Jean Montalbano

il sonno del farmacista

La pubblicazione di Batavia’s Graveyard da parte di Mike Dash ha bruciato la gran mole di materiale che Simon Leys, sinologo sui generis già autore di scritti sul maoismo, Orwell e Gide, Malraux (accanto ad Omaggio alla Catalogna la prosa brumosa e flatulenta di L’Espoir  è solo “chiacchiera da caffè”) andava raccogliendo sul naufragio “inaugurale” della nave olandese Batavia avvenuto nel 1629 lungo la nuova rotta verso l’Indonesia. E’ lo stesso autore belga a ricordarlo nelle righe iniziali di quello che presenta adesso come la traccia di un libro che avrebbe potuto essere (Les naufragés du Batavia, Arléa,2003): poche decine di pagine a ribadire la strana attrazione, anche qui, non tanto per l’evento in sé (un naufragio al largo della costa occidentale australiana non ancora colonizzata dai reietti britannici) quanto per il dopo, ovvero la violenta istituzione e successiva (o contemporanea) dissoluzione di una comunità di naufraghi. Tentativo reso possibile, e su questo ormai molti concordano, dalla presenza a bordo di quel Jeronimus Cornelisz, già farmacista, di ambiente anabattista e rosacrociano, pronto ad emulare, negli stessi fallimenti, l’esperimento tentato un secolo prima da Giovanni di Leida a Münster.

Critico delle icone che ci meritiamo e che un’epoca finta e amnesiaca conserva nei suoi incasinati pantheon, Leys pare essersi interessato alle vicende del Batavia per affinità marinaresche prima e prossimità geografiche poi: ma nel trattamento severo del sogno dittatoriale di Cornelisz ritorna lo spietato ed ironico osservatore che nel 1971 seppe rompere l’incanto dei maolatri  parigini che ancora si affannavano a cercare significati “culturali” nelle stragi delle bande maoiste.

Il racconto dell’antagonismo tra un commissario della Compagnia delle Indie orientali deciso a salvare comunque i passeggeri superstiti ed il suo vice, ex farmacista rovinato in cerca di rivincite (già seguace di quel sulfureo Torrentius le cui opere pittoriche, in odore d’eresia, furono distrutte per decreto nei tolleranti Paesi Bassi) viene scandito dalle efferatezze “teatrali” montate da quest’ultimo che, rileggendo il copione scritto dal re degli anabattisti, nei muri socializzati del crimine prova a costringere la mercurialità nascente di una comunità altrimenti sfuggente. Sotto la minaccia della penuria, ai trecento scampati, dispersi per gradi di fedeltà nei poco più che scogli al largo della costa, uno psicopatico sanguinario impone di rivivere per un centinaio di giorni, seguendo la nota trafila di efferatezze, ricatti e abominii (non eccettuato un pizzico di comunismo delle donne, invero poche già in partenza) l’incubo “comunitario” della trasparenza assoluta, ravvivando il brivido inconsapevole ed estenuato della fraternità del libero spirito.

 Mentre in Europa si consolidava la potenza assoluta dello Stato, agli antipodi lo scellerato di turno provava ad elevargli un morente controcanto, ribadendo nella carne di poche centinaia di sventurati (pur se il motto di Burke ammonisce: “affinché il male trionfi tutto quanto occorre è che le brave persone non facciano niente”) il ferro arrugginito dell’idea comunitaria: quello che forse fu il primo insediamento europeo in terra australiana, risultò, oltre le carte giudiziarie della spedita giustizia olandese (che al criminale Cornelisz riservò, prima dell’impiccagione, il taglio delle mani) lo stringato resoconto dell’inferno invocato e preparato da chi voleva offrirsi paradisi in terra.