Andrea Molesini

gatti di Henri Cole

 

In una delle sue memorabili conferenze Brodskij, preoccupato dal poco interesse editoriale per i libri di poesia, disse di temere «che l’uomo, non riuscendo a manifestarsi, a esprimersi in modo adeguato, ritorni all’azione. Poiché il vocabolario dell’azione è soltanto fisico e si limita al corpo, l’uomo non può non ricorrere alla violenza, brandendo il suo vocabolario come un’arma là dove avrebbe dovuto esserci un aggettivo. […] La poesia è l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del cuore umano». Per fortuna non manca chi va controcorrente: Guanda pubblica una scelta di poesie di Henri Cole (Autoritratto con gatti, pp.248, €20), curata e tradotta da Massimo Bacigalupo.

Cole è nato in Giappone, a Fukuoka, nel 1956, da un militare americano e una madre francese di origine armena, ma è cresciuto nel Sud degli Stati Uniti. «In casa si parlava il francese, l’armeno e l’inglese, la sola lingua che capivo: fin da piccolo ho imparato a decifrare il mondo dal tono delle frasi, prima che dal loro significato». Cole racconta il mondo come fosse la sua casa, intento all’ascolto di tutti quei piccoli suoni che la abitano: il frusciare di una mosca dietro una tenda, il verso di un merlo inquadrato nella finestra. È un poeta che senza reticenza parla d’amore in tono dimesso e diretto, prediligendo la forma del sonetto non rimato: «Mi dispiace non poter dire che ti amo quando tu dici / che mi ami. Le parole, come dita umide, / mi si presentano davanti piene di possibilità ma poi scappano / in una stretta stanza nera che è sempre buia, / dove, silenziose ed eleganti come oro antico, / divorano quello che sento. […] Non voglio che le parole mi separino dalla realtà. / Non voglio averne bisogno. Non voglio niente / che riveli i sentimenti se non i sentimenti, come nella libertà, / o nella percezione della pace in uno spazio ulteriore, / o nel rumore d’acqua versata in una ciotola». La finezza di quest’ultima immagine – degna di un aiku dell’antico Giappone – ci costringe a tendere l’orecchio, a cercare nella memoria quel rumore così ovvio e consueto, a cui non avevamo fatto caso, metafora del misterioso divenire del giorno che fugge.

«Per diversi anni mi sono rifugiato in una casa su un albero in un bosco dietro la nostra misera dimora, in Virginia. Fu lì che appresi la necessità, per me, di diventare uno scrittore, cioè di essere esilio e non-appartenenza. […] I poeti contemporanei da cui ho imparato di più condividono tutti questo senso di non-appartenenza: Bishop, Merrill, Rich e Heaney». Ma ci sono altri modelli, non meno nobili, da cui Cole attinge: il Petrarca innanzitutto, il Lowell di Life Studies, Crane, Hopkins. «Cole – dice Bacigalupo nella prefazione – inaugura un aspro stil nuovo proponendo una serie di autoritratti e di momenti della propria autobiografia normalmente travagliata, e tutt’altro che illustre come era quella dei bostoniani Lowell». Incisivo il ritratto del padre: «Mio padre viveva in un mausoleo di piatti sporchi, / […] A uno a uno i suoi schnauzer morirono di epatite, / tranne quello che vegliò il suo cadavere / trovato con in mano un bicchiere di Bushmills. / […] Presi una camicia scozzese dall’armadio della camera da letto / e un po’ d’olio per motore: la mia eredità. / Una volta lo vidi piangere in un’aula giudiziaria – / malconcio, bisognoso di cure mediche – lui che non mi / mostrò mai particolare affetto ma mi trasmise un talento / per la solitudine, che tutto sommato mi è venuto utile».

Cole ha avuto una rigida educazione cattolica, che nell’adolescenza ha nutrito il suo senso di colpa per una omosessualità che nemmeno oggi vuole esibire, ma solo rivelare con grazia, con la reticenza feroce di chi crede nella verità a tutti i costi. Esprime il doloroso disagio dell’esistere, cosciente che la poesia risponda a una richiesta di complessità: «La complessità non è fumo. È una foresta. In una foresta sento di dimenticare me stesso. […] Mi sento circondato dall’incertezza, sento l’emergere e il dolore delle cose umane – matrimonio, perdita, infanzia, padri, madri, solitudine – lì sepolte. Nel fumo mi sento oppresso. Sento la bocca contro un muro di vapore denso, oscuro e irrespirabile». Disdegno, dunque, per ogni narcisistica oscurità, ricerca del bello attraverso la pratica di una immediatezza lessicale e sintattica, adatta a riversare nell’orecchio del lettore gioia, attesa, sgomento, perché solo l’emozione resiste.

Cole è un poeta dalle immagini schiette, che organizza in parabole dal sapore biblico, con stile icastico ma tono colloquiale; così canta l’incontro con uno Scricciolo morto: «La pioggia cade. Il cielo è afflitto. Tutto ciò che respira soffre. / Eppure le acque del dolore sono purificatrici. / Il soldato ferito guarisce. C’è vino e olio nuovo. / Ecco, prendi il mio fazzoletto per carro funebre».

Nelle poesie di Cole c’è anche il ricordo di Ovido, di Orazio, del Virgilio più meditativo, e vi si dispiega un bestiario tutto americano, di animali liberi, non domestici. Un bestiario meno nobile e altisonante di quello di Marianne Moore. Le scelte di Cole sono classiche: c’è la lepre («Ma nessuna forza dell’aria ci tocca, / come si tocca coloro che si ama, come io / carezzo una lepre che trema in una scatola di paglia»); c’è il gheppio «intento a beccare il suo pasto di topo scorticato»; ci sono le strolaghe, i cavalli, le scimmie. E ci sono le api, che già l’antichità associava ai poeti: «C’è forse qualcosa sulla terra che ci rende simili alle api – / che si levano all’alba, quando il sole brilla scarlatto, / si strofinano le une alle altre per un po’ di calore, e vanno avanti – / anche quando il mondo sembra un cumulo di rottami?».

È una poesia religiosa, quella di Cole, una poesia che parla la lingua di ogni giorno, e adotta i ritmi dimessi della preghiera. Una poesia addolorata per «l’abdicazione apparente di Dio dagli affari del mondo», scritta da un uomo pieno di passione, grato per la vita, ma scosso dal sospetto che il Dio invocato non sia più in ascolto.