Jean-Claude Izzo (1945-2000) prima di morire aveva fatto morire il personaggio principale dei suoi "noir", l'investigatore (poliziotto nel primo romanzo) Montale, così chiamato in omaggio al poeta preferito. In Italia i suoi libri li ha pubblicati la E/O (in Francia i tre con Montale sono nel catalogo di Gallimard mentre altri due, non polizieschi, sono in quello di Flammarion). La stessa E/O ha più recentemente ripubblicato in versione economica (la prima edizione italiana è del 1998) il capostipite dei romanzi con Montale. Claudio D'Ettorre l'ha recensito come ignorando i successivi (molti ritengono sia il terzo il capolavoro) quasi per mettere "alla prova" uno scrittore di cui si continua a magnificare la qualità.

Claudio D'Ettorre

casino totale

Casino totale di Jean-Claude Izzo (e/o, Roma 2000, ed.tascabile) vuole far intendere la situazione estrema di una cacofonia, che è sociale, attraverso il significato di Total khéops, giacché la partitura, orchestrale, vuole musicare una sinfonia sulla città di Marsiglia ("Solo la città è veramente reale", scrive l'autore nella Nota che introduce il poliziesco), ma le note sono strazianti. Al di là delle intenzioni dello scrittore, probabilmente. L'effetto delle dissonanze prende la mano del musicista, ma il casino rimane un fatto musicale, la monotona colonna sonora di un chiacchericcio interiore, senza neppure toccare con la sua furia - e dunque scompaginare l'esistenza del protagonista - il poliziotto Fabio Montale. L'esecuzione dello strumento solista, la voce narrante del protagonista, stanca il lettore prima di arrivare a metà del romanzo. Lo stesso giro si ripete instancabilmente.

Un romanzo di Ray Bradbury viene evocato due volte. Nella prima, Leila - parlando con Montale, che dice di non apprezzare "la mancanza di stile" dei contemporanei - a mo' di commento ne cita il titolo: La solitudine è una bara di vetro. La seconda volta è quando Montale riceve, ancora mezzo impacchettato, il libro - un dono post mortem - dalle mani dei fratelli e delle amiche di Leila.

Leila non è l'unica donna che attraversa il romanzo. Ce ne sono diverse. Rosa è il nome di un grande amore finito sei anni prima; Babette è un'amica, più che amica, giornalista; Marie-Lou, è una prostituta che pare smetta di prostituirsi per amore; Lole, è la ragazza amata da Montale, ma anche da Manu e da Ugo; Honorine, una vedova che svolge un ruolo discretamente materno, poi ci sono dei nomi di amori passati: Muriel, Carmen e Alice. La cugina Angèle, Gélou, è il primo amore di Montale. Accompagnando a casa Gélou, il quattordicenne Fabio si scontra con due suoi coetanei, i futuri amici Manu e Ugo.

Una bella frase del romanzo riguarda Marsiglia (ma ci sono moltissime descrizioni e considerazioni sulla città natale dello scrittore): "a Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere". La fierezza di questa frase, che vale non tanto per i luoghi ma soltanto per chi li rivive, può essere intesa solo da chi è toccato dall'amore della terra in cui è vissuto, ma più spesso si tratta della bellezza amara raffigurata nei sogni degli esuli). La verità che rende giustizia alla città, redenta dall'essere una mera scenografia, è presto detta: "Marsiglia non è una città per turisti. Non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide". Quest'ultima valutazione non è meno convincente del resto, d'altronde come si fa a pensare a una qualunque forma di socialità senza prendere in considerazione il fatto che non sia accompagnata dall'ineluttabile violenza del dolore che la città (e tutte le città, in fondo) procura.

"A Marsiglia si chiacchiera". Di per sé acefala, questa frase potrebbe essere sottovalutata, ma essa si riferisce al rap, alla radio che lo trasmette, a un gruppo marsigliese, gli IAM, e agli altri gruppi ragga del Sud. Questo è l'autentico casino totale. La chiacchiera ha un non sorprendente riverbero, del tutto concreto.

Il fascino di Marsiglia è improvvisamente percepito: dopo "un temporale violento e breve", dopo un temporale "rabbioso", il cielo aveva riacquistato limpidezza e, evaporando l'acqua dai marciapiedi, il narratore nota, di passaggio, che "gli piaceva quell'odore". Eppure, ricordando la scazzottata con Manu, la volta che fecero conoscenza, gli pareva che le narici fossero invase da "odori di piscio e di merda". Era tutto il quartiere, il quartiere poi amato, che "era sporco e puzzava".

Il narratore conclude il romanzo con i colori che assume Marsiglia vista dal mare, la visione originaria, poco dopo l'alba, quando il sole appare dietro le colline: "La città poteva incendiarsi. Bianca, poi ocra e rosa", fingendo che il suo cuore si trovi finalmente in armonia con la città. Tuttavia in un'occasione precedente, Marsiglia "piaceva", quando era stesa sotto un cielo grigio e basso, ma "carico di luce violenta" riflessa su un mare "blu metallizzato", cioè quando non era più sé stessa, ma somigliava, così dice la voce narrante, a Lisbona, di cui aveva preso le tinte. I colori della città sono ambivalenti, come la città tutta è ambivalente. Non per nulla dalla città si deve andare via per poi ritornare a morirci. Forse questo significano i frequenti riferimenti a Conrad e a Rimbaud.

In quanto lettori noi abbiamo appreso che nei polizieschi, come in un porto sicuro, si è rifugiato il materialismo, e di questo abbiamo fornito qualche esempio. E' soprattutto il tema dell'ospitalità come genius loci e, allo stesso tempo, della spietata durezza del vivere come ospiti sgraditi, che ricorre ossessivamente nel libro di Izzo.

La visione materialistica dei rapporti sociali e umani in questo polar si manifesta anche nella specie di celebrazione di quell'edonismo culinario, come isola felice della vita corrente, che si ritrova in altri scrittori mediterranei. Ma appare timidamente comica la giustapposizione finale dei sentimenti e del gusto: nel romanzo in questione il mondo sembra rimettersi in ordine dopo un bacio e un ripieno riscaldato. Si tratta di un'illusione perché al lettore, alla fine, resta impressa la sgradevole descrizione del corpo morto di Leila, in cui l'odore del timo "caldo e inebriante" contrasta la descrizione delle "colonne di grosse formiche nere" che si davano da fare sulle ferite, sul sangue secco e delle lunghe strisce giallastre tra le natiche e le cosce.

I quindici capitoli più il prologo e l'epilogo hanno un titolo. Alcuni di questi sono freddamente banali, ma altri sanno lasciare in sospeso la questione che il polar deve sollevare per essere sé stesso. Il quindicesimo è il capitolo "nel quale l'unica trama è l'odio del mondo". Arrivati all'epilogo, "nulla cambia ed è un nuovo giorno".

Il polar è intriso di banalità, ma in esso la banalità della prosa del mondo deve diventare rovente. In quest'opera Izzo, sembra giustificarsi. Come recita il titolo del terzo capitolo, "l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere".

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