Renato Venturelli ci ha concesso in anteprima questa intervista approntata per Cinema & Generi 2010 edito da  Le Mani.

Renato Venturelli

eroi senza pietà: intervista a Mario Lanfranchi

   I cultori del cinema italiano di genere lo ricordano soprattutto per un western (Sentenza di morte, 1968) e per un poliziottesco anomalo: Genova a mano armata, 1976, ormai visibile da troppo tempo solo in una versione terribilmente massacrata. Ma Mario Lanfranchi non è solo un regista di film, è uomo di teatro, di musica, di cinema e di televisione a tutto tondo, figura-chiave della tv italiana negli anni pionieristici, inventore negli anni Cinquanta di un modo innovativo di riprendere le opere liriche, produttore di Caroselli, impresario e regista teatrale sia in Italia che a Londra, nonché proprietario di cavalli e levrieri da corsa. Nato a Parma nel 1927, figlio del Sovrintendente del Regio, fidanzato della Tebaldi e marito di Anna Moffo, era dato addirittura per defunto nel Dizionario del western all’italiana di Marco Giusti (Londra 2006 la data fatidica): in realtà gode di ottima salute e non ha niente a che spartire con l’omonimo caratterista con cui viene spesso confuso nelle filmografie.

 

-  Come arrivò al cinema un regista di formazione musicale e teatrale come lei? E come si svolse la sua formazione?

-  Sono cresciuto nel mondo del teatro e quella era la mia passione, ma mio padre la ostacolava in ogni maniera. Per tenermi lontano dal teatro, mi mostrò un grande attore dell’epoca, Memo Benassi, che era costretto a chiedere un piccolo anticipo per pagare il veterinario del cane: se il più grande attore italiano deve fare così, mi disse...  Dovetti perciò frequentare l’università e laurearmi. Avevo una carriera già programmata alla Montedison, che all’epoca era anzi la Edison: mio padre era amico dell’amministratore delegato, io avrei dovuto sposare una delle sue due figlie, diventare suo assistente e poi succedergli nella carica. Insomma, ero già bell’e sistemato. Invece preferii il teatro. Feci l’Accademia dei Filodrammatici a Milano. Gianni Santuccio, che aveva litigato con Strehler, mi fece debuttare, e a quel punto sono stato notato da Sergio Pugliese, che stava organizzando la televisione e mi portò alla Rai. Pensavo volessero propormi di fare della radio, ma siccome nel frattempo avevo fatto anche svariate regie teatrali, sia di prosa che liriche, mi chiesero se mi interessava la televisione, che all’epoca era nel periodo sperimentale e non aveva ancora cominciato a trasmettere. Dissi di sì, perché mi piaceva l’idea di affrontare cose nuove. Entrai alla Rai alla fine del ’53 e fui uno dei primi registi della televisione italiana, seguii in prima persona tutto il passaggio dalla fase sperimentale alla trasmissione dei primi programmi.

-  Divenne uno specialista di opere liriche televisive, con idee ben precise…

-  Nel 1955 ho insistito per fare la prima opera in televisione: la Madama Butterfly, che avrebbe dato origine a un’intera stagione.

-  Fu allora che scoprì, lanciò e sposò Anna Moffo…

-  Lei era americana e aveva avuto una borsa di studio che si concludeva con un piccolo saggio. Io andai a vederla, le feci un provino e la portai a fare la Butterfly in televisione. All’epoca c’era un solo canale, e l’opera aveva ancora una grande popolarità. La videro tutti e diventò subito famosa.

-  Viene ricordato anche il suo modo innovativo e personale di riprendere le opere.

-  Ho pensato che molti spettatori vedevano un’opera per la prima volta in vita loro, e così ho cercato di portarli più vicino, umanizzando lo spettacolo con molti primi piani. Volevo portare lo spettatore sul palcoscenico, in mezzo ai cantanti, fargli vivere più drammaticamente quello che ascoltava. Ho cercato di togliere un po’ di quest’atmosfera polverosa che aveva il melodramma e che – immagino – la parola stessa evocava. La telecamera entrava dentro la scena, nel cuore dell’azione… Ho fatto televisione per cinque anni, poi sono uscito e ho fatto altre cose come esterno. All’epoca si parlava molto di linguaggio televisivo, anche con quelli che sono venuti dopo di me, molto brillanti, come Umberto Eco. Si parlava fino a notte fonda, ci si interrogava sul linguaggio della televisione, magari per scoprire poi che non c’è. Riprendendo le opere in quel modo, ho cercato alla mia maniera questo famoso linguaggio televisivo…

-   Ha fatto poi molte altre cose in tv, compresa l’inaugurazione di RaiDue, molti anni dopo.

-  Anche l’inaugurazione dell’Eurovisione l’ho fatta io. Poi ho inaugurato gli studi di Napoli, un’impresa complicatissima, con personale addestrato sul posto. E quindi RaiDue, nel 1961. Allora si faceva tutto in diretta. L’opera era un’esperienza allucinante, tre ore in diretta senza poter correggere niente, con la telecamera che doveva rispettare i movimenti, tutto in diretta in uno studio, tra i cantanti, i tecnici, gli assistenti, senza rete. Era estenuante.

-  Poi c’è stato il passaggio al cinema…

-   In televisione avevo anche realizzato dei programmi con parti filmate, avevo fatto molta esperienza. Dal  punto di vista tecnico la televisione mi è stata sicuramente d’aiuto per il cinema. Al tempo stesso, però, mi ha terribilmente danneggiato. Già non essere stato l’aiuto di questo o quel regista famoso era considerato un limite. Ma l’aver lavorato per la televisione era un vero e proprio marchio d’infamia! Quando lo capii, se mi chiedevano: ma è quel Lanfranchi delle regie televisive? Rispondevo: No, è un mio omonimo!

-  A proposito: un suo omonimo esiste davvero, e alcune fimografie su internet mescolano le sue interpretazioni alle sue regie.

-  Ah, sì, chiariamolo subito: c’è un Mario Lanfranchi attore, un bravo caratterista, e a volte la sua filmografia viene confusa con la mia.

-  I primi film sono versioni della Serva padrona (1962) e della Traviata (1967), sempre con Anna Moffo. Poi è arrivato il western, Sentenza di morte (1968), con cui è uscito dal suo terreno.

-   La mia intenzione era quella di iniziare un rapporto in appalto con la Rai, che all’epoca non faceva ancora questo tipo di politica. Scrissi quattro episodi d’ambientazione western e insieme a Sandro Bolchi cercai di convincerli che si trattava di una pratica valida. I quattro episodi non passarono, ma ebbi l’idea di fare Tutto Totò e andò bene: fu il primo tentativo della Rai di dare una produzione in appalto. Subito dopo, rielaborai questi quattro episodi e ne feci un film, appunto Sentenza di morte. Come ho detto, mi ero trasferito da Milano a Roma perché volevo fare del cinema, ma non ero romano, non avevo background cinematografico, i produttori erano diffidenti… Avevo altre storie che mi stavano più a cuore, ma così mi fu più facile.

-  Il cast è notevole e certi personaggi assolutamente folli, con Richard Conte, Tomas Milian delinquente albino, Adolfo Celi predicatore assassino tutto vestito di nero, Enrico Maria Salerno giocatore di poker malignamente inquadrato dall’alto per svelarne la pelata che cercava di nascondere… Ma lei avrebbe voluto Robert Ryan. Al posto di Richard Conte?

-  No, doveva essere al posto di Robin Clarke, il protagonista. Il suo ruolo è quello dell’eroe puro, senza coinvolgimenti amorosi, che pensa solo e unicamente alla purezza della vendetta come principio e convionzione. Ma la storia che avevo scritto presupponeva un ragazzo, un giovane che all’improvviso trova la forza di diventare adulto. Poi incontrai Robert Ryan all’hotel Excelsior di Roma, per chiedergli di interpretare uno dei personaggi, magari proprio quello di Richard Conte. Lui disse che gli piaceva molto la storia, ma che avrebbe voluto fare il protagonista. Gli dissi che non era possibile, perché era un ragazzo. E lui: bene, allora cambi la sceneggiatura. Non ebbi il coraggio di farlo. Oggi mi pento moltissimo. Avrei potuto raccontare il riscatto dall’ubriachezza, avevo già in mente una storia tipo quella che ha poi fatto Eastwood in Gli spietati. Che errore! Lo rivedo quando mi venne incontro nell’albergo, alle nove del mattino, barcollando già ubriaco. Due americani andarono a salutarlo, gli dissero che erano suoi ammiratori, gli nominarono il suo paese d’origine, entusiasti. E lui: non me ne frega un cazzo! Ordinò subito un doppio whisky, glielo portarono con una ciotola piena di noccioline americane. Cominciò a bere, poi prese la ciotola se la rovesciò tutta in bocca! Trangugiò cinquanta o sessanta noccioline in un colpo solo! Ho perso una grandissima occasione. Ebbi invece Richard Conte, che non era alcolizzato ma soffriva di cuore. Appena andava sul set era vivissimo, ritrovava lo spirito perduto. Ma la pagò cara. In Sentenza di morte l’ho sottoposto a fatiche terribili, lavoravamo a 50 gradi in pieno deserto, a Cabo de Gata vicino ad Almeria, sembrava il Sahara. Conte riuscì a finire a malapena il film e morì poco dopo.

-  E’ vero che all’anteprima del film, a Parma, Robin Clarke fece indigestione di tortellini, come dicono?

-  Robin Clarke esagerava in tutto, aveva vent’anni ma beveva già moltissimo. L’unica cosa buona che aveva era la fidanzata, che aveva portato con sé: una modella molto bella e abbastanza disponibile. Era Ali MacGraw... Lui aveva scoperto il vino italiano e così si dimenticava della fidanzata, gli piaceva proprio bere dal fiasco. Altro che tortellini.

-  Ma del genere western cosa le interessava di più?

-  Mi piace l’idea di purezza wagneriana dell’eroe western: non quello romantico, ma quello spietato. L’uomo senza pietà.

-  In Il bacio (1974) c’è Pupi Avati alla sceneggiatura.

-  A causa della mia provenienza milanese e non cinematografica, per poter realizzare dei film ero costretto a inventarmi delle storie di genere, e Il bacio era quel tipo di feuilleton che poteva sedurre produttori e distributori. Con la complicità del mio amico Pupi Avati cercai di mettervi una certa impronta, prendendo dal romanzo di Carolina Invernizio lo spunto che serviva per sedurre i produttori più che come soggetto da seguire alla lettera. Mi interessava soprattutto la morbosità, che era molto evidente anche nella scrittrice stessa, questa tensione morbosa che mi aveva abbastanza colpito. Portare alla luce l’elemento perverso di questa scrittrice che invece veniva ritenuta quasi per famiglie… E anche tirare fuori qualcosa che avevo sentito vivendo a Venezia, una certa turpitudine che vi circola.

-  E Pupi Avati?

-  All’epoca Pupi galleggiava a Roma. Com’è noto, lavorava alla Findus come piccolo dirigente e voleva fare cinema. Per lui era una questione di vita o di morte. Mi piaceva molto quasta passione e questo tono un po’ provinciale che aveva. Si licenziò coraggiosamente dalla Findus, ed era stato un vero atto di coraggio, ma naturalmente aveva bisogno di lavorare e guadagnare. Lo aiutai facendogli fare qualche Carosello, solo che lui ci mise una di quelle sue storie bolognesi, con Ines Ciaschetti, l’attrice dialettale. Bolchi era contrario, ma a me era così simpatico! Con quelle sue storie bolognesi mi fece perdere il cliente, uno che valeva centinaia di milioni… Stavamo molto insieme, lo trascinavo alle corse di cavalli, che a lui non interessavano minimamente: parlavamo sempre di cinema, così mi distraevo pure e perdevo altri soldi! Ho un grande affetto per lui. Ed ebbe il coraggio di fare quello che io non avevo osato. A Bologna, conosceva Bob Tonelli che faceva l’agente immobiliare e aveva fatto parecchi soldi. Pupi aveva scritto Balsamus su una specie di Cagliostro altissimo, una persona imponente che sovrastava tutti. E Tonelli, che era notoriamente bassissimo gli disse: Pupi, ho letto la sceneggiatura, mi piace, se mi fai fare il protagonista ti dò duecento milioni per il film. E lui cambiò la sceneggiatura, facendo di Balsamus un nano!

-  Gianni Cavina, nel Bacio, l’ha portato lui?

-  Certo. Ha portato lui, suo fratello e altri amici.

-  E Lamberto Bava?

-  Lamberto lo conoscevo bene, sapevo che era un grande aiuto regista e così l’ho voluto a lavorare con me.

-  La padrona è servita (1976) fu uno degli ultimi film di Maurizio Arena, ancora con Avati co-sceneggiatore.

-  Avevo scritto questa storia un po’ di provincia, vicina alle sue corde, e così l’ho coinvolto. Mi ha sempre un po’ sviato, Pupi. Lo dico amichevolmente. I film dove entrava lui prendevano una piega un po’ diversa da quella che avevo ideato, anche in senso positivo. Ma mi è sempre piaciuta la sua grande ironia, il suo senso del racconto. Maurizio Arena invece l’ho preso perché cercavo uno che trasudasse volgarità da ogni poro, e in questo lui era il massimo. Andò bene, funzionava perfettamente nella storia, anche se - per gli incassi - all’epoca non era più un nome forte.

-  Nel frattempo, tra gli anni Sessanta e Settanta, aveva fatto un bel po’ di Caroselli, insieme a Sandro Bolchi. Solo produzione o a volte anche regia?

-  Come regia credo soltanto uno o due, perché dirigerli non mi piaceva. Io e Bolchi ci conoscevamo da molto tempo, da prima della Rai, quando lui faceva il rappresentante di lampadine. Una volta, a Milano, era stato chiamato alla Scala ed era entusiasta. Fece il calcolo e pensò che c’erano qualcosa come trentacinquemila lampadine, e siccome lui ne aveva di un tipo particolare già faceva i conti pensando che le volessero cambiare tutte. Invece l’avevano chiamato come regista. Gli offrirono una regia con i cadetti della Scala… Era molto deluso. La nostra grande amicizia era poi cresciuta con la televisione e a Roma.  Mettemmo su una società di produzione, la B.L.Vision, quella di Tutto Totò e di Sentenza di morte, anche se nei film facevamo solo i produttori esecutivi. Per fare soldi ci buttammo nei Caroselli. La nostra peculiarità stava nell’offrire tutto il pacchetto già pronto, dall’idea alla regia. Il cliente aveva tutto, faceva a meno anche dell’agenzia pubblicitaria.

-  Chiamaste anche Mario Bava.

-  Sì, per i Futuribili della Mobil pensai di chiamare il vecchio Bava, il maestro degli effetti speciali, per i quali usava ancora una macchina a manovella. Conosceva segreti che sono morti con lui. Era l’unico che potesse fare quel Carosello: venne molto bene, il cliente era felice. La mia regia mi pare di averla fatta con Franca Valeri. Inventavamo anche gli slogan pubblicitari, per conto nostro. Quella volta ne venne uno di successo: “Tempi duri per i troppo buoni!”, e i troppo buoni erano dei biscotti. Facemmo anche Cuore a puntate con la regia di Bolchi, sfruttando la sua notorietà negli sceneggiati. E andavamo sempre a caccia di clienti. Convincemmo perfino il mitico Raffaele Mattioli della Banca Commerciale, l’umanista, il grande intellettuale e mecenate, troppo austero per fare dei Caroselli… Andammo a trovarlo con Bolchi a casa sua, eravamo tutti e due molto istrionici. Mattioli aveva l’influenza, ci ricevette a letto, con una cuffia in testa. Rimase allibito, folgorato. Era anche un grande amante delle opere liriche, figurarsi, e io e Bolchi eravamo tutti e due registi d’opera. Riuscimmo a convincerlo e lui diede il suo assenso mettendosi a cantare, con la cuffia in testa: “Andiam, incominciaaaate!”, dal prologo dei Pagliacci.

-  Com’è nato il progetto di Genova a mano armata?

-  E’ nato da Genova. Avevo in mente di fare un film d’azione, un western metropolitano, in cui l’eroe puro e incontaminato perseguisse una sua idea di giustizia molto personale, senza tener conto dei limiti della legge. Un uomo disposto a sacrificare tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, anche al limite del masochismo, sapendo di dover afforntare delle prove durissime. Ma deciso a proseguire in questa specie di missione, anche se poi la missione non era così pura perché c’era anche un compenso in denaro. Era un eroe moderno, in cui s’insinuava un concetto utilitaristico della vita, non certo un eroe wagneriano. Questo film volevo farlo a Genova perché ci ero già stato per motivi sia turistici che artistici e mi aveva sempre impressionato. Avevo diretto un’opera al Carlo Felice, quando era ancora devastato dalla guerra e il sovrintendente era una donna durissima, quasi mia omonima: si chiamava Lanfranco. Avevo anche un amico pittore, Dino Baraldini, che poi è andato a vivere in Giappone. Andavo spesso a trovarlo ed ero rimasto colpito dalla cinematograficità della città, dalla bellezza straordinaria ma variatissima, con una serie di set naturali diversissimi. Era una città ideale per raccontare una vicenda così spietata, con quella solennità che ha e al tempo stesso la turpitudine di certi carrugi o di certi sobborghi. Mi aveva molto ispirato. Inizialmente non sapevo bene quale storia volessi raccontare: mi interessava soprattutto la teatralità di Genova, e mi piaceva l’idea di trapiantarci un western moderno.  

- All’epoca, Genova era molto frequentata dal poliziesco italiano, era considerata un po’ la Marsiglia italiana: una città del Nord ma anche Sud, città di cronaca nera e di terrorismo.

-  Tramite l’organizzatore locale, Giorgio Nencini, avevo conosciuto tanta gente: in particolare i napoletani e i marsigliesi, che erano all’epoca un clan molto agguerrito. Giravo con due guardaspalle: uno per la malavita napoletana e uno per quella marsigliese. Parlando con questi marsigliesi avevo anche identificato un ragazzo bellissimo, con un’aria minacciosa, ambigua, ma quando gli chiesi di ricoprire un ruolo mi disse che bisognava chiederlo al capo. E il capo disse di no: andava bene usare i suoi uomini come comparse, ma non voleva che si ufficializzasse con un ruolo vero e proprio da criminale.  Uno dei capi dei napoletani era anche diventato mio amico, stava tutti i giorni con me e alcune volte sono andato anche a casa sua a mangiare. Ricordo che aveva cose strane, molto vistose, come una veduta classica di Napoli col Vesuvio, illuminata da una luce dietro. Con lui avvenne una cosa incredibile, che ho appreso tempo dopo tramite l’Eco della stampa, quando mi arrivò un ritaglio del “Mattino” di Napoli in cui veniva intervistato e diceva di essersi redento stando a contatto con me. Diceva che quando aveva collaborato a questo film era appena uscito dal carcere di Marassi, dove aveva scontato dodici anni mi pare per omicidio: ma vivendo accanto a Lanfranchi – diceva – ho capito di dover cambiare vita. In effetti gli avevo detto: smetti, perché fai questa vita e cose del genere.  E lui si era ritirato, aprendo una tabaccheria a Napoli: non sapevo di avere anche questo effetto miracoloso.

-  Aveva particolari modelli di riferimento cinematografici o letterari? Qui siamo su un terreno diverso rispetto al poliziottesco vero e proprio: c’erano scrittori o film polizieschi che le interessavano in modo particolare?

-  In realtà non volevo assolutamente guardare a nessun modello, né italiano né americano: anzi, ho cercato di staccarmi, anche se è molto difficile fare tutto nuovo. In generale, comunque, ero semmai influenzato dal teatro. E alla base del film c’era un’idea psicologica, più da teatro che da cinema. Dopodiché, ho cercato il più possibile di contrabbandare la mia intenzione entro lo schema del film d’azione, che ovviamente aveva canoni un po’ obbligati. Ma quello che mi interessava era trasportare delle idee teatrali in ambito cinematografico, ed ero affascinato da una concezione del western tradotta in termini di poliziesco. Poi, ho cercato di fare un film molto artigianale, facendo tutto da me tranne la musica, anche se in realtà per la mia formazione musicale avrei potuto fare anche quella: ma non avevo il tempo. 

-  La scelta di Tony Lo Bianco a cosa era dovuta?

-  Avevo visto Tony Lo Bianco a teatro, mentre recitava a New York. Per la verità io volevo un attore americano per accedere ad un mercato più vasto, ma volevo un attore un po’ manipolabile, non uno di questi superdivi che poi non sarebbero rientrati in un concetto produttivo molto agile. Volevo un protagonista spietato, senza romanticismi né sentimentalismi, teso a raggiungere il suo obiettivo, senza cedimenti anche nei confronti delle donne. Ha un atteggiamento quasi misogino, e quando deve entrare in contatto con le donne è solo per perseguire i suoi scopi: forse c’era in quel momento anche in me un po’ di misoginia. Comunque, era la concezione dell’eroe che non può compromettersi, non vuole distrarsi perché è completamente assorbito dalla sua missione.

-  Il titolo internazionale è The Merciless Man

-  Sì, certo. E il film è stato girato in inglese. E’ uscito anche all’estero: soprattutto bene in America, in Germania, anche in Francia. Avrei voluto girare in inglese anche Sentenza di morte: l’unico che rifiutò di recitare in inglese fu Enrico Maria Salerno. Si rifiutò categoricamente. E io purtroppo non l’avevo messo sul contratto, quindi non ci fu nulla da fare. Ma il titolo internazionale The Merciless Man era quello che volevo io: L’uomo senza pietà. Fu il distributore a scegliere Genova a mano armata.

- E gli altri attori? Sembra che ci siano inquadrature costruite sul profilo di Adolfo Celi. E si vede anche una giovanissima Carmen Russo…

- Certo, di Celi mi interessava quest’aspetto grifagno, da falco, e in genere mi piaceva molto la sua fisicità. Quanto a Carmen Russo l’avevo scoperta quando mi avevano messo nella giuria di un concorso per Miss Liguria o qualcosa del genere, che lei vinse anche col mio appoggio. E allora le ho fatto fare questa piccola parte. Il padre però non voleva: era brigadiere di pubblica sicurezza e non voleva che uscisse perché aveva appena diciassette anni, era minorenne. Ma la madre, che lavorava come cassiera, era d’accordo con me e mi disse: noi siamo gente di cinema, ci capiamo... In seguito è venuta a Roma per tentare la carriera d’attrice e per qualche tempo siamo rimasti in contatto. C’era anche Lori Del Santo: un paio di battute che poi credo di aver tagliato.

-  Molte scene d’azione, soprattutto nella prima parte, sono basate su spazi ristretti. Anche in molti esterni, ad esempio nella sparatoria in cui usa i container per rendere gli spazi più soffocanti.

-  Era assolutamente intenzionale. Volevo inscatolare la violenza fisica, tenerla il più possibile racchiusa in spazi ristretti, proprio come in una scatola. E passare da luoghi aperti a luoghi i più chiusi possibile. I containers mi avevano colpito moltissimo. Devo buona parte della conoscenza di Genova ad un altro genovese, che abitava a Roma come me nel Palazzo del Grillo: il marchese di Multedo, che era appunto genovese di Multedo. Aveva una propensione straordinaria per fare il cicerone e introdurre ad aspetti inconsueti delle città, sia a Roma che a Genova. Con lui ho visitato Genova e ho scoperto vari luoghi nel porto, nel centro storico. Ero rimasto molto colpito dai contrasti violenti, sia come contrapposizione di ambienti diversi tra loro, sia come passaggio dalla luce abbagliante del porto alla semioscurità dei vicoli.  Mi sembrava il tema fotografico più importante. Anche gli interni lussuosi, con arredamenti sofisticati e soffitti affrescati, rispondevano a un mio preciso criterio: contrapporre ambienti il più possibile ricchi con altri il più possibile poveri e degradati. Volevo questo forte contrasto, così tipicamente genovese. Almeno, così lo sentivo. L’ufficio di Maud Adams era la sede di un circolo velico, gli interni del Circolo Filologico erano effettivamente nel Palazzo di piazza della Meridiana ripreso in esterni: il nome del Circolo Filologico, così ampolloso, deriva dal circolo che avevo effettivamente frequentato a Milano.

- La fotografia è di Federico Zanni. Si direbbe che non ci sia praticamente nulla girato in studio.

-   Per la fotografia, devo dire che in un primo tempo ne avevo parlato anche con Ennio Guarnieri, che però mi sembrava poco disponibile a un’agilità di ripresa che era richiesta dal film. Zanni era una persona molto pratica, pragmatica, e quindi disposto a girare con qualsiasi luce. Era disposto a rischiare, insomma. Allora ci voleva un sacco di luce per le riprese, e in un film come questo bisognava lavorare molto in fretta, d’agilità, non c’erano queste pellicole così sensibili. E poi non fumava, caratteristica per me indispensabile!

   Il film è stato interamente girato a Genova, anche gli interni e i fegatelli, e comunque non c’è nessuna ripresa in studio. L’appartamentino di Tony Lo Bianco era quello autentico del fratello del napoletano, nel centro storico. Mentre stavamo girando venne a interrompere all’improvviso le riprese e afferrò un fagotto di pistole che era in un cassetto della cucina, portandolo via: temeva che, aprendo i cassetti davanti alla macchina da presa, si vedessero poi nel film.  Mi è invece dispiaciuto non poter girare all’interno di Palazzo Rosso. Avrei voluto, ma non mi venne concesso.  Non tutti i sovrintendenti sono uguali: ad esempio, per Carnevale a Venezia (1984) ho potuto girare tranquillamente a Ca’ Rezzonico, dove pure ci sono oggetti delicatissimi.  Comunque, ero rimasto talmente emozionato da Genova che ho scritto subito dopo un altro film, che poi non ho fatto, ambientato ancora a Genova.  Si intitolava Uno contro la città.  Mi ero divertito moltissimo, con questa gente straordinaria, sia criminali che persone di alto livello: mi sembrava una metafora della vita, c’era tutto. Girando il film ho conosciuto anche il capo del contrabbando di sigarette, che era una donna, rimasta famosa perché ogni volta che doveva andare in galera si faceva mettere incinta: successe nove volte, ci hanno fatto anche un film. Aveva scandalizzato la moglie di Celi, una signora estremamente morigerata e compunta, perché era stata al manicomio criminale di Aversa, in quanto aveva rovesciato un tavolo addosso al giudice che la interrogava. E lì aveva conosciuto una donna che aveva evirato il marito per gelosia.  «Glielo afferrò e, zac!, lo tagliò con un rasoio, e quello cadde per terra e fece quattro zompi, tucche, tucche, tucche e tucche!» diceva. La moglie di Celi non capiva e chiedeva con candore: «Ma che cosa fece quattro zompi?». E lei: «Signo’, avete presente ‘o cazz?».

-  Nel film ci sono questi contrasti di ambienti diversi, però lei non sembra molto interessato all’aspetto sociale in sé, come invece c’era in molti poliziotteschi.

-  Assolutamente no! Volevo rifuggire il più possibile da questi pseudo-messaggi!

-  Ma quali sono i gusti di Lanfranchi spettatore?

-  Sono per il noir americano, da sempre. Adesso, avendo raccolto praticamente tutti i noir che cercavo (me ne mancano pochissimi), ho deciso di gettarmi in un altro campo e di recuperare quel cinema italiano con cui sono cresciuto e che non vedevo più da tanti anni. E’ partito tutto quando ho incontrato Gian Piero Brunetta, che mi ha regalato un suo libro sul cinema muto italiano, e un altro sul cinema sotto il fascismo. Mi sono subito appassionato, anche se molti titoli sono difficili da trovare, e molti sono perduti.

-  Per oltre vent’anni lei ha vissuto a Londra, facendo regie e produzioni teatrali sia di prosa che di musical, ma anche il proprietario di levrieri.

-  Ho sempre avuto la passione per i cavalli, per il trotto qui in Italia, poi a Londra c’è solo il galoppo e allora mi sono gettato nel galoppo. Nel trotto, come proprietario e allevatore, ho vinto tutto; nel galoppo meno ma ho vinto delle belle corse. Un giorno, un amico mi ha convinto a seguirlo alle corse dei cani, che pensavo non mi interessassero. E invece mi hanno entusiasmato e ho desiderato avere immediatamente qualche levriero da corsa, pur non amando molto i cani. Cominciai timidamente con uno o due, ma a poco a poco ho ritrovato la fortuna dei trottatori. Quando poi andai a comprare un levriero molto caro, che doveva ancora debuttare ma si sapeva dotato, chiesi uno sconto. Rifiutarono, ma mi diedero un secondo levriero in regalo. E quel cane avuto in dono è diventato il più grande levriero della storia, il massimo vincitore di tutti i tempi, sia come numero di Gran Premi che come cifre. Si chiamava El Tenor. In Inghilterra ebbe perfino una nomination come sportivo dell’anno, entrando nella terna dei candidati! La notizia venne riportata anche dal Corriere della sera, in prima pagina e con tanto di foto. Per l’unica volta, ero riuscito ad avere la prima pagina del Corriere: ma non per le mie regie, per il mio cane. E quando incontrai al ristorante l’editore Franco Maria Ricci, mio amico, mi presentò alla signora al suo fianco dicendo: «questo è l’unico caso di un uomo mantenuto da un cane!».