Jean Montalbano

le derive impecuniose di Héléna

Sulla scia degli esercizi di riesumazione avviati in Francia da un buon numero di anni, anche in Italia si tenta ultimamente di evocare, in tono più dimesso, la figura di André Héléna (1919-1972). Un uomo qualunque (edito da Fanucci) con Il gusto del sangue e I viaggiatori del venerdì (entrambi stampati da Aisara) è il terzo romanzo tradotto nel volgere di pochi mesi: I motivi per cui dovremmo almeno leggerlo, con le raccomandazioni di un Malet o di un Carlotto, consistono nella progenitura vantata da Héléna nel varo e nell’affermazione di un genere, il noir, cui ormai vanno affidate le sue residue speranze di gloria postuma. Se il polar fu solo una parte della sua complessivamente prolifica e disordinata impresa letteraria (circa duecento sono i libri che gli vengono attribuiti, lontano comunque dalla pletorica produzione di un G.-J. Arnaud o di un Simenon e dai fasti di un Dard) legittime paiono le pretese di considerarlo padre occulto e sfortunato del noir francofono di cui contribuì a disegnare le prime forme senza poi goderne stabilmente le fortune.

Una certa aria d’impurità legata al nome di Héléna lo tiene sospeso nel limbo compromissorio da cui le lodi talvolta eccessive dei nuovi estimatori faticano a trarlo. Diciamo che, per più aspetti, il suo profilo volge ancora all’ottocento, quando chi si dedicava al romanzo popolare rifuggiva il luccichio della sofisticazione scrivendo di fretta, come veniva, col fiato del tipografo-editore sul collo, senza darsi pensiero di erigere monumenti allo spirito o far Letteratura sfidando la Durata. Ed Héléna pagò il suo tributo alla pressione del bisogno con un alto numero di testi mancati o raffazzonati (molti sotto pseudonimi: Vexin, Wesson, Woodfield, Cailleaux tra i tanti, per la gioia dei rovistatori di bancarelle dell’usato) mettendo in cantiere anche 4 o 5 romanzi contemporaneamente pur di strappare altrettanti miserabili anticipi ad editori spesso di quart’ordine: negro di sé stesso per  tenere il passo di impegni e scadenze allegramente sottoscritti, sfornò opere dai titoli “sentenziosi”, tributi ad una saggezza popolare che ben s’accompagnava a quelli che in America si dissero dime-novels. Questa produzione a tambur battente l’escluse sempre più dal giro delle edizioni di rango in cui si avallavano dinastie e imprimatur del genere, confinandolo in quella letteratura da “stazione ferroviaria” che, ad onta dell’abbondanza, non lo sottraeva agli imprevisti pecuniari.

Tra rare punte d’eccellenza e molta mediocrità, la navigazione burrascosa nel gran mare delle lettere francesi, rilanciata da anticipi settimanali subito spesi nei bistrots, non gli negò il rispetto di pochi accorti colleghi (così come sollecitò l’interesse di Boisset, Rollin o Melville) pronti a valorizzarne l’altro profilo lucido e spietato, quello di un Goodis transalpino ancora in grado d’inquietare intrattenendoci. 

Héléna esordì come poeta in conto autore a 17 anni e dopo qualche schioppettata nella guerra civile spagnola e nel maquis, scrisse il primo noir, Le Bon Dieu s'en fout, nel 1949 (un fuggiasco dalla Caienna ritorna alla città d’origine senza poter evadere dal ciclo dell’abiezione). Già il titolo rende esplicita la cornice in cui agiranno eroi-qualunque consegnati ad un destino che li scrittura solo nel ruolo di vittime.

Solitamente si attribuisce al Malet dei primi anni quaranta il ruolo di iniziatore del noir francese: una datazione di comodo se non teniamo conto dell’opera simenoniana già compiutamente affermata o di un C. Aveline che nel decennio precedente si era provato nel romanzo di genere. Di sicuro l’esperienza dell’occupazione nazista ed il clima sospettoso ed atomizzante di Vichy  accelerarono e precipitarono molte delle scelte narrative di quegli anni. Vagabondando fra emarginati e piccoli malavitosi, borsaneristi e protettori, Héléna si elesse cronista dell’individuo braccato dalla necessità e marchiato dal fallimento: senza aure nobilitanti di derelizioni esistenziali, il suo  “voyou” si muove sotto una soffocante cappa di perdita e stanchezza e traccia calcolati e disperati soprassalti prima di una resa certa.

Esposto e senza coperture, negato al residuo codice cavalleresco e solidale del milieu divulgato dal cinema di successo, sprovvisto del savoir-vivre dei personaggi di Albert Simonin, la bestia umana di Héléna, al termine della risorse, nuda, dominata dalla paura, si dibatte vanamente fino all’esito fatale.

Sbaglieremmo comunque ad attribuire allo scrittore la furia (auto)distruttiva delle sue creature: fatta la tara del problema della bottiglia, Héléna, agente di sé medesimo, si dimostrò buon conoscitore del mercato letterario e delle scorciatoie per la fama, arrivando pure a mimare le gesta scandalistiche di Vian allorché spacciò come tradotto dall’americano Un drôle de mec, ricalcando l’iter “sequestro più processo” toccato a “Vernon Sullivan”. (Motivi giuridici non scarseggiano: un titolo fine anni ’40 recitava I flics hanno sempre ragione e vi si denunciava l’oppressivo sistema poliziesco-giudiziario-carcerario). Lui non era disperato e maledetto, anzi, a detta di un editore che lo conobbe bene, nella vita era divertente e di piacevole compagnia.

Le demi sel, titolo originale di Un uomo qualunque, rientra nella serie “Les compagnons du destin” (ristampe Fanval Noir dagli anni 80, con scritti di Malet, Evrard, Rollin, Ditis fra gli altri) in cui sfila tra, tra alberghi malfamati, strade bagnate e locali borderline, tutta la racaille marginale parigina dell’epoca. Ma a far da divertito controcanto a queste ambientazioni, bilanciandone gli esiti, prevedibilmente, depressi ed immalinconiti, sta la saga, argotica, distesa e rilassata delle Avventure dell’Aristo,bibliofilo e collezionista d’arte, ennesima variazione del modello Lupin. E più avanti, esaurite altre scorciatoie, per saldare i conti Héléna giocherà pure al tavolo della letteratura piccante e porno con edizioni da lui stesso diffuse porta a porta (vedi le serie sexy-noir delle mômes per cui assunse anche degli pseudo femminili). Qui non si illustrò certo per quel dono d’osservazione e quel senso innato del “mot juste” riconosciutigli dai colleghi in “nero”, ma potè ribadire, anche nelle difficoltà, i lati spesso in ombra di un carattere allegro, cordiale ed affabile con tratti di stravaganza ed imprevedibilità secondo alcuni riconducibili alle sue origini narbonesi.

La Bava, Estate 2009