Marguerite Moreno ( 1871-1948) non s’illustrò soltanto tra le due guerre sui palcoscenici e sullo schermo francesi (segnatamente a fianco di Guitry e Jouvet) ma fin da giovane raccolse gli apprezzamenti di A. France e S. Bernhardt oltre a quelli di Colette con la quale strinse l’amicizia di tutta una vita: in quel falansterio di sole donne che includeva anche Musidora, racconta l’autrice di Cheri, la Moreno spargeva il seme miracoloso del riso, lo stesso che doveva aver raccolto Marcel Schwob, il quale amò la giovane attrice fino alla propria fine, indirizzandole quelle lettere che costituiscono il Viaggio a Samoa (1901-1902), intrapreso per guarire sulle tracce di Stevenson. Ora le edizioni Ombres le hanno ristampate in forma ampliata mentre S. Goudemare, autore della minuziosa biografia pubblicata da Cherche midi nel 2000, ha curato per Phébus una nuova raccolta delle opere di Schwob; lo stesso editore ristampa soprattutto i Souvenirs de ma vie della Moreno. Noi, per il poco che  ci compete, diamo la traduzione di una lettera di Colette all’amica e di un’altra dello scrittore alla moglie.

 

Colette / Schwob

a Marguerite Moreno

 

Colette

5 settembre 1931

Cara Margherita,

aspettavo le notizie che ho ricevuto ieri. Ahimè, anch’io devo rientrare. E non ho terminato il libro. E’ desolante. Rientrerò alla fine della settimana prossima, senza soldi, punto scoraggiata, ma accidenti, io e Maurice attraversiamo un brutto momento. Guadagna tanto e dopo potrai dire m…a chiunque. Hai incontrato mia figlia in uno studio o altrove ? Mi scrive parole gentili e distratte. Arrivano i temporali di settembre. Se sono frequenti, mi consolerò della partenza. La stagione è stata tanto bella, calda e fresca al punto giusto, senza nuvole, ma –credimi- non è un posto per lavorare. Va bene per quando si è smesso di lavorare. Questa settimana si vendemmia. Oh quanto t’amo, Marguerite! Ti abbraccio. Tutti questi meloni, questi fichi che mi lascerò dietro !

La tua “nera”

COLETTE

§

Marcel Schwob

 25 ottobre 1901

      

A bordo della Ville de la Ciotat, canale di Suez, venerdì 25 ottobre 1901, ore due del pomeriggio

          Amatissima Marg, mi hanno appena consegnato il tuo telegramma, passato per Ismailia, con cui mi rassicuri. Sei stata gentile, cara, nel pensare di farmi avere tue nuove: resterò così tanto senza riceverne ! E adesso che ti so in buona salute e non troppo triste, sono più tranquillo. Dovresti già aver ricevuto il biglietto inviato da Port-Said. Tra cinque giorni potrò scriverti da Gibuti. Ieri, dopo averti lasciata, il rullio è allegramente continuato. Ma c’era un tempo bellissimo.; l’aria inesprimibilmente dolce; il cielo d’un azzurro pallidissimo, con nuvolette bianco-opaco. Cena con rullio e con “violini”. Poi la luna sulle onde e la schiuma. Dovremmo giungere a Port-Said a mezzanotte. Verso le undici, in fondo al cielo, a destra, un fuoco rosso, molto debole,, che s’eclissa: è il faro di Damiette. Subito, davanti, un altro fuoco oscilla e beccheggia nell’aria. Sopra il mare pare picchiettato di puntini brillanti che fluttuano; è una nave diretta al canale che raggiungiamo velocemente. Di colpo due stelle, rosso scuro, cadono dal cielo nel mare duecento metri a babordo: possano, cara, portarti buon augurio! E ora, dritto in avanti una linea opaca con due luci intermittenti; la Ville de la Ciotat si ferma; siamo in vista di Port-Said. Un altro faro si accende: oscilla e volteggia, cresce enl buio; e all’improvviso, quando mi accorgo che si tratta di un fanale in cima ad un albero e che si tratta del profilo di un’imbarcazione, due razzi s’innalzano e mandano scintille. Stavolta è la barca pilota. Si parlamenta: la Ville de la Ciotat avanza lieve tra barche ormeggiate, come attraverso un’ampia strada di mare, lungo una piazza d’acqua dove scorgo, come sfumata, una statua spaventosa di Ferdinand de Lesseps, poi costeggiamo la banchina. Da un caffè-concerto si sente provenire il suono di un’orchestra. E’ mezzanotte e mezza. La scialuppa del servizio sanitario si accosta, e passa un’altra mezzora. Finalmente sistemano la scaletta e saltiamo nelle barche degli Arabi che ci portano sulla terraferma. La strada maestra di Port-Said è illuminata: magazzini di sigarette, bazar, botteghe di cartoline; passano dei fellah in tarbuk con vesti azzurre, tuniche gialle o brune; agenti di polizia, la divisa stretta dal centurone; altri portano turbanti a righe. Ognuno vi interpella in inglese, francese o sabir Compro due vestiti khaki, un paio di scarpe di tela chiara, un casco di cui non posso fare a meno. I miei compagni si precipitano verso le cartoline postali; e mentre le scelgono attentamente, li aspetto in strada. Un bambino, orribile, con una lunga veste scolorita, si lancia verso di me da una stradina nera e mi tira per la manica: “ Vieni, Moussié, vieni a vedere le belle ragazze “. Un tipo, cieco da un occhio, mi offre gentilmente un sedia su cui mi sistemo; altri due si avvicinano, uno, un bel bruno, ha baffi arricciati. Un anziano in turbante e caffettano verde si appoggia ad una canna e volge verso di me un viso di bronzo. L’aspetto della mia faccia rasata risolve i pareri ed il cieco, seduto su un’altra sedia, mi dice: “Io molto piacere artisti. Molti artisti a Port-Said. Tu conoscere Mevisto, il grande ?” Faccio segno di sì. “Mevisto, padrone di me tre anni. Tu parlare a lui di ‘brahim. Lui molto piacere ‘brahim. E poi madame Dudlay, anche. E il direttore di orchestra, molto bravo, lui belga. Tu andare lontano ?” E gli rispondo: a Colombo e poi in Australia. Allora la faccia del cieco ‘brahim si fa triste e dice: “Io mai Colombo, mai Australia, soltanto Cairo”. Riderai, penso riandando al cieco che mi parlava di Mevisto nella rue du Commerce, a Port-Said, all’una e mezza di notte. In quel tratto, uno della compagnia esce dalle bottega e chiede delle cartoline trasparenti. Il bel bruno si leva ed estrae un pacchetto dalla tasca. A sua volta il padrone della bottega: “Qui ladro, grida, qui carte da gioco !” E si gira verso di me: “Lui più grande ruffiano, dice, lui grande macrò !” – e tra le risa- “Lui tutto quel che vorrai. Così (con il dito in bocca) o così (le mani aperte dietro le spalle e mimica espressiva del didietro). Ruffiano !” Il bel bruno dai baffi arricciati, per niente vessato, rimette le carte in tasca e sorride. Vedo passare  ragazze ben in carne; più lontano un gruppetto di missionari, assillati da proposte, e due povere monache, allo sbando, in tutto questo. Alla luce di una bottega riconosco Ting sceso a terra con un altro cinese. Il capo del cinese gli ha dato un foglio di foto oscene. Ting è fuori di sé. “Oh so bad people” esclama. Alle tre e mezza, ritorno alla Ville de la Ciotat acquattata in rada come un gran mostro bianco che inghiotte carbone.. Tutto è ermeticamente chiuso, cabine, portelli, oblò; un’orribile polvere nera ricopre ogni cosa; si soffoca. Finalmente mi corico senza dormire; da ogni parte passano fellah carichi di sacchi; sinistri figuri spiano agli angoli dei corridoi; le catene cigolano; i verricelli gemono. Poi, alle cinque, il baccano scema. Quando mi sono svegliato, eravamo nel canale. Sempre il cielo bianco-azzurro con nuvolette opache, un poco striate di rosa, il cielo d’Egitto; un canale dalle rive piatte come quelle della Senna di buon mattino; oltre, le lagune simili alle saline dove riparano bianchi uccelli, raccolti in circolo. Non è più l’acqua preziosa del Mediterraneo: questa è verde, eppure limpida. Poi dune sabbiose, macchie nere, una casa che pare venire da Villeneuve-Saint-Georges o da Ris-Orangis. D’improvviso due palme, a ventaglio nel cielo, con grappoli di fiori. E ancora una chiatta araba, uomini scuri, con turbanti, che remano; un vecchio nudo che raggiunge la sua barca nuotando, con l’involto dei vestiti sulla testa. Operai fellah che guardano passare la nave. L’incontro con un trasporto tedesco proveniente da Durban, pieno d’uomini con casco bianco, di donne e d’indigeni; ancora la riva, le dune, la sabbia a cumuli. E repentinamente,sul bordo, due pensosi cammelli che passano. Il sole crudo, in un cielo bianco-azzurro, l’aria tiepida che spira in faccia; il calore forte che prende e accarezza il corpo; mosche a sciami: siamo entrati in oriente. Ora sono le quattro e mezza e comincio ad avere veramente caldo. Poiché non ho ancora messo il khaki: ma domani devo farlo. Malgrado la lunghezza del viaggio, nulla sorprende quanto la rapidità con cui mutano cielo, mare, e paesaggio. Dallo Ionio alla riva egiziana, sembra d’essere stati trasportati in sogno. E la carezza dell’aria, dapprima fresca, s’è fatta insidiosamente dolce, per stringere più forte. Solo qui ho capito l’orrore della contaminazione operata dalla razza bianca. Senza dubbio i fellah non erano puri, né casti; ma si avverte l’orrore nel vedersi ingenuamente offrire da loro le carte trasparenti fatte a Bruxelles e Amburgo (Vieni a vedere nella sala, Moussié) con la certezza che hanno così di piacervi. E la larga risata con cui, impudicamente, il cinese mi ha mostrato le foto dategli dal capo mi ha fatto male. Il padrone aveva dato: quindi andava bene. Il nostro vizio si sostituisce ai loro come le nostre religioni sostituiscono le loro credenze: perché vedervi delle differenze ? Ho incontrato un abitante di Montmartre che sta in place des Abbesses. Un certo Alexandre, tipo grande e rossiccio. Era amico di Courteline e andava al Clou insieme ad un certo dottor Pfinder, ora morto. Su questa barca s’incontrano uomini molto istruiti e d’alto rango; quest’uomo va a Saigon per affari. Ma ha abitato ventitré anni a Montmartre, e di tutti è il solo ad apprezzare la sfumatura di una nube e le radiose tinte di mare e cielo. Ed ora basta, mia cara, adorata Marg, fino a Gibuti da dove avrai una lettera più lunga…Sto il meglio possibile (vale a dire meglio, eccetto quel che sai). Ti abbraccio, mia cara, my love, e t’amo più della vita mia.

                                  Il tuo Marcel

 (a cura di J. Montalbano)