Michel David (St.-Michel-de-Maurienne, 1924) è stato lettore di francese a Genova e Padova, in seguito ordinario di italiano a Grenoble. E’ autore del fondamentale La psicoanalisi nella cultura italiana, più volte ristampato da Boringhieri, e di Psicoanalisi e letteratura (Mursia). Ha collaborato a “Le Monde” e a “La Quinzaine Littéraire con iterventi sulla cultura italiana. Si è occupato fra gli altri di Zanzotto, Eco, Calvino, Boine, Loria, Piovene, Caproni, Viviani  e del vicentino Gian Dàuli su cui ha pubblicato uno studio da Scheiwiller. Vive a Genova e ha in preparazione un volume di saggi di psicocritica. Altri suoi testi sono presenti su queste pagine.

Michel David

i pellegrinaggi letterari di Bacigalupo

Non è facile recensire una raccolta di recensioni (1). Dico recensioni, che è ingiusto in parte, perché questi pezzi sono stati pubblicati su giornali in poco più di 18 anni (la maggioranza è scritta fra 1990 e 2000). Moltissimi sono articoli o corrispondenze dettati da necessità redazionale di un giornale (spesso il “Secolo XIX”), oppure “occasioni” in prosa, ispirate ad eventi culturali vissuti dall’autore. Si tratta di un “Diario in pubblico” (cfr. Vittorini) che, se non si può affatto definire intimo, traduce una soggettività discreta, filtrata, sotto l’oggettività obbligata del “giornalista”, e la varietà tipica appunto delle “occasioni” (titolo ligure!).

    Dirò subito che il libro si presenta bene, con una veduta luminosa dalla chiesetta (montaliana) di Portovenere e una parte finale di fotografie (non patinate) di atmosfere, personaggi, ritratti, una quarantina che hanno un rapporto stretto col testo. Quelle vecchie della Old America mi hanno tra le altre molto colpito.

         Il titolo (Grotta Byron. Luoghi e libri) è dovuto a uno dei pezzi più felici del metodo espositivo di Bacigalupo e stimo che ci si debba fermare un attimo sul suo senso. Ho scoperto da poco che la arcaica “crotte” francese era stata il tramite etimologico che ha fatto passare dal “xruptos” greco e dalla cripta latina, a questa gemella italiana della cripta religiosa. La “grotta” ha in italiano tanti significati, secondo i dizionari, ma nel libro è senza ambiguità quello di anfrattuosità naturale che, dopo la Chiesa di Porto Venere, è permesso visitare quando il mare lo permette e dove Byron sembra abbia iniziato una formidabile nuotata verso Lerici.

         Imparerete da Bacigalupo che questa nuotata è stata probabilmente molto meno lunga e insomma mitica o mitizzata. Ma il breve pezzo ironico ci fa incontrare in quella grotta una serie di personaggi illustri: naturalmente l’ombra di Byron; poi un conte italiano che nel 1877 fa apporre una lapide bilingue (con errore di traduzione in inglese), che poi, subito dopo, il romanziere Henry James (Massimo non sembra ammirarlo com’è dovuto) descrive nel suo diario italiano della sua visita “grottesca”; cinquant’anni dopo, Ezra Pound (che Massimo legge nelle carte inedite dell’Archivio di New Haven) aveva incluso la grotta e Byron in un pezzo soppresso dei Cantos (il 49) con un nuovo errore, ma di lettura, della lapide. Pound aggiungeva una frase in vecchio francese (à 40 ans et force ma gourme jectée) che rimane, credo, adespoto dopo ricerche di Massimo (ho anch’io cercato di rintracciarne l’origine: Villon, Marot...) con credo un errore di memoria (force ma gourme mi pare impossibile (force = molto). Pound poi evoca anche Swinburne, altro nuotatore mediterraneo.

         “Evidentemente” scrive Bacigalupo “anche Pound, che passò più di vent'anni a Rapallo, era un buon nuotatore. Ma quello che più incuriosisce è il sovrapporsi di queste figure caratteristiche di vari momenti della letteratura e del costume fra '800 e '900: prima Byron, poi James che decrive e ironizza sulla lapide di Byron, quindi Pound che rilegge la lapide e ironizza su James... Il tutto sotto l'egida di Venere e di un luogo dove, per tornare a Montale, ‘ogni ora prossima è antica’.”

         La Grotta è un  elemento terrestre, opposto all’acqua del Tigullio, insomma uno Spazio naturale avvolgente, cosmico; la lapide del conte è uno scritto umano, in segni simbolici, che ricorda un “immortale poeta”; questo scritto viene letto da un romanziere americano-europeo, che ne ricava una nota di diario, che un poeta americano, anni dopo, legge e riscrive in versi, cancellati, ma eterni nell’archivio americano di New Haven (un altro porto, ma di simboli), evocando Byron, James e Swinburne, tre fabbricanti di simboli verbali. Questa grotta, spazio senza tempo, diventa così produttrice di serie di scritti (o echi verbalizzati) che si trasmettono, nel Tempo, da uomini a uomini, messaggi ambigui e fraintesi.

         La Grotta così genera il Libro, lo Spazio cosmico genera questo misterioso strumento che iscrive minuti effimeri e li trasmette ad altri scrittori di simboli e istituisce una dimensione che il Cosmos forse non ha, il Tempo o meglio ancora la Durata. Il soggettivo. I Luoghi generano i Libri.

         E Bacigalupo prende “piacere” (una parola tematica,  mi pare) a passeggiare in quell’ “Atlante letterario” che i suoi poeti o romanzieri più (o meno) cari gli offrono perché anch’egli contribuisca a perfezionarlo, commentando Omero con Omero, Pound con Pound, attraverso l’universo ormai “infinibile”  dei chiosatori.

   Ho esaltato la Grotta di Arpaia (2). Ma si deve tener presente che questa anfrattuosità – di cui non cerco qui di valutare le connotazioni inconsce – è sul Tigullio, alle porte del bacino di Rapallo, dal quale si potrebbe idealmente porre l’autore di questi racconti di avventure marittime mentali per osservare, con un privilegio che rivendica tacitamente, una zona del globo che gli è più cara, originaria.

         Infatti, egli ha raggruppato le sue 50 variazioni, estratte dal libro dei suoi viaggi geo-mentali, attorno a un asse che in filigrana o direttamente mi pare sia proprio il Tigullio e la sua capitale Rapallo.

         Vi è anche una ragione, se posso dire, paterna in questa posizione d’osservatorio. Devo ricordare che Giuseppe Bacigalupo, padre di Massimo, medico rapallese, di origine italiana e tedesca e marito di una medica italo-americana, ha anni fa pubblicato, dallo stesso editore e con una veste identica, un Ieri a Rapallo, che sta per uscire di nuovo un po’ ampliato, ed è stato un brillante panorama degli anni rapallesi dell’entre deux guerres e del secondo dopoguerra. Immagino che si vende nelle librerie rapallesi come una specie di guida raffinata destinata a illustrare (rendere illustri) luoghi, ville, alberghi, ritrovi, della Rapallo mitica di quegli anni attraverso l’evocazione dei suoi famosi ospiti stranieri (specie se tedeschi e anglo-americani).

         Ma Giuseppe Bacigalupo, che nella sua Clinica curò molti di questi personaggi, rappresentò le loro avventure rapallesi tenendosi, direi, nel cuore della città stessa, come il moggio di una ruota. Massimo scrive da molti punti del mondo, con una preferenza per personaggi che la sua qualità di specialista anglo-americano gli offre, ma anche per una fedeltà profonda ai più famosi di questi tipi tigulliani.

         Nella sua prima parte, Ulisse a Dublino, l’approccio è più distante: un convegno in Finlandia, a Copenhagen su Joyce, una lunga visita al Joyce sveviano (una eccellente messa a punto), anche di quello legato a Nora e sottilmente perfido con la moglie di Svevo (Anna Livia Plurabella), un’altra alla Dublino di Ulysses (un “immaginoso itinerario commentato”); scorci che lasciano intravvedere l’importanza che Bacigalupo attribuisce a Joyce, come padre della “Modernità” (e Svevo ne viene illuminato per riflesso). Ma Joyce è occasione di eccellenti pagine di viaggio sull’Irlanda del Nord Ovest (un Tigullio irlandese, sulle isole di Aran) e su quella centrale cara a Seamus Heaney – sulla Scozia di Glasgow. Il Lake District degli amici Coleridge e Wordsworth sono pure evocati ma con più distacco. E due occasioni sono polacche (Cracovia) e polaccoamericane con Singer. Questa prima parte è radicata all’Europa del Nord, un po’ finnica o slava, ma soprattutto irlandese.

         La seconda Parte è consacrata agli USA, enorme continente “senza storia” (storia europea) ma dove l’iscrizione nelle carte del Tempo di una storia un po’ breve si fa per esempio negli Archivi infiniti di New Haven, “felpati, climatizzati”, dove Bacigalupo so fa il Boswell di Pound specialmente per gli spiragli aperti sull’Italia; Eliot, Melville (il massimo romanziere, per Bacigalupo, rivisitato nel suo quartiere della Batteria di New York, in un delizioso pellegrinaggio letterario/turistico.     

        Vi sono pure la misteriosa Dickinson e Wallace Stevensm -- tradotto da Massimo -- e Henry Roth, e Fitzgerald (che rimane un po’ in ombra nelle ammirazioni dell’autore), e il sardonico Faulkner (un bellissimo saggio condensato, cui manca solo l’analisi dell’episodio scandaloso di Faulkner a Genova nel 1925) e un saluto da nipote a zia, con Fernanda Pivano, e da compagno a compagno, con Sergio Benvenuto, filosofo e americantista.

         Ma l’acme del tigullismo di Bacigalupo si legge nella terza parte in cui Portovenere (l’ho detto), Fiascherinoi (e Spotorno con gli amori dell’amante di “Lady” Lawrence), H. Furst evocato da Soldati l’americano (antiamericano, secondo il francese Michel Beynet), le vacanze liguri dell’americano medio Pozzi,  Hemingway  in una ottima esegesi di un racconto tra i primi del romanziere, il Tigullio di Pound (con evocazione dei suoi illustri amici e del Vico dell’Oro – il centro della raccolta); le ceneri di Shelley; i viaggiatori di oggi. E le pagine nostalgiche sul Padre, sui dispersi (Ubi Sunt), e le evocazioni di alcuni “stranieri” al Tigullio: il grossetano Bianciardi antirapallese, la napoletana Ortese ammirata nei suoi ultimi anni e un ottimo narratore che pochi conoscono, perché quasi del tutto inedito, Pietro Carlini (piemontese di Varzi, ma procuratore a Genova e romanziere veramente eccezionale: Spiriti mali e L’idéal). E ci sono perfino due delfini stranieri descritti nel loro melvileggiare sotto la barca dell’autore stesso.

         Nello Splendore nell’erba (una citazione da Wordsworth, che serve da pretesto per una brillante novella immaginaria di chiusura), la quarta parte, meno organicamente costruita, si lascia il Tigullio per evocare un convegno di anglosassoni a Cadenabbia, e vi si rende conto di una serie di studi di amici (e rivali), Masolino d’Amico, “accenditore di lampadine critiche”, un viaggio molto toccante per me nella Douce France del Sud, quella ricordata da Pound in Arles, o nell’ottimamente cercato Périgord, e i misteri di Excideuil, la Terra Santa visitata da Melville, un salto da

Kenzaburo Oe nel Giappone e un altro nell’India.

         Non si può chiedere a questi testi destinati anche a lettori non specialisti lezioni di metodo pedanti. Ma bisogna rilevare qui quanto brillante aggiornatore, rapido, preciso, leggibilissimo, sia Bacigalupo, nel suo “felpato” archivio letterario. Leggendo Grotta Byron, ho pensato al mio maestro ideale d’adolescenza letteraria, a Valéry Larbaud, questo “genovese” per matrimonio e ammirazione urbana (viveva spesso, prima della paralisi, in Via Casaregis). Era un grande conoscitore di lingue e di testi, traduttore per gusto (tra l’altro, anche se un po’ troppo “spiegato”, dell’Ulysses di Joyce), viaggiatore letterario, edonista, osservatore cordiale, di gran “gusto e intelligenza”, maestro di “divertimento e riflessione”, frôleur leggero di “trasgressivi” e visionari, “lettore stereoscopico” per cui leggere è “viaggiare nel mondo con tante dimensioni del testo, nel tempo”, con “occhio appassionato e commosso”, creatore di un “atlante letterario internazionale” per poter condurre i suoi “pellegrinaggi letterari” con fedeltà e riti sicuri (tutte le mie virgolette ritagliano espressioni disseminate nella Grotta di Bacigalupo e si adattano a lui).

         Non oso parlare di “turismo letterario”, né di “collezionismo di celebrità”, né di una rivendicazione “sociale” in difesa di un grande popolo di scrittori sublimanti. Preferisco insistere sul “pellgrinaggio”. Si sa che il primo maestro moderno di questa specie di “pietà” religiosa, sotto un apparente laicismo,  è stato Petrarca che i suoi fedeli cinquecenteschi, Rime cartografate in mano, andavano a Valchiusa in rogazioni acquatiche e le “Précieuses” della Scudéry decalcavano nella “Carte de Tendre”. Cercare di capire “i modi in cui gli uomini pensano se stessi”, nei luoghi in cui si sono così pensati, per beatificare questi luoghi, non so se sia un’impresa eetrinseca all’opera letteraria. Ma mi pare che rimanga oggi un segno di grande e necessario affetto per un’attività traballante, la Letteratura.

         La modernità, del resto, ha allargato questi luoghi da visitare e molti degli spazi privilegiati da Bacigalupo sono dei “luoghi non illustri” dove però il “mondo è stato visto come soggetto”, e “oggetto di passione e piacere”, anche in “folgoranti” incontri con il “selvatico”. Il Mare mi pare dominare questa “Queste” e appare, nella Grotta Arpaia e nel tigulliano Pozzetto come il mare del “fantastico, dell’interiorità, del Tempo”, ma anche quello dei due miracolosi delfini, e di “un’infanzia risognata”.

         Certo Bacigalupo costeggia con leggerezza e misura i bordi in cui i suoi santi poetici toccano spesso la vertigine della ribellione, dell’Inconscio. Non li nasconde, consapevole che la poesia “ristabilisce il senso di una vita e della sua complessità”. In questi saggi brevi e vivaci le province letterarie sono privilegiate nei confronti delle capitali mondiali (tranne forse per la New York di Melville e Roth – simile a quella del Voyage celiniano – alquanto rappresentata “provincialmente”). Il Tigullio può quindi apparire legittimamente come luogo metaforico centrale di questi pellegrinaggi letterari della modernità.

da “Poesia”, giugno 2002, pp. 72-76

 

(1) Massimo Bacigalupo, Grotta Byron. Luoghi e libri,  Udine, Campanotto, 2001, pp. 206. Questo articolo è la rielaborazione di un intervento tenuto presso la Biblioteca Universitaria di Genova il 21 giugno 2001 per la presentazione del volume, accompagnata da una mostra bibliografica e fotografica.

(2) Arpaia, un nome di cui mi piacerebbe sapere l’etimologia, ma dalle consonanze ambivalenti (arpa, arpìa) e di cui vedo, ormai, proliferare l’omonimo cognome: il romanziere ispanidta Bruno Arpaia, il “medico di famiglia” Michele Arpaia...