Maurizio Cabona

Henry de Monfreid. Intervista a Stenio Solinas

A seconda di posti e momenti, il neo-colonialismo ha degli pseudonimi: “missione di pace”, “scudo nel deserto”, “primavera araba”, “lotta al terrorismo”... Chi ricorda la prima globalizzazione, cioè il colonialismo, nota che esso era meno devastante e ipocrita. E che agiva per beneplacito di altri Paesi colonizzatori, ma raramente in coalizione, come invece fa il neocolonialismo per ridurre i costi. Che cosa distingue una coalizione da un'alleanza? L'avere un padrone, non un “primus inter pares”.

L'Italia ha avuto per mezzo secolo un colonialismo subalterno, orientato cioè solo su quello che i precedenti colonialisti non s'erano presi. E ora ha un neo-colonialismo più che subalterno, dovendo condividere con altri perfino le sue aree di influenza. Insomma la Libia, che l'Italia aveva preso (1911-12) all'Impero Ottomano e che, con gravi vicissitudini (1942-43), aveva perso, per recuperarla (1969-2011) almeno come fonte energetica.

Altre terre dall'Italia conquistate tra fine '800 e 1941, Eritrea e Etiopia, rispetto al resto dell'Africa, specie della confinante Somalia, per ora prosperano (il Pil etiopico cresce del 10% annuo). In questa parte del mondo era arrivato a fine '800 un francese giovane, poi famoso come poeta, Arthur Rimbaud, che contrabbandava armi per gli abissini, onde avessero di che sparare agli italiani.

Circa quarant'anni dopo arrivò qui un altro francese, giovane e poi famoso in vario modo, Henry de Monfreid, che a sua volta contrabbandò di tutto. Per evitare che anche lui ci nuocesse, approfittando di qualche suo contrattempo con le autorità di Gibuti, l'Italia gli diede uno stipendio per della conquista italiana dell'Etiopia. Scrivere a favore, s'intende. Forse per questo, dopo la fine dell'Africa orientale italiana, lo si è dimenticato dalle nostre parti. In Francia invece questo avventuriero divenne stabilmente noto e visse a lungo, anche se sempre con qualche problema.

Nato nel 1879, Henry de Monfreid morì nel 1974, dopo felici incursioni nel cinema e nella musica, rispettato da grandi della letteratura, come Jean Cocteau. Ora Stenio Solinas gli dedica un'opera di letteratura in forma di biografia: Il corsaro nero (Neri Pozza, pagg. 252, euro 17).

 

Signor Solinas, la biografia è anche autobiografia. Quanto di lei stesso trova in Henry de Monfreid?

“Mi accontenterei di affinità. Nella vita degli altri si cerca quel qualcosa che fa scattare una rispondenza, un accordo. Non potrei scrivere, non saprei scrivere di qualcuno che detesto. Soprattutto, non mi interesserebbe. La vita è già breve, perché rovinarsela con chi non ti piace?”

Dove Stenio Solinas incontra Henry de Monfried?

“Ci sono molti elementi che sento miei. La solitudine per esempio, il gusto dell’indipendenza, la difficoltà a prendere ordini, l’amore per gli spazi liberi, il mare…

Non poco.

“Detto questo, la sua è una vita straordinaria, da qualunque parte la si guardi, e la mia è una vita ordinaria, comunque la si prenda, e quindi di autobiografico c’è poco o niente”.

Si è anche ciò che si vuol essere?

“Se è vero che ogni autobiografia, tanto più quella di uno scrittore, è menzognera, e che la menzogna fa parte delle verità di un essere, può anche darsi che in una biografia ci sia spazio per il mentir-vrai.

Ovvero?

“Il giocare fra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere, il reale e l’immaginario di chi scrive”.

Henry de Monfreid era un francese talora prestato all’Italia. Lei è un italiano che in Francia trova il suo meglio.

“Si cerca altrove quello che ci manca. Vale per le persone come per le nazioni. Negli scrittori francesi si sente l’orgoglio d’esser tali, il sentimento d’amore e di fedeltà a quel Paese, la sua storia, la sua lingua, gli usi e i costumi. Nel bene come nel male. Lo chiamano “romanzo nazionale”.

Negli scrittori italiani affiora mai qualcosa del genere?

“L’Italia è avara di romanzi e come nazione non ha mai avuto uno Stato che la incarnasse. Intellettualmente sono un emigrante”.

Scorge ancora avventurieri-letterati?

“Se ce ne sono, si sono ben nascosti”

Henry de Monfreid fa letteratura perché anche all’avventuriero vivere non basta: occorre anche raccontare?

“Gli avventurieri tout court non mi hanno mai interessato. Ci sono vite avventurosissime, pieni di rischi e di exploits e tuttavia piattissime una volta che a metterle sulla carta sono i diretti interessati”.

Perché?

“Perché dietro ci dev’essere dell’altro, uno spirito, un sentimento. In altri tempi si sarebbe detto una visione del mondo…”.

… Nient’altro?

“La scrittura, che è un’arte e un artigianato: si costruisce una frase, si costruisce un libro… Henry de Monfreid è interessante proprio perché faticosamente si interroga su quello che è, non si accontenta di essere quello che è”.

L’epoca di de Monfreid coincide con quella di Malraux e poi con quella di Romain Gary: sono giovani in periodi bellici e sono affascinati da aree coloniali. Ma ora il neo-colonialismo offre solo Bernard-Henry Lévy.

“Il fatto è che è cambiato tutto. C’è un mondo sempre più omogeneo e la facilità degli spostamenti finisce con l’annullare l’idea stessa di spostarsi. E’ la diversità a farsi sempre più rara e sempre più difficile da cogliere”.

La diversità è diventata impossibile?

“… Non che sia impossibile, ma è più faticosa, chiede tempo e sforzi e non ha un riscontro, parlo dal punto di vista editoriale. Per esempio, mi piacerebbe fare un libro sull’Oman, ma…

… Ma?

“... La risposta degli editori è: 'A chi vuole che interessi un libro sull’Oman?'. Così, il cerchio si chiude”.

E Bernard-Henry Lévy?

“Le dirò: non l’ho letto e non mi piace”.

“Fogli di Via”, marzo-luglio 2016