Jean Montalbano   

Danilo chi?

Mancando nel 1989, a Danilo Kiš venne risparmiato lo scatenamento dei nazionalismi che da lì a poco avrebbero lacerato il patchwork jugoslavo (conferma superflua e oziosa verifica di quanto  poeticamente intuito): per un lato il destino fu mite (ebreo per parte di padre, montenegrino per quella materna, era nato a Subotica) negandogli “dal vivo” l’ennesima ripetizione della trama usurata di ripicche e rancori già vissuta nei racconti, ma per un altro verso gli avvelenò gli ultimi anni quando, specie con la pubblicazione nel 1976 di Una tomba per Boris Davidovic, dovette rispondere ad accuse di plagio e disinvolto uso delle fonti. Dissolto l’humour sfavillante della trilogia del “Circo di famiglia”, Una tomba… nasceva anche come libro “programmatico” contro l’interesse distratto, fino al silenzio complice, della sinistra occidentale verso l’arcipelago gulag e dunque se ne attirava gli strali. Esaurita la biografia magica dei primi romanzi e messo a tacere quanto di “carino” e “poetico” avvolgeva ancora i treni dello sterminio, K. rinunciava a proporsi come scrittore originale ed inventore assoluto, arrivando a cercarsi, nello scavo del tema della persecuzione dell’eretico, quegli anticipatori che ne irridessero la creatività fin nel XIV secolo.

Fatale che la gran parte della stessa storia riguardasse nel novecento la costruzione dell’utopia socialista con la sua fame di materiale umano da sacrificare, e lo sguardo di K. intento a rintracciare, nei rispecchiamenti e negli echi che modellano le vite dei protagonisti, il geroglifico dei minimi gesti di ostinata ribellione alla legge imposta dal maggior numero. K. non cercava l’originale neppure nello scatto etico, vietandogli il rispetto della memoria ogni inizio assoluto; un arbitrato di testimonianze era una delle possibilità di dar volto e voce a chiunque se li fosse visti negare dalle cronache della rivoluzione: da qui, letteralmente, la sfilata di martiri.

E se l’argomento non poteva risultare inedito (come puntigliosamente gli rinfacciarono i critici) nuova sarebbe stata una scrittura che insertando ricordi desse profondità alle quinte su cui l’eroe-vittima dello stalinismo ripeteva ignaro i gesti necessari dell’inquisito.

           (K. tace le fonti e i precedenti, l’editore Adelphi che lo ha rinfrescato trascura di segnalare che il libro era già stato tradotto, parecchi anni fa, da Feltrinelli con il titolo di uno dei capitoli più “bizzarri” dei sette che lo compongono: I leoni meccanici).