Giorgio Mariani

la lingua di Moby Dick temibile sfida all’estro del traduttore

A meno di una settimana dagli attacchi terroristici dell’11 Settembre, in un articolo sul «London Observer», Edward Said fu forse il primo a istituire un parallelo tra i propositi vendicativi di George W. Bush e l’ossessione del capitano Ahab per Moby Dick. Said descrive la morte di Ahab come coronamento di una «finalità suicida», richiamando «la scena finale del romanzo», con il capitano legato alla balena dalle funi degli arpioni. Si tratta di una vera e propria s/vista: nel testo questa scena non c’è ma è invece presente nel film di John Houston del 1956. A questo errore fa riferimento John Bryant – probabilmente il più importante studioso melvilliano vivente – non per stigmatizzarlo quanto per corroborare la sua teoria del testo letterario come «fluid text». Secondo Bryant, tutti i testi, e in particolare i grandi classici come Moby-Dick, sono fluidi perché costantemente riscritti (in primis dai loro stessi autori, e poi dagli studiosi, certo, ma anche dalla cultura di massa) ed è semplicemente impossibile prescindere da tali riscritture.  Per lungo tempo, insiste Bryant, abbiamo voluto credere che se Herman Melville, dopo essere caduto nell’oblio, venne riscoperto negli anni ’20 del secolo scorso, ciò fu merito pressoché esclusivo del cosiddetto «Melville revival» orchestrato da accademici e intellettuali, ma in realtà un impulso fondamentale al recupero di questo autore venne da un film muto del 1926, The Sea Beast. Poco importa che il film di Millard Webb racconti una storia ben diversa dall’originale, con il capitano Ahab che uccide la Balena Bianca per fare poi ritorno a casa e impalmare la sua bella: l’epica melvilliana è stata in grado di sopravvivere non solo grazie all’opera dei suoi cultori (veri e propri stakanovisti di quella che è stata ironicamente battezzata «l’industria melvilliana»), ma alle trasposizioni cinematografiche, agli adattamenti teatrali, ai fumetti e alle riduzioni per ragazzi, e, di recente, grazie anche a una splendida opera lirica come quella di Jake Heggie e Gene Scheer. E, naturalmente, grazie alle traduzioni in dozzine di lingue diverse.

Le traduzioni sono da considerarsi un’esemplare forma di re-visione: anche la traduzione che più si sforzi di essere fedele all’originale non può che generare una nuova identità testuale, che non è più individuale, ma necessariamente collettiva. Questo non solo perché spesso i testi – e in particolare i classici – esistono in traduzioni multiple, ma perché le traduzioni, al pari delle letture critiche, sono intrecciate ai linguaggi e alle circostanze socio-culturali che nel corso del tempo rigenerano le opere letterarie. Non è un caso che due grandi intellettuali del Novecento come C. L. R. James e Cesare Pavese, abbiano voluto vedere in Melville un loro contemporaneo. Il primo sottotitolò il suo Marinai, rinnegati e reietti del 1952, «la storia del mondo in cui viviamo». Il secondo, vent’anni prima, nell’introduzione alla sua storica traduzione scrisse: «Tradurre Moby Dick è un mettersi al corrente con i tempi». Per il giovane Pavese, il problema non era portare un romanzo di ottant’anni prima all’altezza del presente tetro della dittatura quanto, al contrario, preservare la sua dirompente forza culturale e linguistica, la sua energia «barbara» eppure classicamente «greca», squarciando così il velo della mediocrità contemporanea.

Per quanti siano i meriti politici, culturali e artistici del lavoro di Pavese (vale la pena ricordare che se la sua traduzione apparve nel 1932, versioni integrali di Moby-Dick in francese e tedesco uscirono solo nel 1941 e nel 1942, rispettivamente), il romanzo è stato ritradotto in italiano numerose volte. Ciò è avvenuto non solo per una comprensibile necessità di correggere gli errori che nella versione di Pavese non mancano, né semplicemente per questioni di copyright. Il prestigio dell’opera è tale, e il suo linguaggio così polisemico e sovraccarico di echi intertestuali (da Omero alla Bibbia, da Shakespeare a Burton, dagli elisabettiani ai romantici), che Moby-Dick rappresenta una prova stimolante per qualsiasi traduttore. La versione di Ottavio Fatica, che Einaudi ha da poco pubblicato nella collana «Le Grandi Traduzioni» (2015, pp. 673), stando a quanto lui stesso ha dichiarato in un’intervista apparsa su «La Lettura» l’8 Novembre scorso, nasce proprio, dopo un rifiuto iniziale, dal desiderio di affrontare una sfida «troppo bella, troppo importante». 

In una collana con un titolo così impegnativo, di un editore di grande prestigio, è piuttosto sconcertante che non si dica sulla base di quale testo viene condotta la traduzione. Senza entrare qui nel dettaglio di una vicenda testuale molto complicata, si osserverà semplicemente che solo in epoca relativamente recente – con le edizioni della Northwestern Newberry (1998), e della Longman (2007) – si è arrivati a produrre un testo filologicamente soddisfacente. Una traduzione che vede la luce nel 2015 dovrebbe di necessità optare per una di queste due versioni, oppure spiegare perché si sia adottata una soluzione alternativa. A una prima ricognizione, mi sembra di poter dire che Fatica abbia fatto uso della versione Norton del 1967, che pur essendo alla base di quella del 1998, è ormai superata. Comunque sia, non aver indicato il testo di partenza è una seria mancanza da parte dell’editore.

La passione, la competenza e la cura con cui Fatica ha condotto il suo lavoro non sono in discussione, e oltre all’estrema attenzione ai termini marinareschi, non c’è dubbio che il testo sia caratterizzato da un certo numero di soluzioni felici. Una per tutte, il non semplice calembour “archibishoprick”, ignorato tanto da Pavese quanto da Nemi d’Agostino (edizione Garzanti), tradotto con un efficace “membro arcivescovirile”. Altre rese sono viceversa discutibili. Perché, ad esempio, tradurre «philosophical flourish» con «filosofico panache»? Come giustificare questo francesismo al posto d’un termine d’uso quotidiano? Più in generale, la sintassi di Fatica lascia talvolta perplessi. Se si possono capire, senza necessariamente condividerle, certe inversioni “poetiche” nei monologhi di Ahab («Maschere di cartapesta, altro non sono tutti gli oggetti visibili»), questa strategia retorica, applicata alla prosa di Ishmael, l’appesantisce, facendole perdere quel tono che nell’originale è di norma colloquiale anche quando il tema è serio: «Quel che invero è di mirabile nell’uomo e di pauroso né in parola né in libri mai finora l’hanno messo», per esempio, non rende il tono d’immediata e appassionata partecipazione con cui Ishmael commenta l’improvvisa malattia del suo «amico del cuore» Queequeg.

Questo non vuol dire che il traduttore debba precludersi una certa creatività. Ad esempio, Pavese scelse di tradurre con “giovane platonista dagli occhi incavernati” l’espressione “sunken-eyed young Platonist”, che Fatica, in questo caso optando per un’espressione più convenzionale, traduce con “occhi infossati”. Se il sunken dell’originale anticipa il rischio di annegamento (to sink vuol dire affondare) cui va incontro il giovane idealista, Pavese optò per un collegamento di natura filosofica con la caverna di Platone. Le soluzioni sono entrambe valide, ma solo Pavese sembra aver colto l’intenzione polisemica. Discorso analogo per il termine sinewing, che Fatica traduce correttamente con “retta” (si sta parlando della «malizia imperscrutabile» che regge la «forza atroce» di Moby Dick). Pavese, invece, coniò il neologismo «innerbata», termine che, come nota la studiosa Sarah Salter, copre tanto il significato anatomico di sinewing (innervare) quanto il «nerbo» (la forza) della balena, ma anche la sua natura fallica, richiamata dal testo più volte. Se, come si legge sulla quarta di copertina dell’edizione Einaudi, tutte le ritraduzioni sono almeno in parte anche contro le traduzioni precedenti, forse è bene che questo legittimo spirito agonistico sia, come lo squalo nel sermone del cuoco Fleece, «ben governato».

“Il Manifesto-Alias domenica”, 20 dicembre 2015