vicino od è distesa su di un divano o sul suo letto, si distrae con dei libri. Ed è ben naturale.

Ma confesso che queste letture hanno un carattere particolare.

Io la sapevo romantica, amante molto dei lavori di immaginazione, ma ignoravo che ella si interessasse da giovane delle storie di superstizione e delle cose di cabala. Sono stato stupefatto di trovare fra le sue mani il libro del «Vampiro»; ciò non è adatto per rimetterla di spirito. Le ho interdetto di continuare a leggere questo volume ma sono sicuro, che, come i fanciulli, lo finirà di leggere di nascosto.

Insomma tutto ciò non è molto grave ed io non mi inquieterò oltre misura, per non creare nella nostra casa, già così piacevole un’atmosfera un po’ soffocante. Prima desideravo tanto di restare nella mia casa il più lungo possibile ora provo qualche volta del piacere ad uscirne; passeggio lungo il fiume, respiro l’aria imbalsamata della notte, mi sento vivere.

Questa sera sono stato a fare un giro davanti la grande casa abbandonata che è dall’altra parte del fiume in faccia alla nostra casa; che magnifico fabbricato, e che peccato non lo utilizzino.

È meravigliosamente romantico; si sentono gridare le civette, «che bel poema potrei scrivere lassù, e fossi ancora poeta come a 20 anni ».

28 febbraio 1838.

Ho portato questa mattina dei fiori ad Elena. Erano delle rose state imbarcate da qualche settimana a Costantinopoli, conservate intatte per un processo scientifico che ignoro, ho un mio amico che me le ha donate e naturalmente io ne ho fatto regalo alla mia amata.

Come ella le ha viste si è messa a singhiozzare. «Perché, mi ha detto, avete ucciso questi fiori?».

Io confesso che non ho capito sull’istante.

«Come uccisi?» le chiedo.

«Sì, essi sono pallidi: chi dunque ha bevuto il loro sangue?».

Le ho spiegato che erano delle rose bianche e che era precisamente il loro colore lattiginoso che ne faceva tutto il pregio. Io ho avuto un bel dirle che essi erano sbocciati senza dubbio nel giardino di qualche califfo d’Anatolia che forse anche venivano da Bagdad, paese delle rose; le ho raccontato che erano forse state baciate dalle labbra dei sultani. Ma tutta questa poesia è stata inutile, Elena continuò a piangere ed a gemere.

«Hanno ucciso questi fiori, perché hanno ucciso questi fiori, chi ha dunque bevuto il sangue di questi fiori?».

Ha avuto anche una crisi di nervi. Sono stato obbligato a chiamare Bulwer che l’ha calmata un poco ma io ho profittato per dire a questo vecchio amico che Elena leggeva il libro dei Vampiri e che egli dovrebbe interdirglielo, ciò che ha fatto.

«Non dubitarne», m’ha detto il dottore, «è quel libro che le ha ispirato la riflessione “chi dunque ha bevuto il sangue dei fiori?”…». Infatti ha aperto il volume e vi ha trovato delle cose che colpirebbero lo spirito meno suscettibile di lasciarsi prendere dalla superstizione; vi ha letto che un vampiro che si nutrisce del sangue degli uomini, potrebbe vivere in una bara ripiena di terra maledetta; la terra del campo della morte nera; che era da quella terra che i vampiri ritraevano le loro forze ed altre frottole del genere. Evidentemente ciò a me non fa niente; ma comprendo che una donna ne sia assai impressionata.

Vi sono pure degli uomini che si lasciano prendere.

Il mio padrone, signor Ruok, crede, duro come ferro, all’esistenza dei vampiri ed io non posso mai parlargli di questo soggetto perché so che discuteremmo vivacemente.

Mio Dio vi è dunque del male a viver tranquilli? Vi è bisogno di fasciarsi in testa delle storie così penose?

23 febbraio 1838.

Cinque giorni che non ho potuto scrivere sul mio giornale, per tanto sono passati degli avvenimenti che meritano di essere notati.

Innanzi tutto Elena va meglio, ella ha ripreso un po’ d’allegria; mentre io sono a tracciare queste righe la sento ridere con sua sorella nel salottino dove chiacchierano tutte e due. Vado a fare un ben curioso viaggio. Non me lo aspettavo affatto ieri mattina, essere obbligato ad andarmene così presto.

Quando sono arrivato allo studio quel giorno il signor Ruok mi ha fatto dire che mi aspettava con impazienza.

Poiché io non sono molto puntuale avevo paura che fosse per farmi delle osservazioni, ma niente di tutto ciò, noi avemmo insieme questo dialogo:

«Buon giorno signor Hutter!».

«Buon giorno signor Ruok».

«Come sta la signora Hutter?».

«Molto meglio, vi ringrazio».

Si interessa sempre ai libri cabalistici?».

«No, signor Ruok, il suo medico glielo ha vietati».

Il signor Ruok passò la mano sul suo cranio calvo che due piccoli ciuffi di peli ornano al disopra delle orecchie, mi guardò con occhio malizioso e mi disse:

«Signor Hutter tutti i medici sono degli asini».

«Io stimo, al contrario, che il mio amico Bulwer ha agito benissimo nella circostanza, impedendo alla mia donna di riempirsi la testa con spaventosi racconti».

È che la signora Hutter non possiede a perfezione la scienza. Evidentemente il primo contatto dei misteri sono sempre penosi, ma appresso mio caro amico Hutter che soddisfazioni e che gioie…».

«Voi credete?».

«Ci si sente maestro del mondo».

«Ci si sente maestro del mondo qualche volta?».

«Qualche volta».

Egli continuò a guardarmi coi suoi occhi inquietanti come sono spesso, e bruscamente esclamò:

«Io conosco il maestro dei maestri. È un uomo formidabile… È il mio Dio… Per lui io andrei all’estremo del mondo, per lui io morrei, se bisognasse…Egli è…».

Ma si arrestò di colpo. Io rispettai il suo mutismo. Fu lui che riprese la parola.

«A proposito, signor Hutter» fece egli, «amate voi i viaggi?».

«Ciò è notorio».

«Intendo, amereste andare… Allontanarvi da casa vostra?».

«Se bisognasse, certo…».

«Avete bisogno di denaro?».

«Non sono ricco».

«Allora se voi non siete ricco e se non vi ripugna lasciare Wisborg per qualche tempo, io ho un affare da proporvi».

«Un affare?».

«Sì, è magnifico».

«Dite subito».

«Adagio, signor Hutter, è assai delicato ed io non so se voi siete uomo d’avventurarvi là ove io voglio mandarvi».

«Parlate signor Ruok, vedrò».

Egli mi fece sedere al suo fianco e mi spiegò:

«Conoscete il conte Horlok?».

«No signor Ruok».

«Ne siete sicuro?».

«Io ho un bel cercare, non mi ricordo di aver inteso pronunziare questo nome».

«Tanto meglio, è per tanto quello di un personaggio illustre. Egli abita nelle foreste di Transilvania e possiede uno dei più vasti domini di questo paese. Io sono in relazioni con lui».

«È la prima volta che vi sento parlare di questo conte».

«Forse».

«Ed è questo conte Horlok che bisognerebbe andare a vedere?».

«Sì».

«Perché?».

«Ebbene, ecco, egli desidererebbe acquistare una casa in rovina».

«Una casa in rovina, quale idea!».

«Egli fa ciò che gli piace, non è questa la questione, signor Hutter. Io dicevo dunque che egli desidererebbe acquistare una casa in rovina e questa casa è quella che si trova in faccia alla vostra».

«Voi dite quella per farmi un esempio!».

«Ciò vi sorprende?».

In effetto non avevo potuto nascondere la mia sorpresa poiché questa dimora mi è sempre parsa straordinaria ed ho sempre pensato e, credo di averlo notato, che bisognerebbe che un signore abitasse là per rimetterla in buono stato e per darvi delle feste splendide.

«Ciò mi sorprende sì e no. Non è da oggi che questa casa bizzarra mi sembrava degna di un originale, poiché non dubito ora che il vostro cliente, il conte Horlok sia un originale…».

«Senza dubbio, signor Hutter, il conte Horlok non è un uomo come tutti. Allora voi lo vedrete se volete accettare la missione che io voglio affidarvi».

«Da ora m’interessa».

Il signor Ruok si fregò le mani.

«Allora», egli mi disse, «voi partirete il più presto possibile per il paese dei fantasmi».

Sussultai…

«Volete ridere?».

Il signor Ruok non aveva questa intenzione e lo fecero ben vedere i suoi occhi lampeggianti e la sua voce gridò:

«Che vi è di ridicolo in ciò? E credete voi che mi permetta delle facezie quando si tratta del conte Horlok?».

«Vi domando perdono».

«Parlo seriamente, il luogo ove risiede il conte si chiama in tutta la regione paese dei fantasmi».

«Per quale ragione?».

«Io non ho bisogno di dirvelo, è un fatto.

Il suo castello che è uno dei più belli e più antichi della Transilvania ha presso i contadini dei dintorni reputazione di stranezza; il paese dei fantasmi è evidentemente poco frequentato dai viaggiatori, ma voi non andate là per vostro piacere, voi vi andate ve l’ho detto per fare un affare».

«Perché dovrei prendermela?».

«Ditemi dapprima, volete proprio andarvi?».

Ho riflettuto un secondo, non sono di quelli che si lasciano intimidire dalle proposte volontariamente misteriose del loro interlocutore.

Bisognava che mi arrischiassi nel paese dei fantasmi. Perché in quel paese piuttosto che in un altro? No è forse la stessa cosa?

«È inteso, accetto signor Ruok».

Egli parve soddisfatto:

«Quando voi sarete laggiù vedrete il conte, gli darete il piano della casa che io vi rimetto; gli farete firmare questa carta che l’impegna a pagare una somma, per la quale vi dibatterete».

«Quale somma debbo domandare?».

«50 mila corone».

«È caro!».

«Ciò non ha importanza signor Hutter. Il conte pagherà ciò che si vorrà. Io posso anche assicurarvi che se voi domanderete 5, 10, 15 mila corone di più egli ve le darà e voi li serberete per voi…».

«Oh! Oh!».

«Non ho ragione di dirvi che è un eccellente affare?».

«Sì».

«Dunque è inteso».

«Quando partite?».

«Quando volete che io parta?».

«Questa sera, se voi potete».

«No, è un po’ presto».

«È urgente…».

«Intendo bene signor Ruok, ma bisogna che io prevenga mia moglie, e faccia il mio bagaglio».

«Se vi sollecito, è per il vostro interesse».

«Quanti giorni bisognano per andare laggiù?».

«Due giorni di vettura fino al paese dei fantasmi, e io penso una mezza giornata di marcia dopo».

«Di modo che potrei essere di ritorno…».

«Fra otto giorni».

«Ebbene partirò dopodomani».

Il signor Ruok mi ha stretto la mano con effusione, mi ha ripetuto per due volte:

«Abbiate coraggio, viaggiatore del paese dei fantasmi».

Ma io credo che era per impressionarmi.

Mi affanno perché non ho detto niente a casa mia, ma non ho l’intenzione di raccontare ad Elena che io me ne vado al paese dei fantasmi. Ciò la spaventerebbe certamente, ed ella non ha bisogno di ciò.

25 febbraio: Albergo di Wele, 11 ore di sera.

Io non so ciò che scrivo; confesso che sono turbatissimo, ciò non è niente, avrò ritrovato il mio spirito tra un’ora quando avrò messo sulla carta tutto ciò che mi bolle nella testa.

Riprendiamo da principio altrimenti non mi ci ritroverei…

Ho lasciato Wisborg questa mattina alle una e mezza, faceva appena giorno.

Gli addii di Elena sono stati penosi ed io credo che ciò ha contribuito a scuoterle i nervi.

Le ho annunziato il mio viaggio ieri, le ho detto che partivo per un affare importantissimo, che si trattava della vendita della casa di faccia. Appena pronunziate queste parole è stata colta da un tremore, che ci son volute tutte le pene del mondo a far cessare.

Non le ho pertanto data alcuna indicazione sulla regione ove andavo, ma mi è sembrato che ella lo indovinasse poiché mi ha detto fra le altre frasi:

«Quali rischi tu correrai, quali cose strane vedrai…».

Ho avuto un bel dirle che ella esagerava, non ha voluto intendere nulla. Non ho per dir così, dormito tutta la notte; ella gettava dei sospiri da fender l’anima, poi si assopiva ma era per 7

risvegliarsi dieci minuti dopo con un grido; era molle di sudore; si precipitava nelle mie braccia e mi diceva con voce supplicante:

«Non andartene te ne prego… Non andartene».

Avevo consultato mio cognato la vigilia, ed egli mi aveva detto di non fare attenzione a queste fanciullaggini.

Poiché la mia povera Elena pareva il mattino essere ancora febbricitante ho fatto chiamare Bulwer di urgenza, erano le 6. Il povero amico mio è arrivato in fretta, ha esaminato la mia sposa, ed io gli ho domandato:

«Posso partire?».

«Ma sì…».

«Sarò assente otto giorni».

«Puoi restare più lungamente».

«Non avrà delle crisi per questa mia assenza?».

«Al contrario: credo che la tua partenza quand’ella l’avrà accettata le farà del bene, sarà più tranquilla, ma non lasciarla senza notizie».

«Sicuramente…».

Il mio bagaglio era pronto; la vettura di Werber e il vetturino erano nel cortile della casa alle sette. Ho abbracciato Elena, mi è parsa un po’ abbattuta, pertanto al momento, in cui sono montato in vettura ella non poteva staccarsi dalle mie braccia. Ho dovuto quasi farle violenza per liberarmi.

Questo addio mi ha profondamente commosso, tuttavia, non ho inquietudini; sua sorella e suo cognato veglieranno così bene come potrei farlo io stesso, e il mio caro Bulwer è sempre là, in caso di pericolo.

Ma infine credo di aver pianto anch’io.

Avevo dei buoni cavalli; ho lasciato Wisborg a tutto andare; la mattinata è passata presto, ma alla prima posta del pomeriggio le noie sono incominciate. Due cavalli si sono sferrati. Al primo contrafforte dei Carpazi, la strada era rude e piena di ciottoli, un cavallo si è messo a zoppicare. Più lontano è una ruota che ha dovuto essere rimessa, in breve, tutte le noie possibili mi sono toccate.

La notte cade presto in questa epoca, sono arrivato in un albergo, in questo piccolo villaggio di Wuls che pareva sospeso sopra l’abisso ed avevo l’intenzione di continuare la strada malgrado le tenebre, ma quando ho detto ciò al padrone egli mi ha risposto che il suo cocchiere non voleva attraversare la foresta la notte e che era preferibile che prendessi del riposo presso di lui.

Questo uomo aveva ragione poiché sono stanchissimo e certamente sarei arrivato in troppo cattivo stato presso il conte Horlok se mi fossi ostinato.

Ho dunque preso posto nella sala dell’albergo a tavola, davanti a qualche contadino e due taglialegna della foresta.

Tutti brava gente che mi hanno guardato con curiosità, sono restati silenziosi, hanno bevuto per un’ora circa e mi hanno lasciato solo in seguito, con l’albergatore, sua moglie e due vecchi servi. Naturalmente alla fine della cena, eccellente del resto che avevo presa, ci si è messo a chiacchierare:

«Conoscete il castello del conte Horlok?», ho domandato al padrone.

Quest’uomo mi è parso stravolto, e pertanto è assai robusto, largo di spalle, solido come una quercia al quale la morte stessa potrebbe presentarsi con la sua faccia senza fargli paura.

Ma il nome del conte Horlok ha non so qual potere magico, poiché questo gigante mi ha detto con voce sorda:

«È là che voi andate?».

«Sì!».

«Non è possibile».

«È pertanto la verità».

«Lo conoscete?».

«Il conte? No…».

«E voi osate?».

«Sì, perché?». 

«Perché nessuno ha mai veduto il conte Horlok».

«Per quale ragione?».

«Io non lo so, egli abita il paese dei fantasmi».

«Sì».

«E voi sapete signore ciò che è il paese dei fantasmi?».

«No. Un paese come un altro!».

Il mio uomo mi mise la mano sulla spalla famigliarmente.

«Voi siete giovane, signore».

«Non parlate a parole coperte, dite francamente ciò che pensate, io non ho paura».

«Ciò si vede».

«Ma infine chi è questo conte Horlok?».

«Io no so nemmeno se è un uomo…».

«Allora?».

«È ciò che è grave».

«Non è un orco».

«No, certo. È peggio che ciò».

«Che vi si è detto di lui?».

«Niente, non si pronunzia mai il suo nome…!».

La moglie ed i servi erano entrati in questo momento e prestavano orecchio alla nostra conversazione.

«Tacete…», fece il mio oste «non una parola di più, spaventereste questi disgraziati».

Tutti questi modi non mi piacevano affatto.

Perché tanto mistero per parlare del mio futuro cliente? Veramente questo paese dei fantasmi e questo castello provocano spavento, o mi si giuoca la commedia per impedirmi di andare più lontano? Io me lo domando.

«Siete ammogliato?» mi ha domandato l’albergatore.

«Sì».

«Ebbene, allora signore, non insistete».

«Ma ancora una volta, parlate chiaro».

«Io non saprei dirvi di più; le parole di un uomo che ha lunga esperienza, io conosco bene quel paese, riprendete domani la vettura e ritornate a Wisborg».

Allora sono andato in collera…, ho detto all’albergatore che egli si burlava di me, che io non ero un ragazzo e non tolleravo più a lungo le sue osservazioni.

Egli ha taciuto, mi ha lasciato solo, e alle dieci mi ha fatto condurre in camera da una cameriera. Quest’ultima mi ha accompagnato, tremando, teneva in mano una candela che vacillava a misura che salivamo; non mi ha neppure detto buona sera.

Eccomi dunque in camera, una camera normale come ne ho già viste tante, e sono sul punto di mettermi a letto.

Non avevo l’intenzione di scrivere una linea del mio giornale e volevo addormentarmi subito, poiché bisogna che sia alzato domani alle 6, quando il caso ha voluto che prendessi in mano un libro dissimulato dietro una cortina che serve di chiusura ad un telaio fatto di qualche assicello.

Mi metto a letto, apro il volume, e cosa leggo alla prima pagina? «Il libro del Vampiro».

Decisamente questo libro mi perseguita e mio malgrado, ritrovo la frase: «Il vampiro si nutre del sangue degli uomini e vive sulle bare ripiene di terra maledetta dei campi della morte nera».

No, decisamente non andrò più innanzi, voglio provare di trovar sonno, ma ciò è impossibile, non ho potuto più chiudere occhio.

Nell’oscurità mi sembrava sentissi scivolare dei passi.

Io! Io che non ho mai avuto paura, che non credo a niente di quello che si dice di questi spettri, di fantasmi, o di vampiri, io mi son messo a battere i denti.

Allora mi son alzato, ho riaccesa la candela, ho tirato dal mio bagagliaio il giornale che avevo portato ed ho scritto queste righe.

Ed ho fatto bene, avevo bisogno di confidarmi a questo quaderno, il mio solo amico del momento…

26 febbraio. Albergo di Rusbak, mezzogiorno.

Ho lasciato questa mattina l’albergo di Wuls ed eccomi istallato al sommo dei Carpazi in una specie di baracca di legno, ove l’oste mi ha servito la colazione. Egli mi ha domandato, qualche istante prima che io richiedessi la mia vettura, ove andassi. Questa volta gli ho detto:

«Al paese dei fantasmi, per poter discutere una volta di più sul conte Horlok».

«Al paese dei fantasmi? Ma, salvo il rispetto che vi devo, dico che siete pazzo».

Decisamente non ho scampo.

«Se voi volete che il cocchiere vi conduca fin là non gli dite niente. Indicategli la via di Husberg; egli vi condurrà almeno fino a quel luogo ma io dubito che in seguito egli voglia continuare».

«Ma infine che vogliono dire tutte queste reticenze? Che significa tutto questo spavento?».

L’oste ha levato le braccia al cielo.

«Oh! Ecco, non posso raccontarvi di più, ma poiché voi andrete laggiù lo vedrete voi stesso».

Egli aveva della canzonatura in queste proposte ed io non mi son creduto in dovere di insistere.

Arresto qui le mie confidenze, sento i sonagli della vettura.

Chiudo il mio quaderno e me ne vado.

Ma che è questo paese dei fantasmi? Che cosa è dunque il conte Horlok.

28 febbraio. Dal castello del conte Horlok.

Che viaggio!!!

Evidentemente non mi aspettavo ciò che mi è accaduto; credo che né l’albergatore di Rusbak né quello di Wels abbiano esagerato.

Non è certamente che io l’abbia a riguardo del conte Horlok avendo riflettuto sui sentimenti di spavento che mi hanno espresso i miei due osti confesso che ho passato due ore veramente angosciose e che è necessario il mio buon umore naturale per non essere questa mattina più abbattuto di quel che sia.

Mi sento stanchissimo, ma non voglio tardare più lungamente a fissare le mie impressioni per timore di dimenticare qualche dettaglio di questo inverosimile arrivo al castello del mio cliente. Quando ho lasciato l’albergo di Rusbak avevo due postiglioni per condurmi.

Ho fatto tre ore di strada in un cammino assolutamente dirupato, delle nuvole basse ci circondavano e dovemmo mettere piede a terra ad un certo momento poiché la nebbia ci sbarrava la strada.

Faceva molto freddo, ero avvolto nel mio mantello e malgrado tutte le mie precauzioni, tremavo.

La notte cadeva, quando, alla svolta del cammino i miei due cocchieri si sono arrestati, l’uno d’essi si è avvicinato alla mia vettura, ho abbassato il vetro della portiera.

«Che vi è?» ho domandato.

«Signore con tutto il nostro dispiacere…, non possiamo andare più lontano».

«Vi è qualche cosa di rotto?».

«No! Signore».

«Allora? Perché mi abbandonate?».

L’uomo era imbarazzato; pertanto, gettando uno sguardo circolare ha detto ancora:

«Questo paese non offre nulla che valga la pena di vedere».

Ho finto una grande collera.

«Da quando» ho detto «i cocchieri si permettono di giudicare dell’aspetto di un paese e far una condizione della loro condotta, l’apparenza più o meno ridente di una regione?».

Il postiglione ha alzato le spalle.

«Non si tratta di ciò, signore. Noi siamo ai vostri ordini, ma tuttavia, e per niente al mondo, noi vorremmo valicare il limite che ci traccia questa linea d’alberi all’orizzonte…».

«Volete dirmi il perché? E senza reticenza!».

«Perché al di là di questi alberi, signore, c’è il paese dei fantasmi…».

«Ebbene, è precisamente dove vado. Io mi reco al castello del conte Horlok».

«Allora è ben più grave, giammai noi andremo in quei paraggi».

Ho avuto un bel proporre loro delle somme considerevoli e vuotare per così dire la mia borsa davanti a loro; i due uomini si sono rifiutati di accompagnarmi ed io ho dovuto scendere dalla vettura col mio bagaglio alla mano.

«Un avviso», mi ha mormorato uno dei cocchieri al momento in cui stavo per lasciarli, «non andate là, tornate con noi è tempo ancora…».

Non ho risposto, ma ho visto bene che quella gente era spaventata della mia temerità; essi non hanno perduto tempo a seguirmi e a prolungare gli addii. Appena lontano dal loro veicolo circa cento metri, fatto girar briglia ai loro cavalli, se ne son fuggiti a tutto andare come se qualche bestia mostruosa li avesse inseguiti.

Ho avuto un bel guardare intorno a me, non ho trovato alcuna ragione d’angoscia. Era piuttosto all’interno di me stesso che sentivo qualche ansietà, e ciò dal fatto dei consigli che tutto il mondo mi aveva dato e dall’attitudine delle persone alle quali avevo parlato del paese dei fantasmi.

Evidentemente, vi erano delle paludi sulle quali correvano delle nebbie che formavano come dei pacchetti d’ovatta qua e là.

In mezzo alle alte erbe si vedevano degli alberi dalle forme bizzarre che si sarebbero potuti rendere da lontano per strani custodi del vasto dominio, ma infine conoscevo tutta questa fantasmagoria e non sono più in età in cui si può essere commossi.

Ho affrettato il passo poiché non volevo arrivare troppo tardi al castello; rischiavo di perdermi in istrada e malgrado il mio sangue freddo non amavo passare la notte in quelle tenebre nebbiose.

Camminavo da dieci minuti circa quando ho scorto davanti, serpeggiando da un lato all’altro del sentiero una specie di piccola vettura nera trascinata da cavalli coperti da drappi neri e condotti da un uomo, di cui non vedevo il viso, rivestito lui stesso da un mantello nero.

Come m’affrettavo a lasciar passare questo tetro equipaggio, i cavalli si sono arrestati a qualche metro da me; il conduttore è disceso e senza nulla dire mi ha aperto la porta della sua carrozza.

Ho indovinato che era il conte Horlok che mandava al mio incontro un servitore per condurmi al castello.

Certo avrei preferito che il veicolo fosse un po’ più brillante e la carrozza meno funebre, ma infine non avevo la scelta e mi son seduto su dei cuscini durissimi, disposto a lasciarmi condurre secondo il capriccio e la fantasia del mio nuovo cocchiere. Fatto un giro su noi stessi siam partiti con una lestezza inverosimile nel cammino più irregolare che io avessi mai incontrato sulla strada. Mi pareva che rischiassimo di precipitare ad ogni istante, che dovessimo essere lanciati in non so quale abisso poiché il cocchiere non aveva nessuna idea della linea diritta e della prudenza.

Ma quando glie ne ho fatto osservazione egli non si è degnato di rispondermi e così io non ho insistito più.

Di tanto in tanto mi affacciavo alla portiera e così ho visto il famoso castello del conte Horlok o piuttosto l’ho indovinato, per la massa tenebrosa in un velo di nebbia; il conduttore si è arrestato davanti ad una specie di ponte levatoio, ha aperto la portiera, ha preso il mio bagaglio.

Sceso, ho aspettato che il ponte levatoio fosse abbassato.

Ciò che non ha tardato. Ai miei occhi sono apparsi un seguito di canali lunghi, di tunnel che ho traversato lentamente, poi siccome non vedevo più chiaro, mi son permesso di chiamare:

«Olà!!! Dove sono?».

Nessuno mi rispose; una luce vacillante mi si è avvicinata, una forma lunga e magra mi ha abbordato; io non ho visto il viso ma ho inteso una voce che mi ha detto:

«Niente rumore, se vi piace, e seguitemi».

Ho obbedito.

Valicato la soglia d’una porta mi son trovato in una stanza di proporzioni gigantesche, rischiarata da una mezza dozzina di fiaccole; su una tavola, un pasto era servito, due coperti erano messi.

Mi son rigirato per vedere chi fosse il mio ospite, e non ho potuto astenermi dall’indietreggiare… Poiché a prima vista mi sono spaventato.

Avevo davanti a me un corpo magro sormontato da una testa quasi di mostro, un viso d’un pallore esangue, un cranio completamente calvo come se la pelle fosse sparita e non restassero che le ossa.

Questo essere fantastico era vestito di un soprabito che gli cadeva al disopra delle ginocchia e dalle maniche del suo abito uscivano delle mani d’una estrema magrezza, dalle dita affilate come dei punteruoli e dalle unghie lunghe quanto le dita.

Io non avevo mai visto nulla di simile.

Ho balbettato una frase qualunque, mi sono appoggiato al muro per non cadere, lo straordinario individuo ha preso la parola.

«Voi siete il signor Giovanni Hutter».

«Sì, signore».

«Io sono il conte Horlok».

«Onoratissimo, signor conte».

«Volete mettervi a tavola?».

«Sì, signore».

«Allora tutto è pronto».

Egli non mi ha detto di più, mi ha indicato col gesto la sedia che mi aspettava, mi son seduto in una poltrona e senza altre spiegazioni mi ha messo del vino in un bicchiere e del pasticcio in un piatto.

Non una parola, non un gesto inutile, nemmeno uno sguardo dei suoi occhi terrificanti che avessero potuto farmi supporre che quest’uomo non fosse come gli altri.

Il pranzo era succulento. Io non ricordo di aver mai bevuto vino del Reno che fosse migliore.

Arrivati alla carne fredda mi ha versato un Borgogna che mi ha scaldato il cuore. Prima della frutta ho gustato un vino zuccherato delle isole della Grecia più generoso di quel che si possa immaginare; quanto allo champagne di cui ho riempito la mia coppa dopo il pasto era veramente un bouquet di rose.

Egli non aveva servitori intorno a lui.

Noi prendevamo le vivande che erano alla nostra portata di mano…

Io non ho pronunziato una frase, il conte Horlok non ha aperto bocca.

Il conte ha spento tre lumiere, si è restati tutti e due nell’immenso spazio a metà annegato nell’ombra: ci siamo avvicinati all’alto camino dove fiammeggiavano tronchi d’alberi e da parte mia aspettavo che il mio ospite mi rivolgesse la parola. Non mi pareva vicino a farlo; egli mi guardava dalla testa ai piedi in modo così ostinato che io ne ero infastidito.

Mi dettagliava come un mercante avrebbe fatto d’un animale che volesse comperare; e non esprimeva la sua opinione che con qualche sordo grugnito.

Ciò è durato ben dieci minuti.

Tutto ad un tratto, egli si è avanzato verso di me, le sue unghie puntate come delle frecce mi toccarono lievemente la guancia.

Ho avuto paura.

Poi bruscamente mi ha domandato:

«Vostra moglie ha un grazioso collo?».

Non mi aspettavo questa domanda.

«Senza dubbio» gli ho detto.

Il suono della sua voce era bizzarro, era una specie di stridore come ne fanno le porte dei cardini arrugginiti quando si spingono dopo lunghi anni durante i quali restano chiusi.

«Ha ella il collo lungo o corto?».

«Lungo, credo».

«Non avete ritratti di lei?».

Son stato sul punto di dirgli di no poiché questo interrogatorio mi pareva ridicolo dato che non ero venuto al paese dei fantasmi per discutere delle grazie esteriori di Elena.

Ma infine per tema di contrariare un cliente, come diceva il signor Ruok, ho risposto che in effetto aveva sempre con me una miniatura.

L’ho cacciata dal mio portafoglio e mostrata al mio conte.

«Che graziosa moglie avete, signor Hutter!».

«Mi lusingate signor conte».

«E che collo!».

«Sì… sì…».

«Ed è bianco, non è vero?».

«Mio Dio, sì».

«Lo si direbbe un giglio…, un giglio di cui hanno bevuto il sangue».

«Il sangue dei gigli? Io non so ciò che volete dire».

«Voi non sapete che i fiori hanno del sangue?».

«Sì, so che i fiori hanno anch’essi una specie di circolazione ma in fine…».

Il conte teneva sempre fra le mani la miniatura e fissava sul ritratto degli sguardi di compiacenza che mi esasperavano.

Stesi la mano per riprendere il mio bene.

«Lasciate signor Hutter; voi non volete?».

«Sì, ma…».

Egli ha girato la testa verso di me.

«Sareste geloso di un vecchio?».

«No signor conte».

«Certo vi fu un tempo in cui forse avreste potuto aver ragione di diffidare delle mie imprese, ma oggi l’amore mi sembrerebbe una cosa di sì poca importanza…».

Io non volevo incitarlo alle confidenze e i suoi propositi…

«Il signor Ruok» gli ho detto «mi ha mandato da voi…».

«Ebbene, ebbene parleremo di ciò più tardi».

«È che più tardi…».

«Io voglio dire domani o posdomani, voi non avete fretta che io sappia».

«Pressato? No, ma infine vorrei essere rientrato a casa mia il più presto possibile».

«Non voglio trattenervi, ma presentemente lasciatemi fare più ampia conoscenza con voi e interessarmi un poco al vostro genere di vita».

«Mi fate troppo onore, signor conte».

«Vostra moglie è giovane?».

«Ella ha ventiquattro anni».

«Ha un bel portamento?».

«Secondo».

«È molto che siete sposato?».

«Due anni».

«Amate vostra moglie?».

«Sì, molto!».

«Voi l’avete amata per il collo?».

«Mio Dio, no».

«Non fate giammai attenzione al collo delle persone?».

Egli cominciava ad irritarmi con queste sue allusioni perpetue di colli di cui io non mi curavo quasi.

«Non vi prendo particolare cura» ho risposto.

«Avete torto. È ammirevole un bel collo; esso ha una dolcezza al tocco che non è comparabile che a quello delle corolle dei fiori, e ciò permette anche di veder passare dal collo al cervello quelle vene fini così vicine alle orecchie, il sangue, voi m’intendete?».

«V’intendo, signor conte».

«E ciò non vi esalta?».

«Niente affatto».

«L’idea del sangue, l’odore del sangue, la grandezza del sangue, che porta la vita, non vi dice niente?».

«No, confesso».

«Voi siete giovane in effetto, signor Giovanni Hutter».

Egli si è levato ed io l’ho visto avanzare verso di me, le mani tese.

Ho sentito sul mio collo le sue dita agghiacciate, al di sopra delle mie orecchie le sue unghie taglienti.

«Come è dolce» mi ha detto «e che piacere io ho a riscaldare le mie vecchie dita su questa pelle tiepida».

Io non dividevo il suo entusiasmo.

Questo spaventoso vecchio non dubitava senza dubbio che egli mi ripugnava e, poiché io non ho il carattere di lasciarmi toccare facilmente, mi sono levato a mia volta e messo sulla difesa dietro la poltrona.

Il conte Horlok è parso colpito dalla mia indifferenza:

«Che vi è pertanto di più confortante per un vecchio che vedere e toccare la giovinezza! Pare che al suo contatto gli anni dileguino come la neve e il solo pensiero che un sangue giovane circola nelle vostre arterie e nelle vostre vene basta a ringiovanirmi».

Egli ha ricominciato ad avvicinarsi a me, le mani tese.

Non ho potuto impedirmi di protestare.

«Vi prego, signor conte, cessate di prendermi per un manichino e di credere che io sia venuto nel vostro castello per suscitare il vostro lirismo. Io vengo per vendere una proprietà di cui avete bisogno, m’ha detto il signor Ruok, non parliamo d’altre cose».

Egli non se n’è preoccupato, ha sorriso anche, di quale spaventevole sorriso, e senza dirmi altro se n’è andato.

È scomparso, si è tuffato in non so quale colatoio. Sono restato solo nella sala, non sapevo dove fosse la mia camera, cercavo invano un campanello, chiamavo invano un servitore. Silenzio assoluto.

Nessuno si è presentato; ero abbandonato completamente e il castello pareva non avesse altri abitanti che questo stravagante Horlok.

Dove andare poiché non conoscevo affatto la dimora? Il meglio era di passare la mia notte nella buona poltrona ove mi ero seduto presso il camino, è ciò che ho fatto.

Ma, prima di poter chiudere occhio, mi son messo a riflettere su tutto ciò ch’è passato e sulle riflessioni che ho inteso da qualche ora.

Non mi sono indugiato ad inquietarmi per l’aspetto del castello, né della spaventosa figura del suo proprietario, ma non ho potuto allontanare dal mio spirito le domande ch’egli m’ha fatto sul collo di Elena, né l’insistenza ch’egli ha messo a parlarmi del sangue. Il sangue dei fiori…

Il sangue dei fiori, non è Elena che mi ha già parlato, fatto allusione a ciò quando le ho portato le rose bianche?

Questo ravvicinamento si mischiava alla mia lettura, intorno alle abitudini dei vampiri, alle osservazioni che mi aveva fatto il mio amico Bulwer qualche giorno prima della mia partenza.

Risultato: degli incubi tutta la notte.

Mi sembrava che qualcuno s’avvicinasse a me, si chinasse su di me, bevesse il mio sangue al collo e questa mattina prima di scrivere queste righe mi sono accorto d’essere stato semplicemente punto da una zanzara un po’ al disopra del collo, è stata senza dubbio questa bestiola a provocare i miei cattivi sogni.

Sono le undici, non ho ancora veduto Horlok in tutta la mattina, non so quando avrò l’occasione di parlargli della vendita della casa in rovina, vado a passeggiare un momento nel parco, e se ho il tempo, questa sera scriverò ad Elena e continuerò le mie osservazioni su questo giornale.

28 febbraio 1838; 7 ore di sera.

Dal castello del conte Horlok, al paese di fantasmi.

Ho potuto parlare anche al conte del nostro affare. Egli ne è in effetto appassionatamente interessato. Un’ora prima della colazione, è venuto a cercarmi lui stesso nella sala ove avevo passato la notte e mi ha condotto nella sua camera al primo piano.

Bellissimo luogo che dà su di un parco incolto, e vi si scorgono e cime nevose dei Carpazi.

A mezzogiorno preciso, il conte è venuto da me a prendermi per il pasto che si è fatto nelle stesse condizioni di ieri sera. Horlok non ha detto una parola e mi ha fatto mangiare e bere copiosamente.

«Bisogna», mi ha detto al momento dello champagne, «ben nutrirsi; ciò dà sangue».

Poi gli ho domandato:

«Siete già venuto a Wisborg?».

«Sì, è qualche anno».

«Conoscete dunque la casa che volete comperare?».

«Sì, vagamente».

«Sapete che in cattivissimo stato?».

«Senza dubbio, ma ciò non ha alcuna importanza».

«Desiderate, signor conte, farne una casa d’abitazione?».

«Io non so».

«Desiderate farla demolire?».

«Forse».

«In tutti i casi io sono incaricato dal signor Ruok di dirvi ch’essa vale sessanta mila corone».

M’ero deciso ad aumentare il prezzo che mi aveva fissato il mio padrone, poiché c’era del benefizio per me.

Il conte non ha fatta alcuna obbiezione.

«Bene» m’ha detto, «mettiamo sessanta mila…».

Ho cercato nella mia valigia il piano e l’atto di vendita. Egli ha firmato l’atto, anche prima di vederne il piano.

«Ma, signore fate attenzione», gli ho detto, preso tutta d’un tratto da scrupoli; «che questa casa è inabitabile pel momento…».

«Per tutt’altri che per me, forse…».

«Come, voi avete l’intenzione di venire a Wisborg?».

«Non lo so ancora…».

«In questo caso, voi mi vedrete spesso poiché la mia casa è situata in faccia a questa dimora…».

«Sì, lo so…».

«Come lo sapete, signor conte?».

«Mi si è detto…».

Ero un po’ stupefatto di questa risposta poiché ignoravo assolutamente che il mio ospite fosse al corrente del luogo ove abitavo.

«Si vedono le vostre finestre dalle mie?» ha domandato.

«Sì, non v’è che il fiume che ci separa».

«Così io potrò vedere la signora Hutter?».

«Mio Dio, signor conte, se ciò vi fa piacere».

«Sicuramente, ella ha un così grazioso collo».

Ciò diventa una mania. Egli non può lasciare tranquillo il collo di mia moglie.

«Wisborg è una bella città», mi ha detto ancora. «Vi ho molto bighellonato nella mia gioventù. È là che ho conosciuto il signor Ruok che è un grande amico».

Io non ho potuto impedirmi di dire che il mio padrone, in effetto, pareva avere una grande venerazione per il conte…

«Lo so», ha detto egli; «lo so…».

Poi ha preso congedo da me. Mi ha rimesso l’atto di vendita ch’egli aveva paragrafato e al momento di lasciarmi, avendomi guadato, come aveva fatto la vigilia, dalla testa ai piedi: 

«Avete una puntura al collo, signor Giovanni Hutter», ha esclamato.

«Sì, signor conte…, sono delle zanzare senza dubbio, ma ciò che mi meraviglia è ch’esse non pizzicano… le vostre zanzare sono inoffensive?».

Il conte ha avuto un sorriso strano:

«Sì, tutt’affatto inoffensive, ma esse amano molto la gente che si nutre bene. A questo proposito, se voi avete fame nel corso del pomeriggio, signor Hutter, non ve ne angustiate, siete qui a casa vostra. Prendete ciò che vi piacerà su questa tavola e abbiate buon appetito.

«Vi ringrazio signor conte».

«Bisogna mangiare, signor Hutter, per avere del sangue».

«Ma sì», ho detto come per sbarazzarmi di questo interlocutore che mon mi consentiva di partire.

«Del sangue, signor Hutter, del sangue…, ecco l’importante, ecco ciò che vi fa vivere, ciò che fa vivere vecchissimi; molto vecchi… Noi saremmo immortali se avessimo sempre del sangue».

Egli ha girato il dorso e se n’è fuggito.

Non mi sono rimesso a tavola nel pomeriggio, sono stato a passeggiare nel parco e a sognare a mio agio.

Nulla mi disturba. È il parco della bella dormiente nel bosco.

Appena si vede passare di tanto in tanto il volo d’un uccello, ma non vi è nessun giardiniere, poiché tutti i viali sono lasciati in abbandono e le erbe crescono come vogliono.

Quale silenzio e quale riposo, ma anche quale malinconia!

Comprendo come il conte Horlok abbia un aspetto così funebre, le terre del suo castello sono nere e tutta quella immensa proprietà pare un gran cimitero. Di qua e di là vi si incontrano delle pietre sepolcrali e si crederebbe di passeggiare in una vasta necropoli.

Io non so se il conte mi lascerà partire questa sera, ma me lo auguro, poiché comincio ad esser stanco, sento una stanchezza generale, una specie di spossatezza di cui non mi spiego la causa.

Ho tuttavia assai ben dormito questa notte e non ho avuto alcun lavoro da ieri che possa avermi spezzato i nervi a questo punto.

Forse è l’atmosfera di questo paese dei fantasmi che non vale niente. Ho scritto a mia moglie; e ciò mi ha fatto bene…

Sì, decisamente vado ad occuparmi di partire questa sera, ma chi vorrà condurmi fino al confine di questo paese? Me lo domando. D’altra parte, non voglio avventurarmi solo a piedi su queste tetre strade.

Sarà dunque più prudente non partire che domani.

Andiamo a vedere.

1 marzo 1838. dal castello del conte Horlok, al paese dei fantasmi.

Nel pomeriggio.

Non partirò ancora oggi, non è che la volontà mi sia mancata, ma il conte m’ha detto che la sua vettura e i suoi cavalli non erano pronti… Che il suo cocchiere aveva avuto un incidente, e che bisognava bene che io contassi di restare al castello due giorni ancora.

Ne sono straziato, comincio ad essere nervoso.

Sono ancora stato pizzicato dalle zanzare questa notte in modo crudele. Quasi allo stesso posto di ieri, ma più profondamente. Ora ho un bel lasciare la finestra aperta, accendere una bugia quando cade la notte, non vedo alcuna zanzara nella camera.

Questo non deve essere un insetto come i nostri.

Ad ogni modo sono spossato, ho tutte le membra come se fossi stato battuto e di più mi sento la febbre.

Questa mattina, il conte non mi ha disturbato; non l’ho veduto che all’ora del pranzo. Questa volta ancora egli ha insistito perché mangiassi ed io non avevo nessun appetito.

Abbiamo avuto una strana conversazione. La riporto perché fissandola sulla carta potrò comprendere forse il senso esatto.

«Siete superstizioso?» mi ha domandato.

«Affatto, signor conte».

«Credete ai fantasmi?».

«No».

«E agli spiriti?».

«Non di più».

«Non credete neppure agli spettri?».

«Naturalmente no».

«Allora dovete passare delle notti magnifiche».

«Generalmente dormo bene».

«Anche qui?».

«Ma sì, signor conte».

«Avete della fortuna».

«Perché? Voi non dormite, voi?».

«Sì ma io sono abituato a tutti i visitatori della notte».

«Quali visitatori?».

«Ai fantasmi».

«Vengono dei fantasmi?».

«Sicuramente».

«Voi ne avete veduti?».

«Tutte le notti, da qualche anno».

«Ma quali fantasmi?».

«Quelli che abitano questo castello».

«Vostri parenti, gli Horlok».

«Già, tutti i membri della famiglia di Mosferatu Horlok».

«I Mosferatu?».

«Sì».

«Mi sembra che io conosca questo nome…».

Egli fece un gesto della mano.

«È possibile, sempre essi vengono a tenermi compagnia quando cade la notte e teniamo qualche volta dei consigli di famiglia che non mancano d’interesse poiché vi sento raccontare la storia della mia razza da dei secoli».

Io non volli contraddire il mio ospite.

«Che età avete?» mi domandò.

«Trent’anni».

«Che età mi date?».

Per non dispiacere al conte gli risposi:

«Settant’anni».

Egli si drizzò di balzo e danzò per così dire sotto i miei occhi un passo grottesco che mi avrebbe fatto ridere, se non avessi avuto l’impressione di vedere danzare uno scheletro della danza macabra.

«Settant’anni… Per la forza, signor Hutter; ho vent’anni, non ne ho l’aria ma se mi piacesse di strangolarvi sull’istante, vedrete che pugno posseggo».

E ciò dicendo avanzò verso di me e volle ricominciare lo scherzetto della prima sera avvicinando le sue immense unghie alla mia gola.

«No, ve ne prego…» feci con fermezza.

«Oh!... non ho l’intenzione di farvi del male. Voi mi siete troppo prezioso, signor Hutter… lo sapete che mi siete prezioso?».

«Ne sono lusingato, ma l’ignoravo».

«Se potessi trattenervi tre mesi presso di me, allora avrei cinque anni».

Il senso delle sue parole comiche mi tolsero completamente ogni dominio.

«Voi non mi avete ancora detto la vostra età, signor conte».

«Avrei cinque anni se voi restate là…».

Abbozzai un sorriso per cortesia.

«Sì, ma poiché io me ne vado…».

«Guardatemi, signor Hutter, io non sono bello, ma voi confesserete ch’io non sono mal conservato…».

«Certo…».

«Ebbene…! Io ho centoquarantatre anni».

«Centoquarantatre anni? Voi scherzate».

«Per nulla al mondo, sono nato nel 1685».

«È impossibile».

Avevo la vera prova che il mio uomo era pazzo.

Per non contraddirlo, obbiettai timidamente:

«Voi siete un fenomeno».

«No. Io so il segreto della lunga vita».

«Ah ah! Ecco ciò che è interessante».

«Ciò vi appassiona?».

«Capperi, signor conte, un segreto pel quale gli uomini darebbero tutti i loro beni… e voi fareste rapidamente fortuna se vi piacesse di divulgarlo».

«La fortuna. Pfft… che cosa è ciò?».

«Un po’ di fortuna».

«Pregiudizio… la felicità non è là, signor Hutter, è nella realizzazione delle ambizioni più segrete dell’uomo e nel dominio del mondo. Io sono un maestro del mondo».

Lo salutai non senza ironia:

«Signor conte, io sono il vostro umile servitore…».

«Ciò vi diverte… vedo bene che voi non mi credete affatto…».

«Io vi domando perdono».

«È pertanto vero… Colui che possiede il segreto della vita è il Maestro del mondo».

«In effetto…».

Avevo detto ciò senza convinzione.

Egli riprese, più imponente e dottorale che mai:

«Io sono colui che non muore, io sono colui che vive degli altri, io sono colui che stabilisce sull’universo il dominio delle intelligenze sottili e delle idee soprannaturali… Io sono l’incarnazione d’un…».

Egli s’arrestò improvvisamente.

«D’un che?...».

«Io ho detto assai, non potreste comprendermi».

«Non sono così sciocco come ho l’aria».

«Non è questo che voglio dire, signor Hutter, ma voi siete un uomo fatto per i piaceri materiali, vedo ciò al vostro buon aspetto e me ne rallegro… Bisogna della gente come voi dal buon aspetto e dal sangue generoso, un bel sangue chiaro che cola sotto la pelle come un’acqua di sorgente sotto l’erba primaverile… Bisogna della gente come voi, priva di salute, perché i puri spiriti possono vivere essi al di fuori di tutte queste cure grossolane… Fatevi del sangue signor Hutter, fatevi del sangue…».

Egli drizzò le sue lunghe braccia al di sopra della mia testa, le agitò come delle grandi ali, ed io non le rividi più.

A misura che scrivo la mia stanchezza è più grande, mi arresto qui.

Che fa la mia povera Elena in questo tempo?

Ah! Se sapesse ove sono! In quale stato sarà ella?

2 marzo, 8 ore del mattino. Dal castello del conte Horlok, al paese dei fantasmi.

È spaventoso!... Io ho del sangue sulle mie mani… Vi è ancora del sangue sulle mie coperte!...

La cosa più spaventosa. 

Mosferatu…

Elena… Elena…

Mosferatu il Vampiro…

Io scrivo queste parole nella pazzia, ma bisogna che scriva…

Ah! Se potessi dire di seguito ciò che ho visto!

Ah! Se potessi mettere su questa carta la visione spaventosa di questa notte!

Il demonio, il demonio dalle mani adunche… è entrato per questa porta…

Si è precipitato su di me.. m’ha appoggiato come una ventosa la sua bocca sulla mia gola ed io sentivo fuggire il sangue dal mio corpo…

La morte scivolare in me…

Al soccorso al soccorso…

Non so più ciò che scrivo.

Ho la febbre…

La mia testa scoppia ed io sono così debole… così debole…

Purché il conte non ritorni.

Purché Mosferatu…

Ma è lui Mosferatu, il conte Horlok è lui, il vampiro… sì, è lui che ha bevuto il mio sangue…

Non ne posso più…

Bisogna che vada…

Elena… Elena… al soccorso…

A questo punto il manoscritto diviene assolutamente illeggibile.

Giovanni Hutter ha voluto senza dubbio in seguito apportarvi dei ritocchi, ma non ha potuto venire a capo di questa opera; poiché vi sono due pagine coperte di cancellature, ciò che ci lascia pensare che egli ha ripreso il suo quaderno quando provava i primi eccessi di pazzia.

Sulla prima pagina riferentesi alla narrazione dei fatti occorsigli il 4 marzo vi sono ancora, mi sembra, delle tracce di sangue. Le ultime parole sono tracciate da una mano che tremava talmente che sembrava un grafico dei barometri registratori che segnalano un terremoto di terra.

Abbiamo trovato aggiunto al manoscritto questa lettera che pubblichiamo poiché ci sembra di grandissimo interesse per il racconto.

Al signor Ruok, mediatore a Wisborg.

Signore,

Noi alloggiamo in questo momento nel nostro albergo di Rusbak, uno dei vostri impiegati, il signor Giovanni Hutter che è arrivato qui nella notte del 4 marzo in un tale stato di debolezza che abbiamo dovuto metterlo a letto immediatamente e chiamare il medico l’indomani mattina.

Abbiamo trovato il vostro indirizzo nelle sue carte e non abbiamo voluto avvertire sua moglie per non spaventarla.

Abbiamo avuto il signor Giovanni Hutter come cliente alla fine del mese di febbraio, per la colazione.

L’abbiamo distolto di andare là dove andava cioè a dire al paese dei fantasmi poiché sappiamo che nessun uomo torna vivo, né sano di spirito.

Malgrado le nostre osservazioni il signor Hutter si è ostinato e si è fatto condurre in vettura fino al momento in cui i cocchieri hanno rifiutato di andare più lontano.

Che gli è accaduto in seguito? Noi non ne sappiamo niente essendo il signor Hutter incapace di darcene un ragguaglio.

Egli ha l’aspetto di un demente, pronunzia delle parole incoerenti e senza seguito.

Abbiamo creduto bene di prevenirvi perché voi non siate inquieto almeno in ciò che concerne il luogo ove egli è curato poiché della sua salute e della sua ragione il dottore stesso non può rispondere. 19

Non si pensa che egli possa essere rimesso completamente prima di una quindicina di giorni.

Il signor Hutter aveva su di lui 60.000 corone in biglietti e 177 corone in pezzi d’oro e d’argento…

Ciò al fine che possiate testimoniare, nel caso in cui vi fossero contestazioni in seguito con la famiglia.

Vale sempre meglio prendere le proprie precauzioni.

Io sono, signore, vostro umilissimo servitore.

Signor Hubrur – Albergatore a Husbak.

Qui il manoscritto riprende colla data del 15 marzo del 1858.

15 marzo 1838. Albergo di Rusbak.

Ove sono? Non posso levarmi due minuti e prendere il mio quaderno e questa matita senza che mi si senta.

Ove sono? Il conte Horlok è sempre là?

Quanto tempo è che sono in questa camera?

Ho guardato il mio collo nello specchio; è cicatrizzato, ma sono così sfinito.

Ho rischiato di cadere mettendo i piedi a terra.

Sento dei passi sopra di me.

È lui che cammina? È Mosferatu che attende la mia morte?

Vuole al contrario nutrirmi come egli diceva, perché io abbia del sangue ancora del sangue? Io non so.

Non posso andare oltre, mi corico, avvenga quello che deve avvenire.

Wisborg, 12 aprile 1838.

Vado meglio, sento che fra qualche giorno starò affatto bene.

Ho abbracciato la mia cara Elena, ella è pallidissima e assai più nervosa. Ma che importa!

Ella è là, io sono là, tutti quelli che amo sono intorno a me.

Lo spaventoso incubo è terminato.

Avrò il coraggio di raccontarlo? Proviamo.

Era durante la notte che seguiva la bizzarra conversazione che ho riportata col conte Horlok.

Mi ero messo a letto verso le 23 e quel discorso senza dubbio mi teneva desto poiché, malgrado tutti i miei sforzi, non potevo riuscire ad addormentarmi.

Nello strano silenzio del castello il minimo rumore risuonava come prolungato da venti eco.

Mezzanotte suonò! Allora…

Allora, io vidi entrare il conte, più pallido che mai, più lungo, più cadaverico che non l’avessi mai visto; avanzò verso la mia gola, come aveva già fatto parecchie volte, le sue mani minaccianti, mi serrò il collo nelle sue unghie taglienti; e mi soffocò.

Io perdetti ogni nozione, non potevo gridare, ma ciò non era niente.

Ciò che mise il colmo all’orrore è che Horlok si chinò su di me, applicò le sue labbra alle piaghe che aprivano le sue unghie e bevve il mio sangue. Io non so più…

Io non so più ciò che avvenne fino al giorno, sento solamente la sua voce stridente.

«Io sono Mosferatu, il Vampiro».

Volevo fuggire…

Ma ero talmente spossato! Non so come trovai la forza di mettere i miei vestiti, di abbigliarmi, di portar via il mio bagaglio.

Come ebbi la presenza di spirito di non dimenticare il mio quaderno? Come feci a guadagnare il parco?

L’aria del mattino mi ridonò le forze, non vi era nessuno per impedirmi di uscire ed ebbi anche la curiosità di mettermi alla ricerca di Mosferatu. 20

Oh! Sì… volevo avere la mia vendetta, assolvere il mio odio, strangolare a mia volta questo strangolatore.

Invano percorsi tutte le stanze del castello, non vidi niente. Né lui, né un servitore.

Ma passando davanti ad una cappella in rovina, credetti vedere che là, sulle lastre sepolcrali egli era coricato in un feretro.

No, no, ciò non è un sogno…

Mosferatu, il Vampiro, il conte Horlok era disteso fra le assicelle, come un morto, ed egli non era morto.

Egli si muoveva.

Quando intese il mio passo fece uno sforzo per levarsi.

Era intriso del mio sangue. Io tremavo, mi misi a battere i denti e, dimenticando la mia vendetta, fuggii…

Corsi, corsi… diritto avanti a me.

Non ricordo più niente, né della strada che presi né del tempo che misi.

Non so se arrivai a Rusbak nella notte o all’alba; so solamente che per notti e notti, che per giorni e giorni, ho avuto davanti agli occhi il cranio denudato d’Horlok e sul corpo la sensazione che le sue unghie mi strappassero come degli uncini. Nulla può dare un’idea di queste sofferenze, di queste torture fisiche e morali.

Bisogna avere la costituzione robusta che io ho, per aver potuto resistere a quei tormenti della carne e dell’anima.

Io ringrazio Dio d’avermi strappato al demonio, poiché questo Mosferatu è il demonio.

Sono stato a vedere Ruok; egli era al corrente di ciò che mi era accaduto; mi ha detto che da Russbak gli hanno dato mie nuove.

Egli ne aveva fatte portare a mia moglie e le aveva detto che non inquietasse se non riceveva mie lettere, perché ero in un luogo ove non passava mai un corriere.

Aveva promesso di tenerla al corrente dello stato di mia salute. Quale non le ha naturalmente mai detta la verità.

Ruok è uno strano individuo lui pure. Mi pareva tenesse dei discorsi simili a quell’Horlok e quando gli ho parlato del terribile conte, si è contentato di sorridere e di conchiudere:

«È uno dei maestri del mondo».

«Ignobile maestro in verità».

Quanto a ciò che è accaduto a casa mia, è ancora più straordinario. Naturalmente, malgrado le assicurazioni di Ruok, mia moglie era in una grande angoscia.

Mio cognato e mia cognata hanno avuto tutte le sollecitudini del mondo a calmarla, l’indomani della mia partenza.

Per colmo di sventura, ella ha avuto un incubo nella notte stessa in cui Mosferatu è entrato nella mia camera, da ciò che mi ha raccontato mio cognato, l’incubo di cui ella aveva fatto il racconto corrispondeva in ogni punto a ciò che mi era accaduto.

Coincidenza tormentosa!

È vero che con la gente nervosa simili cose accadono spesso. Ho fatto venire Bulwer per Elena e per me. Mi ha trovato assai depresso, ma in condizioni migliori della mia povera benamata.

Ella è sempre più agitata; ha l’apprensione d’un avvenimento tragico. Ho un bell’interrogarla in tutti i modi, non mi ha nulla detto che possa darmi un’idea dei suoi timori. Quanto a me voglio provare a dimenticare tutto ciò, bisogna assolutamente. Bisogna ch’io lasci lontano dietro di me quei giorni atroci, che io non pensi più, la primavera m’aiuterà...

Ecco che la neve si scioglie sui Carpazi, ecco che gli alberi s’ingemmano. Fra qualche settimana, fra qualche giorno, forse vi saranno dei fiori sugli alberi, e nel giardino vedremo i primi lillà. Ah! respirare il profumo dei fiori! Poter gironzare per le vie di Wisborg! Veder la gente vivere, e dirsi che si è stati vicini a morire e in quale spaventosa condizione! Ecco ciò che ridà l’esistenza. Mia cara Elena, tu vivrai con me.

Wisborg, 24 aprile 1838.

La salute di Elena è sempre più preoccupante.

Io non la lascio un momento, salvo nelle ore in cui lavoro.

È perciò che non ho più scritto su questo quaderno da una dozzina di giorni. Elena ha paura. Paura di che? Ella crede sempre di sentire dei passi nella stanza, ella dubita sempre di veder entrare nella camera ove si trova un essere fantastico che non può descrivermi.

Questo terrore ha guadagnato anche mia cognata e confesso che io stesso dacché i miei nervi sono stati così scossi al castello Horlok anch’io sono sensibile allo spavento della mia povera Elena.

Vi sono ore in cui presto orecchio con lei al minimo rumore. Pertanto, che cosa abbiamo a temere? La primavera è là, ora; noi la respiriamo nel nostro giardino; la stagione è bella, fa dolci queste sere, così dolci che vien la voglia d’abbracciare la terra per ringraziarla d’essere così buona e che si vorrebbero lanciare dei baci al cielo».

30 aprile 1838.

Elena va sempre di male in peggio.

Bulwer non capisce più. Egli dice che soffre d’una malattia sconosciuta e, in tutti i casi, che sono delle scosse nervose d’una violenza rara che la fanno soffrire assai.

Ho paura d’indovinare. Ruok m’ha detto questa mattina:

«E il vostro cliente del paese dei Fantasmi?».

«Non me ne parlate».

«Siete ben ingrato, voi avete fatto un bell’affare, avete guadagnato più di diecimila corone e non v‘interessate di lui?».

«Niente affatto». Io non ho detto a Ruok tutto ciò che ha passato al castello di Horlok, perché temo che i due uomini siano complici in una certa misura.

«Andiamo a vederlo subito», m’ha detto Ruok.

«Chi, il conte?».

«Sì. Perché? Egli ha comperato una proprietà, è ben normale che venga ad abitarla».

Non ho risposto niente, ma per Elena ho ben indovinato. Ella ha il presentimento della venuta di Mosferatu.

Io sono sicuro che è ciò; non voglio che quest’uomo venga.

Mio Dio, proteggeteci, me e la mia benamata da questo demonio.

Lo ucciderò, piuttosto, quest’assassino.

Una successione di avvenimenti strani

Il giornale di Giovanni Hutter che ci fu lasciato in eredità da una vecchia contadina dei Carpazi e che ha rapporto con gli avvenimenti che si svolsero nella città di Wisborg nella primavera del 1838, s’arresta di colpo dopo il ritorno del giovane presso sua moglie.

Ma sul quaderno di 250 pagine che ci pervenne, abbiamo trovato degli articoli ritagliati da giornali, dei frammenti di un giornale di bordo, differenti rapporti scientifici, e note personali che ci permisero di costruire gli avvenimenti che successero a Wisborg in quest’epoca.

Tutte queste carte sono estremamente interessanti; anzitutto perché permettono di rendere conto della maniera con cui in pieno periodo romantico Tedesco si sviluppasse fortemente il sentimento del terrore anche presso gli esseri dotati di una coltura superiore e poi anche perché, malgrado tutte le spiegazioni che si possano trovare oggi, capita ancora che certi racconti possono particolarmente turbare.

Verranno nel seguito della recita dei fenomeni che la scienza tenterà vanamente di rendere comprensibili. 

D’altronde al fine di non affidarci solamente ai soli documenti di Giovanni Hutter abbiamo riunito noi stessi le note prese a Wisborg intorno alla famosa epidemia e abbiamo constatato che l’autore del giornale che pubblichiamo non aveva assolutamente esagerato. Si può anche dire che per quello che è accaduto a Wisborg fra la popolazione, questi documenti non danno che una pallida idea.

Abbiamo raccolte tutte le informazioni che ci vengono da lui e quelle che abbiamo trovate negli archivi della biblioteca municipale di Wisborg per scrivere una pagina di storia che ha tutta la veridicità che si può esigere da un racconto attinto alle migliori sorgenti.

Lettera di Bulwer a Giovanni Hutter a Wisborg:

2 maggio 1838.

Caro amico, sono spiacente d’essere obbligato ad assentarmi da Wisborg mentre vostra moglie versa in uno stato di salute deplorevole. Voi sapete l’affezione che io ho per Elena ed è per me soddisfazione profonda poterle essere utile e portare qualche sollievo al suo stato.

Se avessi avuto la certezza di rientrare a Wisborg prossimamente, non vi avrei scritto e avrei risparmiato la lettera che vi invio avendo potuto essere più chiaro a viva voce.

Ma i miei affari di famiglia non hanno ancora termine ed io non saprei ancora fissare una data precisa per il mio ritorno.

Ho pensato che qualche notizia intorno a vostra moglie e qualche consiglio avrebbero la loro utilità durante questi giorni di mia assenza ed è perciò che mi permetto di indirizzarvi questa lunga lettera.

Mio caro Hutter, non vi lusingate, vostra moglie versa in gravi condizioni.

Fino al momento della vostra partenza per il castello dei conte Horlok, aveva creduto di potervi dire che i turbamenti nervosi che abbiamo constatato e che combattiamo senza riposo, potevano essere passeggeri e non costituivano sintomi allarmanti.

Ma dopo quello che è avvenuto durante il vostro viaggio, non saprei nascondervi che la salute di Elena mi è causa di costante pensiero perché cerco invano il mezzo di apprestarle un metodo di cura efficace e rapido. Non vi è dubbio, vostra moglie subisce un malefizio. Quale? Io non saprei determinarlo ma mi sembra che le letture alle quali essa si dedica e che parlano particolarmente delle storie leggendarie dei vampiri siano indicazioni bastevoli per determinare la sorta del malefizio al quale soggiace.

Come, mi direte, si può supporre che un essere ragionevole si lasci prendere da questi racconti e presti fede a queste fantasticherie che i nostri nonni ci raccontavano la sera a veglia?

Io non cerco di darvi spiegazioni perché quelle che potrei apprestarvi non soddisferebbero probabilmente il vostro spirito positivo e vi stupirete che il vostro amico al quale accordate qualche credito per la sua qualità di scienziato sia anche lui sensibile alle superstizioni di cui condannate la balordaggine.

Pertanto mio caro amico, io sono convinto che i vampiri esistono, essi non hanno quella figura bizzarra che l’immaginazione popolare loro presta: alcuni li veggono sotto forma di bestie strane che corrono nei cimiteri, aprono le tombe e si nutrono di cadaveri.

Altri se li figurano in forme di fantasmi, abitanti paludi, ovvero luoghi malsani, che si precipitano durante le ore notturne sulle bestie e gli uomini stanchi per succhiare il sangue. Non è così che io me li figuro, per me questi sono uomini come gli altri e se io volessi darvi un idea di quello che chiamerei vampiro in una città come Wisborg, vi manderei dal signor Ruok ed il conte Horlok è anche un essere di questo genere, voi stesso avete con i vostri occhi visto un uomo precipitarsi su voi, piantarvi nel collo le sue dita adunche e succhiarvi il sangue. Questa non è semplicemente la visione di un maniaco.

Avete creduto a qualche pazzia, vi siete giustamente atterrito e quando vi siete rimesso dal vostro spavento a Wisborg, voi stesso mi avete esposto il terrore che avete provato e la necessità di denunziare il conte Horlok alle autorità mediche e giudiziarie per impedirgli di nuocere.

Anch’io sono del vostro avviso, ma la diagnosi non è sufficiente. Né il conte Horlok né Ruok sono dei maniaci o dei pazzi.

Sono propriamente dei vampiri della razza di Bélial, e Mosferatu è un essere che farà parlare di sé molto più presto che non crediate, perché voi siete stato attirato in casa del conte Horlok in una trappola di cui non supponete il danno.

Che vi ha detto il conte Horlok alias Mosferatu quando vi ha visto?

Egli vi ha domandato il ritratto di vostra moglie.

E che cosa vi ha rimarcato?

Il suo collo.

Ecco l’importante. Ecco quello che voi non avete compreso immediatamente ed ecco la relazione che io stabilisco tra la malattia della signora Hutter e il vostro viaggio al castello. Ma mi direte, noi siamo in piena fantasmagoria; il mio bravo Bulwer è anche lui preso da una specie di pazzia ed egli vede vampiri dappertutto.

Voglio pure ammetterlo, e so bene che tutti i medici di Wisborg ed i sapienti della nostra età saranno scettici davanti alle mie conclusioni, tuttavia...

Tuttavia vogliate permettermi di farvi notare che il vampiro esiste; noi altri medici conosciamo degli insetti che vivono sulle piante e che ammazzano per nutrirsi dei loro succhi.

Meglio ancora, esistono delle piante che vivono di sangue. Mettete nella corolla di certi fiori la carne fresca e vedrete la corolla chiudersi; la carne e il sangue sono a poco a poco assorbiti dal fiore il quale in tale maniera si nutre e può anche svilupparsi.

Queste sono quelle piante che si chiamano piante carnivore.

Anche l’uomo stesso, non vive del sangue delle bestie?

Quanti sacrifizi non si fanno tutti i giorni, simili a quelli dei nemici davanti al loro Dio per nutrire la bestia umana! Perché vorreste che non esistessero individui dall’intelligenza raffinata, dotati di un sistema nervoso ammalato, i quali abbiano trovato negli esempi della natura, motivo e pretesto allo sviluppo di strane passioni?

Questi esseri credono fermamente che la loro vita dipenda dalla vita degli altri, e come gli alchimisti credevano di formare gli atomi dell’oro mescolando a certe combinazioni il sangue umano, così il vampiro, per vivere, crede di dover bere e mescolare gli alimenti di cui si nutre col sangue fresco di uomo, di donna o di fanciullo.

La scienza dei demoni vi insegna che questa, in altri tempi era una passione comune.

Non v’è dubbio che vi sono ancora degli alchimisti e che la stessa scienza che li ha condannati per così lungo tempo, non verrà un giorno nella loro ipotesi.

Dunque stabilisco che il conte Horlok Mosferatu è un vampiro.

Egli è inoltre una specie di stregone, cioè ha un potere sulla volontà a distanza.

Sono persuaso che attualmente dissangua la nostra povera Elena come ha dissanguato Ruok perché vostra moglie subisce la sua influenza e vive in suo potere.

Ecco la spiegazione che mi sembra più chiara al caso nostro.

Che rimedio, mi domanderete, bisogna apportare al male? Bisognerebbe che la mia volontà fosse superiore a quella del conte Horlok, che la vostra lo fosse ugualmente, e che i nostri sforzi uniti potessero stornare dalla malcapitata gli effluvi di Mosferatu.

Presentemente non veggo come noi possiamo riuscirci.

La sola raccomandazione che vi faccio è quella di allontanare da Elena tutto ciò che possa riguardare il vampirismo.

Provatevi a farla stare quanto più sia possibile, in uno stato di gaiezza. Bisogna farla passeggiare, procurarle delle distrazioni e non bisogna lasciarla sola alla sera perché l’ombra è particolarmente propizia ai vampiri.

Ecco tutto quello che io posso dirvi mio caro Giovanni e ne sono desolato, vi assicuro che avrei desiderato darvi un rimedio immediato, tranquillizzare il vostro spirito perché, dopo quello che vi è capitato durante il viaggio, voi stesso avete certamente bisogno di grande riposo.

Pure ogni tanto bisogna riconoscere sinceramente che la nostra scienza è impotente e che i cattivi spiriti si coalizzano contro di lei senza speranza di poterli vincere.

Vi domando scusa di questo mio atto di umiltà.

Credetemi, vostro amico sincero e devoto.

Dottor Bulwer.»

Nella lettura di questa lettera Giovanni fu molto impressionato.

Dalle sue note che non riproduciamo perché sarebbe fastidiosa e difficile la lettura, si vede che il giovane incredulo per i primi istanti in seguito non cessò mai di riflettere sugli strani problemi che gli aveva accennato il suo amico Bulwer.

Egli prese cura di allontanare dall’ammalata tutti i libri che potessero avere influenza sul suo spirito.

Cercava di distrarla con letture dilettevoli, la faceva passeggiare parecchie sere di seguito, ma notava anche che i risultati dei suoi sforzi si sarebbero potuti dire nulli.

Elena era di giorno in giorno più stanca.

Verso la metà del mese di maggio fu obbligato a stare 3 giorni a letto e durante la notte ebbe degli incubi terrificanti.

Essa vedeva, ai piedi del suo letto un uomo vestito di nero che la guardava fissamente e cercava di comunicarle i suoi pensieri.

Alla descrizione che faceva di questo personaggio notturno Giovanni Hutter credette riconoscere il conte Horlok.

Quando cala sera, Elena se è nel giardino si mette a correre dicendo che è inseguita dall’uomo vestito di nero, e se durante la notte non vi era luce nella sua camera credeva riconoscere in ogni angolo, in ogni nascondiglio, il suo persecutore.

Meglio ancora, la lettura della gazzetta di Wisborg, del maggio 1838, ci fornisce delle indicazioni molto serie sulla bizzarra atmosfera che cominciava a pesare sulla città.

Non si saprebbe notare niente di preciso, non si citano fatti sensazionali, ma infine scorrendo qualche articolo che riporta i minuti avvenimenti della città si nota che essi hanno tutti qualche cosa di cui non si potrebbe non essere stupefatti.

Vi sono dei suicidi di cui si ignorano le cause.

Vi sono degli strani casi di pazzia e infine l’arresto del signor Ruok, il quale fino a quel giorno era considerato come un commerciante onorabilissimo, ma come uomo dall’andamento un po’ bizzarro, aveva passeggiato durante tutta la notte del 18 maggio per la città gridando:

«Il maestro viene! il maestro viene!».

Si trova nella gazzetta questo curioso interrogatorio fatto dal capo di polizia di Wisborg, in presenza di parecchi testimoni.

«Chi intendete voi chiamare con la parole “il maestro” signor Ruok?».

«Il maestro è il maestro».

«Ma non potete dire chi porta questo nome, nel vostro spirito?».

«No, è un segreto».

«Avete ricevuto comunicazioni, lettere che vi permettono di dire che il maestro è in viaggio?».

«Sì».

«Si tratta forse di una cospirazione contro lo Stato?».

«Lasciatemi ridere...».

«Sarebbe un attentato contro la religione?».

«Voi non comprendete niente».

«Signor Ruok fate attenzione alle vostre parole».

«Signor capo di polizia voi siete un imbecille ed io ve lo dico come lo penso...». 

La Gazzetta di Wisborg, non riporta la fine dell’interrogatorio. Si capisce che il signor Ruok per ingiuria ai rappresentanti dell’autorità imperiale, per mancanza di rispetto al funzionario nell’esercizio delle sue funzioni fu imprigionato.

L’arresto del signor Ruok fu d’altronde il punto di partenza di altri avvenimenti dei quali non abbiamo trovato uno svolgimento logico nei fondi di Wisborg, ma che si chiariscono singolarmente alla lettura del libro di bordo del capitano Bergen, comandante il trasporto fluviale “Otto Friedrick”, il quale rimontava il corso del fiume e veniva regolarmente dal mar Nero a Wisborg trasportando mercanzie di ogni sorta.

Nessuno dei documenti che ci son capitati sotto mano è più impressionante e più chiaro.

Noi lo pubblichiamo integralmente come l’abbiamo trovato:

Giornale di bordo del capitano Bergen, capitano del “Otto Friedrick” durante il suo viaggio dell’8 maggio a…

8 maggio:

Abbiamo lasciato Belnitza con un carico di 12 casse di rhum, 38 botti di vino e 6 casse oblunghe che vengono dalla Transilvania e che son piene di terra, a quanto mi hanno detto. Queste ultime casse sono destinate a Wisborg.

«Si direbbero delle bare», ha detto il mio comandante in seconda.

«È vero».

«Le ho messe nella stiva a fianco alla camera degli uomini per paura che là dentro ci sia nascosto del contrabbando di guerra.

Queste casse saranno segnalate all’arrivo a Wisborg alle autorità. L’equipaggio si compone di 18 uomini, sempre gli stessi; del mio secondo, Rodolfo, e di me.

7 maggio:

Niente di nuovo.

8 maggio:

Niente di nuovo.

10 maggio:

Niente di nuovo.

11 maggio:

Niente di nuovo.

12 maggio:

Niente di nuovo.

13 maggio:

Niente di nuovo.

14 maggio:

Niente di nuovo. Giovanni Jeff Warten è malato.

15 maggio:

Niente di nuovo.

16 maggio:

Niente di nuovo. Nella navigazione Jeff Warten è sempre malato. Antonio Moll, Richesberg, Colten, marinai, sono ammalati.

17 maggio:

Warten è morto, Richesberg agonizza, Moll sta molto male.

18 maggio:

La situazione diviene molto seria; oggi nuovi morti e ammalati. Voglio fermarmi a Strepen per avvisare il medico del porto.

19 maggio:

Siamo arrivati a Strepen.

Il medico è venuto a bordo ed ha visitato i miei ammalati.

«Ebbene?» gli ho domandato quando stava per andar via. 

«È lo scorbuto...».

«Voi volete ridere...».

«Ne ho forse l’aria?...».

«No, ma sarebbe la prima volta che lo scorbuto scoppia a bordo del mio vascello che fa delle navigazioni fluviali. I miei uomini mangiano la carne fresca e voi certamente vi sbagliate dottore».

«Ah! voi credete?».

«Ne sono sicuro».

«Ebbene li visiterò di nuovo». E il dottore ridiscese presso gli ammalati.

Quando ritornò gli feci la stessa domanda ed egli mi rispose:

«Se non è lo scorbuto io non vi capisco niente...».

«Un vostro modo di vedere».

«Essi non si lagnano di niente, quelli che hanno sintomi del male non sanno dir niente, hanno male dappertutto...».

«Insomma, non vi è nessun rimedio da provare?».

«Non ne veggo alcuno».

«Nessun consiglio?».

«Fate loro bere dello spirito».

«Essi non se ne privano mica».

«Allora...».

Non mi rispose e se ne andò.

Sono molto angustiato. Che debba fare?

20 maggio:

Non ho tempo di far le mie note.

21 maggio:

Presentemente vi sono 8 morti.

22 maggio:

Oggi ancor 2 morti. Voglio fermarmi a Borleu.

23 maggio:

Ho visto il medico del porto a Borleu. Gli ho domandato se si poteva lasciare il naviglio in osservazione ed egli mi ha risposto che visiterebbe i miei malati.

Siccome salvo il secondo, il norvegese Ansen ed io, tutti i marinai sono ammalati, il dottore impiegò alquanto tempo per la sua visita.

«Ebbene?» gli dissi quando lo rividi.

«Ciò è strano».

«Lo credo bene».

«Stranissimo...».

«Ma quali sono le vostre conclusioni?».

«Non so niente».

«Forse non vi è un’epidemia a bordo?».

«Sì».

«Allora debbo fermarmi nel porto?».

«Non ne vedo l’utilità».

«Ma infine, Dottore, non posso continuare il viaggio in questo stato».

«Prendete altri marinai».

«Ma se vi è un’epidemia come voi dite?».

Il dottore si grattò sul capo, poi disse:

«Io credo che questa sia un’epidemia di suicidio».

«Che dite?»

«Penso che questa sia un’epidemia di suicidio. Proprio così!».

«Ma, dottore, non si riconoscerebbe quando un uomo si è ammazzato?». 

«Senza dubbio. Ma qui si tratterebbe di una specie di suicidio mentale».

«Mentale? Che cosa significa?».

«Credo che i vostri uomini quando non vogliono più vivere, allora muoiono...».

«Strana spiegazione».

«Non ve ne posso dare altre».

«Grazie, dottore. Debbo dunque continuare il viaggio?».

«Vi autorizzo, a meno che voi non abbiate paura».

«Dire questo a me, che ho 35 anni di navigazione... No, sicuro».

24 maggio:

2 morti.

25 maggio:

La situazione è disperata.

26 maggio:

Voglio provare di parlare con un altro dottore a Fualda il quale è l’ultimo porto prima di Wisborg. A bordo siamo rimasti in 6.

27 maggio:

A bordo siamo in 6 di cui 2 ammalati. Non posso continuare la rotta. Non è che provi qualche timore a navigare, perché il tempo è assolutamente calmo e non vi è quasi niente da fare sul battello, provveduto che abbia di un uomo la barra, ma infine ciò che avviene a bordo di questa nave non è naturale e non può durare.

28 maggio:

Il dottore del porto di Fualda mi ha domandato moltissime spiegazioni ed infine ha detto:

«Che cosa trasportate a bordo come mercanzia?» Glielo dissi.

«Nient’altro?».

«Nient’altro».

Egli m’ha guardato con aria sospettosa.

«Capitano, voi non dite la verità».

Benché egli fosse un dottore, pure l’avrei schiaffeggiato.

La mia parola non è stata mai messa in dubbio.

Ma alla fine mi sono trattenuto.

«Vi dico l’esatta verità».

«Non mi nascondete niente?».

«Niente, ve lo giuro».

Per un momento pensai che egli visitando la nave avesse visto le scatole oblunghe e si fosse immaginato che io facessi contrabbando di armi. Invece egli non ha fatto accenno alle scatole e mi ha tenuto questo singolare discorso.

«Avete osservato, capitano, i visi dei vostri uomini al momento della morte?».

«Sì, dottore».

«Che cosa avete notato?».

«Un certo colore violetto coloriva il loro volto».

«Sì, quasi come se fossero morti strangolati?».

«Sì».

«Non avete mai inteso grida sul vostro bastimento?».

«No, dottore».

«Erano dei marinai nuovi o anziani?».

«No, erano vecchi lupi di mare».

«Allora ciò e straordinario».

«Ma che cosa volete dire dottore?».

«Questo, capitano, i vostri uomini sono morti di paura».

«Morti di paura?». 

«Sicuramente».

Non ho potuto trattenere un’esplosione, evidentemente sconveniente di riso davanti a questo idiota.

«Paura di che?».

«Non so niente».

«Ho notato un fatto, e cioè che i vostri uomini dal momento che sono malati danno l’impressione di uno scuotimento nervoso considerevole, di essere in uno stato febbrile straordinario e gettano intorno a loro degli sguardi spaventati, stravolti, e sono incapaci di pronunziare parola.

«Questi sono i sintomi della malattia».

«Vero, ma questa malattia è la paura».

Non ho voluto discutere, ho stretto la mano a questo folle che al momento di andarsene ha aggiunto ancora:

«Vi è qualcuno sul vostro naviglio che terrorizza l’equipaggio? Siete sicuro del vostro secondo?».

«Come di me stesso, dottore».

«Non avete trovato niente di sospetto sulla nave?».

«Nulla».

«Non avete animali a bordo?».

«Nessuno».

«Nemmeno un gatto?».

«No».

«Dovreste averne».

«Perché?».

«Perché sono animali utili, che concentrano gli effluvi nervosi».

«Che rimedio mi consigliate, dottore?».

Egli non rispose. Non so assolutamente che cosa pensare. Non veggo che una sola salvezza ed è quella che arrivi a Wisborg il più presto possibile. Là almeno scaricherò la nave e vedremo bene, dopo un inchiesta completa della polizia, ciò che bisogna pensare di tutte queste storie.

29 maggio:

Ciò che scrivo è spaventoso; se uno me lo raccontasse non lo crederei, pertanto sono io che vivo queste ore tristi. Quale cosa atroce, anzitutto non siamo che tre. A mezzogiorno il secondo è venuto nella mia cabina sotto vento e mi ha detto:

«Capitano, Hansen sta per morire».

«Dove?».

«È caduto dal suo posto di guardia, sul ponte».

«È possibile?».

«Certo, l’ho trasportato nella cala, e comincia a fare come gli altri...».

«E che cosa dice?».

«Niente».

«E non ha pronunciato una parola?».

«Nessuna, dacché è caduto».

«Va bene, vegliate su di lui».

Il secondo è andato a raggiungere il malato; è ritornato un quarto d’ora più tardi tutto stravolto.

«Capitano, vi sono dei topi nella cala».

«Dei topi? Che cosa venite a raccontarmi?».

«Sì, capitano dei topi enormi».

«E donde escono?».

«Dalle scatole».

«Quali scatole?».

«Dalle scatole lunghe che abbiamo imbarcato».

«Eccomi, vengo con voi a vedere».

Sono disceso nella cala insieme al secondo e veramente ho visto dei topi grossi quasi quanto gatti che giravano intorno ad Hansen, ma egli non li vede; ha gli occhi completamente smorti, la sua pelle diventa violacea, respira affannosamente e ho l’impressione che abbia ancora solo qualche ora di vita.

Mi sono avanzato nella cala tanto quanto ho potuto ed ho verificato che veramente le bestie erano sortite dalle casse che mi era sembrato contenessero armi di contrabbando. Ho rotto il coperchio, ad una di queste casse ed ho visto che era piena di terra. Che idea di trasportare la terra. Vi è qualche cosa che non è naturale là dentro. Quello che mi aveva insospettito alla partenza ora mi fa paura.

Perché sono atterrito? Che cosa avviene sulla mia nave, io non lo so.

Mi sembra ad ogni istante che la porta si apra e che qualcuno stia per comparire. Veramente ho paura.

Non ho detto niente a nessuno della mia paura, provo a dormire ogni tanto per riposare i miei nervi stanchi ma non vi riesco.

30 maggio:

Hensen agonizza. Il secondo entrato improvvisamente nella mia cabina mi ha detto:

«Capitano, siamo perduti!».

«Perché dite questo?».

«Io non lo so, ma ho il presentimento che siamo perduti».

«Allora, ragazzo mio, coraggio».

«Non ne ho più, capitano, non ne ho più».

«Ma che cosa avete?».

Egli abbassò la voce e mi sussurrò all’orecchio:

«Ho paura».

«Anche voi?».

Mi ha preso le mani:

«Wisborg è ancora lontano di qui quaranta ore ed io sono sicuro che non vi arriveremo».

Ho visto delle lacrime nei suoi occhi. Conosco il mio secondo, è un ragazzo di un’energia a tutta prova e per essere in quello stato deve certamente sapere qualche cosa.

31 maggio:

Hensen è morto questa notte. Gli abbiamo reso gli onori funebri; giammai abbiamo pregato con più fervore, perché questa volta abbiamo pregato non solo per lui ma anche per noi. Per aver salva la vita; ma... l’avremo? Non ci conto più.

Alle 17 ho inteso correre il mio primo verso di me come un folle; è caduto per terra arrivandomi vicino.

«Ebbene?» gli ho detto.

«Sono finito».

«Che significa ciò?».

«Sono un uomo morto».

«Dove vi sentite male?».

«Dappertutto».

«Che cosa vi è capitato?».

«Non so nulla».

«Avete visto qualche cosa?».

«No».

«Vi supplico, se avete visto qualche cosa, se avete sentito qualche cosa ditemelo». 

Egli non mi ha risposto ed ha cominciato a rantolare...

Mio Dio, è la fine, il mio secondo è morto, abbiate pietà di lui. Abbiate pietà di me.

1° giugno:

Arriverò a Wisborg?

Sono solo a bordo, il bastimento cammina lentamente. Non oso abbordare nessuno dei piccoli navigli che incontro perché ho l’impressione che io sia appestato. Ho fatto segnale a un piccolo veliero, ma non mi ha inteso. Questa notte devo restare alla barra: me lo permetteranno le mie forze? Tengo la barra dal momento che il mio secondo è morto.

…Qui il giornale propriamente detto, si arresta, ma nelle note di Giovanni Hutter abbiamo trovato il racconto seguente fatto dal capitano qualche istante prima della sua morte, all’ospedale di Wisborg.

Il 2 giugno a sera il capitano Bergen era alla barra dell’“Otto Friedrich”. Era affranto dalla fatica. Per quale miracolo egli ha potuto resistere senza soccombere per sì lungo tempo? Questa è una domanda che non ha avuto la sua risposta.

In tutti i modi egli era al suo posto e si aggrappava, si potrebbe dire, al suo nome eroico per farsi coraggio e resistere fino all’ultimo, quando intese un rumore strano che sembrava venire dalla cala e che secondo la sua espressione, faceva tremare il bastimento sotto di lui, come un uragano.

Passati pochi istanti, tutto ad un tratto, egli vide uscire dalla scalinata della stiva una forma nera, lunga, stecchita; un essere umano dalla testa completamente calva con gli occhi immensi, che avanzavano lentamente verso di lui con le braccia tese come se avesse avuto l’intenzione di strangolarlo. Il capitano lanciò un grido, l’uomo non si impaurì e continuò a marciare verso la barra. Il suo viso era quello d’un morto, e se i suoi occhi non avessero rischiarata la sua livida faccia, il ca-pitano avrebbe creduto di vedere lo spettro di uno dei suoi marinai. Ma no, lo spaventoso personaggio era vestito di un lungo soprabito nero e le sue mani erano assai caratteristiche.

Gli ultimi istanti del capitano Bergen, sono stati occupati ad esaminare quelle mani: delle mani fui dalle unghie immense, taglienti come coltelli e sottili come aghi.

Il capitano fece sforzi disperati per mantenersi alla barra; fatica perduta. L’uomo era già su di lui; lo assalì alle spalle e lo rovesciò.

Il capitano non potette più dire parola, si trascinò sul ponte dove l’avevano trovato, quando il battello entrò a Wisborg. Condotto da chi?

Senza dubbio da una mano misteriosa.

Secondo il capitano, dall’uomo dalla testa di morto.

La peste di Wisborg

Si legge nella Gazzetta di Wisborg del 4 giugno 1838:

Nel nostro porto ieri è avvenuto un fatto inverosimile; è arrivata una nave senza equipaggio, senza capitano, senza pilota. Erano quasi le 10 quando la vedetta segnalò la nave “Otto Friedrick” che arrivava nella nostra città con 3 giorni di ritardo. Delle voci correvano a riguardo della traversata che aveva fatto. Si diceva che si fosse fermata in parecchi porti fluviali per pregare i dottori di recarsi a bordo per constatare la morte di parecchi marinai.

La nave s’avanzava molto normalmente e niente di singolare appariva. Pertanto la vedetta si meravigliò di non vedere sul ponte gli uomini di equipaggio correre qua e là per compiere i preparativi di sbarco.

Il naviglio si diresse nel bacino dove aveva l’abitudine di ancorare.

Ebbe sì, qualche esitazione nell’ancorare ma, grazie al personale del porto, la manovra si compì felicemente.

Il personale del porto si precipitò sul ponte ma non trovò nessuno. Si trovò a qualche distanza dalla barra, il capitano che sembrava morto e che fu trasportato immediatamente all’ospedale. Visitando il battello fu trovato un cadavere, quello del secondo e niente altro. Si passò allo scarico della mercanzia e non si vide niente di sospetto. La sola cosa che merita di essere rilevata è la grande quantità di topi che furono trovati nella cala. Uscivano da lunghe casse di legno bianco riempite di terra che erano state spedite all’indirizzo di un certo conte Horlok che sembra verrà ad abitare una casa in rovina, che si trova fuori le mura della città in faccia alla proprietà del nostro cittadino Giovanni Hutter. Durante tutta la mattinata i marinai ed i fanciulli si sono abbandonati ad una vera caccia ai topi che ha permesso di mettere a tavola ben 235 di questi roditori.

Abbiamo domandato spiegazioni al Direttore dalla Scuola di Navigazione, professore Giorgio Walter, sulla bizzarra traversata dell’“Otto Friedrick”.

«Bisognerebbe», ci disse, «che io consultassi il libro di bordo per sapere esattamente ciò che è avvenuto; d’altra parte non posso comprendere come un bastimento possa dirigersi da sé stesso e di più in un fiume. Potrebbe essere uno scherzo sul quale io non saprei pronunziarmi seriamente».

Nello stesso numero della Gazzetta di Wisborg era scritta una notizia a riguardo del signor Ruok, il quale aveva dato segno di esaltazione così strana, durante tutta la giornata del 2 e la mattinata del 3 che si fu obbligati a mettergli la camicia di forza.

«Il maestro è là; il maestro è là» gridava.

Voleva uscire per vedere il maestro e stava per riuscirvi.

Eludendo la sorveglianza dei suoi guardiani, era arrivato alla porta della prigione, quando fortunatamente il corpo di guardia se ne accorse e potette rimetterlo nelle mani dei suoi sorveglianti. Ora l’hanno chiuso in una cella, così questo pazzo non è più pericoloso. Infine dalle note di Giovanni Hutter risulta che giammai sua moglie passò una più cattiva notte di quella dal 2 al 3 giugno.

Fin dal crepuscolo ella fu presa da forti accessi febbrili; andava e veniva nel giardino di casa sua lanciando delle grida e urlando:

«Eccolo.., eccolo...».

Ed invano sua sorella, suo cognato e suo marito cercavano di calmarla. Ella che, secondo il solito, si rifiutava di mettere piede fuori della sua proprietà domandava di essere condotta in città per passare la notte sul porto.

Invano le si fece capire che non vi era nessuna possibilità di accontentarla in questo suo capriccio, ella si ostinava ad affermare che sarebbe morta se non la si fosse accontentata in questa voglia perché, diceva, chi aspetta l’arrivo di un personaggio importante deve stare al suo posto e sarebbe stato scortese il non riceverlo con tutti gli onori dovuti alla sua alta dignità. Si pensò bene di metterla a letto durante questo accesso di nevrastenia acuta, ma sulla mezzanotte lanciò delle grida stridenti, dichiarò che l’uomo nero dei suoi sogni abituali era seduto sul suo letto e non voleva andarsene.

Ella si gettò sul fantasma e cadde così malamente che si ferì alla fronte. Questo fatto non calmò la sua esaltazione; tre persone la tenevano, essa dava pugni a destra e a sinistra e si agitava tanto che si credette di doverla trasportare in una casa di salute. Fortunatamente durante la mattinata si calmò.

«Egli è là, disse, mi ha perdonata e verrà a vedermi...».

E da quel momento si mostrò di una perfetta dolcezza e di una squisita cortesia con tutti.

Dalla Gazzetta di Wisborg del 10 giugno 1838:

Ieri mattina ebbe luogo alla residenza del governatore una riunione molto importante sulla quale si mantiene il più assoluto riserbo, ma di cui possiamo tuttavia, con l’autorizzazione della censura, dire al pubblico le cause che la promossero e quello che si è stabilito.

Si ricorderà che la scorsa settimana giunse in porto in maniera particolarmente misteriosa la nave “Otto Friedrick” che conteneva delle casse piene di terra dalle quali usciva un esercito di topi. Malgrado la caccia che è stata fatta a queste bestie, alcune son riuscite ad entrare in città e da qualche giorno si son constatati 4 o 5 casi di una malattia che ha tutti i sintomi della peste nera. I medici che hanno esaminato gli ammalati colpiti da questa malattia hanno deciso di prendere le misure più serie per tentare di localizzare il male. È necessario inoltre che essi abbiano a loro disposizione tutte le forze dell’amministrazione per poter riuscire nella loro fatica ed evitare a Wisborg un flagello spaventoso. Il governatore, del quale si conosce la sollecitudine per i suoi amministrati, ha promesso che sarà fatto tutto il necessario per evitare e circoscrivere il flagello e noi siamo felici di poter rassicurare i nostri lettori su questo punto.

Ma durante il corso della deliberazione degli scienziati e dei principali funzionari della città è avvenuto un incidente che è stato considerato come un accesso di pazzia di uno dei nostri concittadini più stimati, il dottor Bulwer. Intervento di cui noi racconteremo i fatti principali perché esso ha un carattere abbastanza romanzesco per interessare tutti quelli che hanno della fantasia.

Il dottor Bulwer ha dichiarato che tutto ciò che si potesse fare per frenare l’epidemia della peste nera era in effetto molto ben fatto, ma che ciò non era un mezzo empirico di evitare un disastro.

«Voi non avete una esatta visione del male», ha detto; «voi alle volte prendete tutto troppo seriamente o troppo alla leggera. Io sono meravigliato che tra i sapienti che sono presenti nessuno di voi, o signori, abbia stabilito un rapporto con la presenza dei topi nei porto di Wisborg, ed il primo caso di peste, come voi avete fatto, ma tra il singolare arrivo di questo naviglio senza pilota e senza equipaggio e l’esplosione del male contro il quale voi vi difendete giustamente».

«Molto giusto il voler considerare gli avvenimenti d’al punto di vista umano; è giustissimo prendere tutte le precauzioni dettate dalla scienza contro il progresso di un male che spande il terrore, ma ancora bisognerebbe essere sicuri che questo male non abbia un’origine più singolare di quella dei topi che voi gli avete attribuito e che noi non siamo in presenza di uno di quei fenomeni in cui il demonio rappresenta la parte principale».

A queste parole tutta l’assemblea si riempì di clamori.

«Noi non siamo qui», disse uno dei membri, «per ascoltare delle storielle da femminette».

«Non ci prendete per bambini», replicò un altro.

Ed un funzionario poco rispettoso dell’ambiente dove si trovava, gridò:

«Al pazzo, al pazzo».

Alcuni vollero anche fare un parallelo tra il caso del signor Ruok e quello dell’onorevole dottore Bulwer, ma si sa che quest’ultimo non si lasciava facilmente intimidire. Egli riuscì a farsi ascoltare a forza di autorità.

«Signori», continuò, «è possibile vi contrari, è possibile che la voce del buon senso sia oggi quella della follia, ma siate sicuri che io non mi sbaglio; vi è un rapporto molto più certo tra l’arrivo della nave e la peste che non quello dei topi col terribile flagello che si annunzia».

«Se voi volete permettermi di lanciare più lontano le mie deduzioni, vi dirò che il capo della polizia avrebbe il più grande interesse a dirigere i suoi passi ed anche i suoi uomini verso quella casa abbandonata dove erano destinate le casse di terra che trasportava l’“Otto Friedrick” e che sembrano, sia per la loro provenienza che per la loro direzione, grandemente sospette. Chi è questo individuo venuto ad abitare ai confini della nostra città, una casa da lungo tempo in rovina, la quale non poteva far gola che ad un maniaco e ad un criminale? Avete voi cercato di comprendere perché quest’uomo è venuto ad abitare presso di noi? Si son prese delle informazioni sul suo conto?».

Qualcuno rispose che il conte Horlok aveva domandato al Governatore generale di venire ad abitare a Wisborg, in un sito poco frequentato dalla buona società della città ma che infine potrebbe avere molte attrattive per un artista.

Il conte Horlok era una persona sufficientemente conosciuta perciò non ci fu bisogno di domandare altre spiegazioni.

Perciò il Governatore aveva fatto bene ad autorizzarlo a venire nella città e ciò che avveniva a Wisborg non aveva nessun legame con la presenza del Conte.

«Oh! signori», concluse l’onorevole dottore, «io non insisterò ma mi permetterò semplicemente di rimarcare che questo uomo potrebbe bene essere della razza di Bélial e che se voi non vi guardate da lui non solamente il corpo, ma l’anima della nostra città sarà definitivamente perduta».

La razza di Bélial!... Giammai il palazzo del governo era risuonato di nomi strani, così sconosciuti così bizzarri e il dottor Bulwer può vantarsi d’aver provocato un vero scandalo.

Dopo qualche giorno da questa riunione, manifesti erano stati attaccati ai muri di Wisborg, redatti in questi termini:

Per ordine dell’alto magistrato è vietato ai cittadini di trasportare malati affetti da peste negli ospedali per evitare che questa malattia contagiosa si propaghi nelle vie.

È egualmente raccomandato di chiudere porte e finestre per evitare di respirare aria infetta. Infine i convogli funebri, e gli interramenti, salvo autorizzazione speciale dall’alto magistrato, dovranno avverarsi di notte tempo. Le chiese e tutti gli edifici chiusi, sono interdetti i convogli a servizi funebri, le celebrazioni religiose le quali saranno celebrate dal clero nell’interno delle case dei defunti.

Questa volta il dubbio non era permesso e la peste, poiché era ben quella, infuriava a Wisborg. In Transilvania e nei porti del mar Nero, a Varna, a Galaz e lungo tutto il Danubio si era scatenato il terribile flagello. Come era scoppiato? Quando aveva avuto principio? Nessuno poteva dirlo.

Ma infine, sembrava, se si fosse voluto tener conto delle dicerie degli abitanti della città e dei villaggi in vicinanza del mare e del fiume, che la peste era nata all’indomani del giorno quando il battello “Otto Friedrick” era passato per i loro porti.

Dappertutto si sparse un terrore folle.

Gli abitanti delle grandi città fuggivano verso la campagna, si accampavano nei campi, abitavano nelle foreste, in riva dei ruscelli, spingevano la loro corsa vertiginosa fino alla montagna. Per qualche giorno vi fu un formidabile avventurarsi che nessuno poteva arrestare.

Vedendo arrivare in tal modo questo esercito impazzito di uomini, di donne e fanciulli e constatando che lasciava al suo passaggio innumerevoli cadaveri, i contadini terrorizzati alla loro volta lasciarono i borghi e le capanne e si precipitarono verso la città. Avvenne come un’immensa caccia ai topi.

Non si poteva calcolare il numero delle genti che moriva giorno per giorno e malgrado il sole cocente di giugno, c’era la desolazione e la miseria.

In breve tempo questo stato degenerò in vera guerra civile. Gli uni rimproveravano agli altri la loro empietà, il loro libertinaggio. Ed è per quello che la gente onesta doveva subire questo castigo del cielo, dicevano essi. Gli altri accusavano la politica. I più facinorosi attaccavano la nobiltà e i ricchi accusandoli di aver generato il flagello per entrare in possesso di tutti i beni delle vittime disgraziate. Alla peste si aggiungeva la rivoluzione. Le scene più spaventose di sommosse contro la nobiltà si svolgevano alle porte dei castelli; i contadini affamati tentavano l’assalto alle dimore signorili e pretendevano di nutrirsi saccheggiando. Nei sobborghi delle grandi città la misera popolazione assaltava le botteghe. La polizia interveniva ma invano, poiché essa stessa era decimata dal male. 

A questo periodo di sommossa e di spavento che durò una settimana successe una lunga quindicina di abbattimento.

Le strade furono disertate; i campi erano pieni di tende dove non si vedeva nemmeno traccia di vita. Gli animali, cavalli, buoi, porci, vagavano per i campi e crescevano senza cure. Nelle città erano dolori generali.

A Wisborg, se dobbiamo credere alle note di Giovanni Hutter, la vita era divenuta orribile.

Dopo il crepuscolo non era che una processione di bare ricoperte di drappi neri trasportate da gente di buona volontà, rivestita anch’essa di cappe nere per proteggere il viso e la bocca contro i miasmi pestilenziali, e si recava ai cimiteri che rapidamente si riempivano.

Scrive Hutter in data 25 giugno:

Durante tutta la notte io non ho inteso passare che degli accompagnamenti funebri.

Tra uno scalpitio sordo, si sentivano anche per qualche istante dei canti lugubri e malgrado le invetriate chiuse si vedevano sulla via, al chiarore delle torce, ombre vacillanti.

La mia povera Elena è in uno stato straziante. Ella mi domandava che cosa è questo rumore che si sente fuori.

«Niente», rispondo io, «è il rumore del vento».

«No, sono gente che passano».

«Ma no, ma no, tu hai la febbre».

«Che cosa è tutta questa gente che cammina?».

«Ti sbagli è la polvere che turbina».

«Ma se non spira vento!».

«Noi non possiamo sentirlo nella nostra stanza chiusa».

Così io le racconto queste menzogne grossolane, come si fa ai fanciulli, perché essa quasi ignora ancora la verità e non suppone il disastro che ci sconvolge.

Scrive ancora Hutter in data 30 giugno:

Questa mattina sono stato obbligato ad uscire per andar a cercare il dottor Bulwer perché Elena ha avuto una crisi di nervi.

Le strade sono completamente deserte, non si sente alcun rumore, non circola alcuna vettura, tutte le finestre sono chiuse. La città ha l’aspetto di una tomba. Ad ogni passo sembra che la sola persona che si possa incontrare è la morte, vestita di un gran mantello fosco, ed io avevo tanta paura che mi son messo a correre come se avessi avuto la falciatrice ai fianchi.

Il tempo è splendido, pur tuttavia mi sembra che il cielo sia grigio. Un’atmosfera soffocante pesa su Wisborg; si direbbe che il cielo abbia messo una cappa di piombo sulla nostra città. In verità quelli che non saranno attaccati dalla peste diventeranno pazzi.

Ed in quest’epoca, esattamente il 10 luglio, il signor Bulwer durante una riunione delle celebrità mediche di Wisborg, fece le seguenti rivelazioni che forniscono d’altronde lo scioglimento di questa tragedia, come si vedrà in seguito.

E fra le carte di Giovanni Hutter si trova precisamente il rapporto del suo amico, noi lo riproduciamo integralmente.

Rapporto del dottor Bulwer fatto al Governatore della residenza di Wisborg.

Signori e cari colleghi, quando nel 10 giugno scorso vi ho messo a parte della mia previsione a riguardo degli avvenimenti che si annunziavano nella nostra città voi avete sorriso.

Venti giorni sono passati; l’epidemia di peste sevizia ancora con intensità prodigiosa. Il male fulminante ha già fatto a Wisborg, e nei dintorni più di 3000 vittime e voi non avete presa alcuna 35

decisione utile tranne quella che vi imponeva il vostro sistema inutile e manchevole. Io ho il dispiacere di constatare che nessuna idea filosofica, nessuna seria ricerca ha guidato i vostri sforzi e non vi e nessuna speranza che l’epidemia che semina intorno a noi la morte possa cessare domani. Vi ho lasciato intendere come meglio ho potuto, quali potevano essere le cause del male, come le prevedevo.

Vi ho detto e mi permetto di ricordarlo che vi è un rapporto molto più sicuro di quello che voi non vi immaginate tra l’arrivo del battello “Otto Friedrick” e la peste. Io vi dissi pure: chi è questo individuo che è venuto ad abitare alla cinta della nostra città in una casa da lungo tempo in rovina? Avete cercato di comprendere perché quest’uomo e venuto ad abitare tra noi? Avete preso delle informazioni al riguardo?

Tutte queste mie interrogazioni sono restate senza risposta; tutti i miei avvertimenti sono restati lettera muta e nel momento in cui vi parlo centinaia di persone sono sul punto di morire. Ebbene, o signori ciò che voi non avete voluto fare ho fatto io. Ho svolto un’inchiesta, ho visto Ruok nella sua prigione, sono stato nella casa in rovina, sono stato nelle montagne della Transilvania. Sono stato fino al paese dei fantasmi. ho interrogato i contadini ed ecco quello che ho appreso.

Il giorno 6 maggio furono imbarcati a bordo del bastimento “Otto Friedrick” nel porto di Belmitza, 6 casse di forma oblunga piene di terra. In una di queste casse si è adagiato il conte Horlok, il castellano del paese dei fantasmi che tra i demoni ha il nome di Mosferatu il Vampiro e del quale si legge nei libri: dalla razza dei Bélial è nato il Vampiro Mosferatu. Egli si nutre di sangue umano e vive in bare riempite di terra maledetta dei campi della morte nera da cui il Vampiro trae, secondo quello che dicono, la sua forza di fantasma.

Il conte Horlok, alias Mosferatu il Vampiro, il quale ogni notte levandosi dalla sua bara, ad uno ad uno ha ammazzato tutti gli uomini dell’equipaggio dell’“Otto Friedrick” è lui che sia col terrore sia per mezzo di topi, sorti dalla terra della morte nera ha soppresso dopo i marinai anche il comandante della nave e nell’ultima notte è lui che ha preso la barra ed aiutato dal vento della morte, ha potuto condurre l’“Otto Friedrick”» fino a Wìsborg. È Mosferatu il Vampiro il quale ha soffiato la sua anima demoniaca nell’animo di Ruok. Quest’ultimo da più di due mesi ha dato segni evidenti della sua corrispondenza col conte Horlok e, se poi lo vedeste ora nella sua cella lo vedreste rinascere perché egli, dietro l’esempio del maestro, si nutrisce del sangue dei nostri morti. È Mosferatu il Vampiro che ha fatto un sortilegio sulla moglie del mio amico Giovanni Hutter, uno dei nostri più onorevoli cittadini, la quale, presentemente senza darsi conto dell’epidemia che travaglia la città, vive delle ore spaventose sotto la dominazione del mostro sanguinario. Chi dunque, o signori, potrà sbarazzarci di Mosferatu? Non vi è che un solo mezzo ed io ve lo indico. Il giorno in cui il Vampiro troverà davanti a lui una donna senza macchia che si sacrificherà volontariamente concedendogli il proprio sangue e trattenendolo fino al primo canto del gallo, il mostro morrà. Ciò è doloroso a dirsi, ma d’altra parte non vi è altro mezzo per liberarsi di questo inviato dal demonio.

Io, signori, non soggiungerò niente altro a questa dichiarazione. Essa è categorica, attendo le vostre smentite, attendo il grido di protesta della vostra pretesa scienza, attendo le beffe della vostra incredulità. Ma per me la verità è quella che vi ho detto e non aspetto la liberazione di Wisborg, che da quella donna sconosciuta che vorrà pagare col suo sangue e la sua vita il riscatto di tutti quelli che sono schiavi della morte.

È pur verosimile che questa arringa un po’ ampollosa non avesse la sorte che il dottor Bulwer aveva sperata, perché risulta dai registri del governatore che i medici continuarono a lottare con i mezzi a loro disposizione contro il male, e che chiesero anche aiuto e consiglio a medici stranieri, i quali, con un coraggio degno di ammirazione, si affrettarono tutti verso la regione appestata e si prodigarono generosamente, dando consiglio e cura a tutti gli abitanti della città e della campagna.

Sfortunatamente il risultato di tanta buona volontà fu nullo. Il numero dei morti fino al dieci luglio non cessava di diminuire. I cimiteri, da lungo tempo riempiti si stendevano in giro alla città di Wisborg come se essa fosse stata campo di una sanguinosa battaglia; da ogni parte si organizzavano processioni e pellegrinaggi per implorare la clemenza celeste, la quale non si manifestò celermente.

Principalmente i fanciulli erano colpiti e quando si passava per le strade di Wisborg, si era assaliti dal rumore di singhiozzi, se vogliamo prestare fede a testimoni degni di credito, perché da ogni casa veniva fuori l’espressione del dolore e del lutto. Non vi era un’abitazione che fosse stata risparmiata, nemmeno una, tranne quella di Giovanni Hutter.

È là che noi troviamo la meravigliosa fine di questa funebre storia, in quella casa così spesso visitata sia dall’amore che dalle lagrime, dove la povera Elena trovò ancora una volta non solamente la generosità del cuore più tenero che fosse al mondo, ma anche il coraggio di una vera eroina.

Il racconto di questi ultimi giorni noi l’abbiamo trovato in un rapporto del dottor Bulwer ed anche nelle note ufficiali degli archivi della Biblioteca Municipale di Wisborg ove c’è conservato un pietoso ricordo della povera donna.

Il sacrificio

Malgrado tutti gli sforzi che Giovanni Hutter aveva fatto per nascondere a sua moglie la verità, malgrado la congiura di silenzio ordita dalla sorella e dal cognato, Elena aveva finito per sapere che in città c’era la peste.

Essa dapprima fu presa da gran dolore e subito dopo, quasi naturalmente, provò grande terrore.

Si presero tutte le precauzioni perché non respirasse l’aria appestata.

Si provò di rassicurarla in tutti i modi, ma il nervosismo eccessivo trovava troppa materia per sovraeccitarsi. Tanto che la malcapitata arrivò ben presto in stato di demenza tale da doversi temer per la sua vita come se fosse stata attaccata dalla peste.

Essa passava il suo tempo cercando di nascondersi, perché continuava a vedere senza posa l’uomo nero che la inseguiva e fu così che un giorno, da dietro la vetriata scorse il viso del conte Horlok, che dalla casa in faccia alla sua, era alla finestra e tentava di ipnotizzarla.

Quando suo marito entrò nella stanza essa lanciò delle grida strazianti.

«Là... là» diceva, «egli è là…». Giovanni credette ad un’allucinazione ma essa mise tanta insistenza in questa sua affermazione, ed i suoi sguardi erano diretti verso un punto così preciso, che egli non esitò ad aprire le invetriate, ed a sua volta credette di venir meno.

Di faccia a lui, nell’abitazione in rovina... inquadravasi in un cranio calvo e dagli occhi lucenti: quei viso simile a quello della morte, era là.

Horlok lo guardava.... Horlok sogghignava... Horlok tendeva verso di lui le sue mani aguzze...

Quando ritornò in sé pensò che poteva essere stato vittima di un’allucinazione; chiamò il fratello e la cognata per accertarsene ma tutte e due videro la faccia spaventosa di Mosferatu e tutti e due compresero che il signore della terra della Morte Nera s’era allontanato da Wisborg e stendeva nella città le sue ali mortali.

Ogni cosa, a quella vista, fu chiara per Giovanni Hutter. Rivide, in un istante, il suo viaggio al paese dei fantasmi, il terrore dei contadini, la fuga dei suoi conducenti, la sua entrata nel castello bizzarro del conte.

Egli si rivide alla sua tavola, risentì le espressioni:

«Che grazioso collo ha vostra moglie».

Gli sembrò ancora rivedere il miserabile tener nelle sue mani la miniatura dorata, e pascersi in anticipazione del sangue di quella innocente.

Rievocò la notte spaventosa che egli aveva passata essendosi Horlok precipitato su di lui.

Poi quando egli s’era salvato dal castello non era stato Horlok che aveva visto in un sepolcro?

La terra della Morte Nera. Tutto si spiegava.

Questo demonio era stato attirato a Wisborg dalla bianchezza della pelle di Elena. Ed era venuto là ad abitare. Come cacciarlo? Chi sarebbe potuto arrivare ad ucciderlo? 

Ma no, questi potevano essere anche dei folli pensieri!

E se lui pure fosse stato preso dal nervosismo di sua moglie? E se queste allucinazioni non fossero che i primi sintomi della peste?

Chi sa se il male non si presenti pure sotto questa forma strana? Tutti questi pensieri turbinavano nella sua testa.

Egli li esprimeva ad alta voce, provava il bisogno di farli conoscere, ne parlava con Elena, perché subito si conoscesse che ella non aveva mentito.

Comprese pure che il suo amico Bulwer aveva ragione. Cercava il modo come poter lottare col mostro.

A tutte queste domande egli però non trovava risposta.

Constatò che a Wisborg nessuno si rendeva un esatto conto della situazione.

Dei giovani che avevano visto il viso di Mosferatu nei riquadri delle sue finestre senza vetri se ne erano fuggiti spaventati da quell’individuo spaventoso.

Parlarne ai dotti della città era ugualmente inutile perché Bulwer aveva provato invano di far loro comprendere che negli avvenimenti dell’ultima settimana vi era tale uno scompiglio che passava il realismo di loro competenza.

Lo stesso Bulwer, sia perché voleva tener segreto le sue cognizioni di demonologia ed in particolare la sua conoscenza dei Vampiri, sia che presentiva che Mosferatu avrebbe avuto per ultima sua vittima Elena e che questa disgraziata doveva essere sacrificata in questa spaventosa avventura, restava muto.

Si accontentava di portare diligenti cure alla moglie di Hutter pur constatando che di mano in mano che il tempo passava il suo stato diventava ogni giorno più inquietante.

Il primo giorno del mese di luglio, siccome la peste continuava ad infuriare a Wisborg e non avendosi alcuna speranza di potersene liberare, Giovanni Hutter ebbe con sua moglie questo singolare abboccamento:

«Io credo», mi disse Elena, «che sono per giungere tempi nuovi...».

Un po’ meravigliato di questa frase cominciata in tono profetico Giovanni interrogò:

«Che cosa vuoi dire con queste parole mia cara?».

«Io voglio dire che un giorno, e questo giorno è prossimo, Wisborg sarà liberata da questa bestia maledetta e voi vivrete felici».

«Perché voi?».

«Perché io non vedrò la vostra felicità...».

Egli la prese nelle braccia:

«Taci... Come puoi tu dire queste parole?».

«Perché esse sono l’espressione della verità».

«Ma vi sarà per me felicità, mia cara Elena, ove tu non sarai?».

«Ma sì, mio amato Giovanni, tu e tutti gli altri riprenderete gusto alla vita, il Vampiro sarà distrutto sopra la sua opera di morte». Poi continuò a divagare senza che Giovanni potesse comprendere il senso delle sue parole.

«Il figlio Bélial... deve morire come gli altri. Mosferatu, abitatore di bare, deve un giorno ritornare alla terra e marcire tra i vermi come un semplice mortale, perché il male è il male e la sua potenza per quanto forte sia, non potrà mai vincere quella di Dio...».

“Il giorno in cui il Vampiro troverà una donna pura e senza colpa che si sacrificherà volontariamente e gli darà a bere il suo sangue durante tutta la notte fino al primo canto del gallo, in quel giorno Mosferatu, figlio di Bélial, morrà, e la terra sarà liberata da lui”.

Tutta lo notte ella si esaltò in questi pensieri, tutta la notte pronunziò parole incoerenti, ma pertanto i suoi occhi erano fissi nella direzione della casa del conte Horlok, e sembrava sfidarlo.

Giovanni tentava invano di calmare la sua febbre. Le raccontava le storie del loro passato, voleva ricordarle la sua infanzia, i teneri proponimenti d’amore d’altri tempi; essa posava qualche istante i suoi occhi sul viso del suo amato ma non vi attardava lo sguardo.

«Sì... sì...» diceva «ma ora non è tempo d’amore...».

Egli si disperava, credeva che tutto ciò fosse il risultato di una spaventosa crisi di follia. Vegliava vicino al letto dell’ammalata e si sforzava del suo meglio a nascondere e dissimulare la finestra maledetta dalla quale passavano gli effluvi del conte Horlok, ma non vi riusciva.

E quando egli stesso si alzava, sia per prendere tra le braccia la sua Elena, sia per apprestarle qualche pozione calmante, ordinata da Bulwer, gli sembrava di vedere nell’oscurità il cranio nudo e funebre di Mosferatu, ed era preso dalla voglia di fuggire.

In tali momenti non erano bastevoli tutta la sua forza d’animo e tutta la sua tenerezza per la donna amata a trattenerlo al suo capezzale.

Passarono così ancora alcuni giorni poi il 10 luglio, successe la tragedia.

Durante il giorno Elena si era mostrata particolarmente calma e si poteva credere che i nervi si fossero calmati.

Aveva parlato dolcemente con sua sorella e col cognato; aveva scambiato qualche tenerezza col marito. Era stata così tranquilla che suo marito le chiese la sera di poter riposare, permesso che ella gli accordò volentieri perché, diceva essa, devi essere ben stanco.

Essa disse dunque addio a tutti i famigliari, e quando fu sola nella sua camera, prese la precauzione di chiudere la porta a chiave il più dolcemente possibile perché non fosse inteso il rumore della chiave nella toppa, indi si coricò e stette a letto fino a mezzanotte.

Essa però non dormi: aveva tra le mani quei libri strani che altre volte le erano stati vietati e che, malgrado la sorveglianza più severa, era riuscita a leggere sempre.

Leggeva le pagine con attenzione profonda e con tale interesse che si indovinava sul suo viso dall’espressione severa del suo sguardo e dai suoi lineamenti contratti. Non sembrava sovreccitata come d’abitudine, ma apparve concentrasse la sua volontà e i suoi sforzi per non farsi distrarre da alcuna cosa.

Finalmente suonarono i dodici colpi di mezzanotte.

Al disopra della città deserta in un silenzio quasi sepolcrale le ore cadevano come colpi di martello d’un falegname che inchioda una bara. Elena si alzò. Si diresse verso la finestra e la spalancò. La notte era rischiarata dal chiaro di luna, in cielo milioni di stelle. Al di sopra dei tetti e dei campanili della città avvelenata sembrava regnasse un’atmosfera di serenità, di serenità che ispirava pensieri caritatevoli e che poteva ispirare alle anime illuminate il desiderio di sacrificarsi perché la terra fosse felice come il cielo. Elena come respirò l’aria della notte, ebbe un brivido il quale non era dovuto solo ad impressione di freddo ma anche perché di faccia a lei, nella casa in rovina, ella aveva visto, come già vedeva da parecchi giorni, ma con una chiarezza ancor più precisa la figura di Mosferatu, le sue lunghe mani tese verso di lei ed i suoi sguardi di fiamma che sembravano riflettere l’inferno. Essa non abbassò lo sguardo. Per la prima volta si sentì eguale a quell’uomo e pregustava con terrore misto ad orgoglio la gioia certa d’essere, prima del sorgere del nuovo giorno, la martire volontaria e grandiosa del miserabile.

Infatti fu lui che subì il suo fascino.

Come spinto da una forza interna di cui non era padrone, egli lasciò la finestra che occupava abitualmente, discese gli scalini della sua casa, brancolando ed attraversò il ponte del castello. Elena aveva visto la sua ombra fantastica, smisuratamente ingrandita dal chiaro di luna che sembrava velare di crespo tutta la città.

Il Vampiro arrivò presso la casa di Hutter. A questo punto essa non si rese conto di come Mosferatu fosse giunto fino a lei. Nessuno lo seppe mai. Tutt’ad un tratto l’uomo nero si trovò vicino ad Elena.

Essa non tremò più. S’era rimessa a letto, attendeva che il conte Horlok fosse suo ospite, e pregava. Egli si avvicinò a lei lentamente, i suoi passi non facevano rumore sul tappeto tanto che si sarebbe detto che scivolasse sulla lana e che invisibili ali lo portassero da un posto all’altro della stanza come un angelo nero. Essa aveva i suoi grandi occhi aperti e lo sfidava, sentiva che suo malgrado egli andava verso il suo destino mortale e ciò le dava un gran coraggio. 

Tuttavia, quando vide sulle sue lenzuola bianche quell’enorme pipistrello, quel cranio lucido, quegli occhi gialli lucenti di fosforo, quelle unghie taglienti, acute, simili a dieci lame che avrebbero ghermito il suo collo, trasalì e non osò più guardare il conte.

Lanciò un piccolo grido tosto soffocato perché si aspettava quell’attacco, ed istintivamente portò le mani al collo.

Ma Mosferatu non aveva fretta di bere la vita a questa coppa di risurrezione; egli contemplava Elena, la toccava con le sue mani agghiacciate, sorrideva, indietreggiava, andava verso la finestra e sembrava cercare negli astri non si sa quale magica ispirazione.

Dopo di che si avvicinava alla donna, posava sul suo collo le sue dita crudeli, poi indietreggiava di nuovo, andava e veniva verso la stanza, e gioiva come avrebbe fatto uno sciacallo davanti alla preda sicura.

Elena respirava appena; viveva come in sogno, come alla fine di un incubo, quando lo spavento che si è subite va sparendo, e nella semicoscienza che precede il risveglio non resta che il dolore dell’incubo stesso.

L’angelo nero indugiava. Essa non chiedeva niente di meglio. Non potrebbe egli passare così tutta la notte? Non potrebbe egli compiacersi di guardarla tutta la notte fino all’aurora, quando il canto del gallo colle sue note gioconde avrebbe celebrato la liberazione del mondo?

Il conte Horlok s’era seduto. Non erano più gli occhi di Elena che lo affascinavano, era il suo collo, quel collo bianco del quale aveva parlato con tanto lirismo a Giovanni Hutter; quel collo che egli aveva sospirato come un fiore. Quel collo che era a sua volta un giglio, una rosa rosa, un calice, che aveva la morbidezza del velluto ed il calore del sangue, che aveva la gioia e la vita.

Quel collo che era come un’ala bianca, quel collo che attirava l’angelo nero come l’angelo della luce abbaglia il demonio.

Egli si levò, ritornò verso il letto, carezzò con una mano che si sforzava di rendere quanto più dolce fosse possibile, quel collo delizioso.

Poi, calmato dal suo contatto tornò a sedersi nella poltrona e si saziò di intimi piaceri come l’avaro che calcola le soddisfazioni che proverà dalle sue ricchezze prima di tenere il suo oro tra le mani.

Ad un tratto si decise. Si precipitò verso Elena, l’afferrò per la gola, le ficcò le unghie nella carne e golosamente, come una bestia bevve il sangue che usciva dalle piaghe, ogni goccia del quale ridava alle sue membra rigide il calore e la giovinezza…

Elena s’era dibattuta appena. Ella era già in estasi soffriva quell’atroce sofferenza, quelle mani impure, quella bocca immonda, perché aveva davanti ai suoi occhi, il più bello spettacolo che un mortale possa contemplare, quello di un paradiso celeste, dove le legioni immortali degli angeli suonano per quelli che si sacrificano, le loro trombe d’oro.

E questo canto trionfale, questo canto che “fa crollare la notte come un Gerico” risuonò pronto dopo di lei, riempì la sua camera coi suoi inni chiari di sole, si sparse sulla città in onde sonore, batté a tutti i vetri di tutte le case, a tutte le capanne, rabbrividì negli alberi, aleggiò sulle messi. Era il canto del gallo che diceva a Wisborg, agli abitanti della città, ai contadini dei sobborghi: «la peste è finita; il Vampiro è morto».

Infatti si sentì nella camera di Elena un gran rumore, con un colpo di spalla Giovanni, sua sorella e suo cognato penetrarono nella camera dove riposava Elena. Quando arrivarono furono inchiodati sul posto per lo spettacolo inaspettato che si presentò ai loro occhi; il conte Horlok con il viso decomposto, verde, rosicchiato dalla putrefazione, era disteso sul tappeto ed in una gloria bianca come un grande fiore intagliato, Elena sul suo letto riposava più bella dell’aurora.

Giovanni si gettò su lei la prese fra le braccia e la avvicinò al suo cuore; ella non si mosse, ella non respirò, il cuore non batteva più, ma aveva sulle labbra il sorriso rasserenato della felicità.

E nell’istante che Giovanni la depose sul suo letto tutte le campane di Wisborg si misero a suonare e mischiare il loro suono al canto di tutti i galli della città.

Tutti erano usciti sulla soglia dalle porte malgrado l’ora mattinale e verso il cielo s’innalzava il grandioso concerto al Signore. 

Bulwer si presentò a Giovanni, lo trovò così desolato, sì disperato che non osò dirgli nulla. Ma pigliando in disparte il cognato della morta:

«Beneditela», disse, «vantate le sue lodi, è a lei che noi dobbiamo la fine del flagello.

Così abbiamo potuto ricostruire dai documenti che abbiamo avuto nelle mani, questa storia che ci ha raccontato una sera nei Carpazi una vecchia arzilla.

Noi l’abbiamo raccontato così come si raccontò sempre ai fanciulli dei lontani paesi della Transilvania; e la terra dei Fantasmi oggi sbarazzata dal conte Horlok, le praterie verdeggianti, gli alberi fruttiferi e il grano hanno sostituito le paludi pestilenziali, e hanno trasformato, per il bene degli uomini, la terra della Morte Nera.  FINE.