Carlo Romano

sessantotto genovese

A cura di Giuliano Galletta: GLI ANNI DEL 68. Voci e carte dell'Archivio dei Movimenti. Il Canneto, 2017

Si dice che gli auguri non si debbano mai fare in anticipo ma una mostra alla Loggia degli Abati del Palazzo Ducale di Genova (ben allestita da Roberto Rossini e curata da Calegari, Galletta e Ricaldone coi pregiati materiali raccolti nell' Archivio dei Movimenti) e un libro edito in occasione della mostra stessa (su progetto grafico dello stesso Rossini) per celebrare il "68" locale non ne hanno tenuto conto. A mio modesto parere non hanno tenuto conto anche di altro e mi sforzerò di precisare cosa d'altro.

Il "68" è stato definito "l'anno degli studenti". Indubbiamente la mobiltazione studentesca - specie quella universitaria - ebbe allora un'ampia copertura mediatica che sembrò oscurare tutto il resto. Ciò fu dovuto, credo, ad eventi collegati all'arrivo dell'istruzione universitaria di massa che sorprese un'opinione pubblica fin lì abituata ai rituali non sempre spassosi della vita studentesca e a manifestazioni di protesta, quando c'erano, collocate altrimenti rispetto alle nuove sollecitazioni anti-autoritarie. In questo contesto penetrarono inoltre, in parte trasfigurate, le vecchie culture politiche. La mostra e il libro genovesi accettano questa cornice che nel corso dei decenni non ha subito sostanziali modifiche. Va loro tuttavia riconosciuto che concentrandosi soprattutto sull'attività del gruppo raccolto intorno a Gianfranco Faina abbiano messo in rilievo quella che si potrebbe chiamare "la differenza genovese" (che viene ben delineata, per esempio, nel testo di Leo Lippolis). Ciò non toglie che in questa cornice si sacrifichino altre e importanti energie.

Prima dell'anno fatidico era esplosa la stagione che in Italia venne chiamata "dei cappelloni". Si assistette perfino, benché in tono minore e con maggior dispersione, a quella che altrove è stata chiamata "l'estate dell'amore". Se si vuole ragionare in termini di miti unificanti si potrebbe dire che a questa stagione corrispose un mito della ribellione eclettico ed inclusivo. Nella stagione successiva, quella più propriamente sessantottesca, tale inclusività cominciò a scompaginarsi in miti parcellizzanti ed esclusivi di derivazione politica che portarono presto a una vera e propria frantumazione, malgrado l'influenza di quella pacifista e capellona precedente fosse rimasta tutt'altro che trascurabile ancorché non riconosciuta. Al gruppo di Gianfranco Faina e più tardi a Comontismo (cui Alfredo Passadore ha consacrato il testo più bello e disincantato del libro) si deve tuttavia concedere (devo però dire che nel corso di un corteo vidi lo stesso Faina stigmatizzare un giovane che inneggiava alla "libera espressione") quella disponibilità intellettuale che in altri gruppi, se mai ci fu, stava venendo meno. Si pensi a Lotta Continua che pur presentandosi come l'erede più schietto del "68", agitando tutta una retorica "dal basso", era ben poco tollerante coi comportamenti meno conformistici rispetto alla "morale proletaria". Oltretutto sembravano meno preoccupati di ciò alcuni gruppi tradizionali trotzchisti e stalino-maoisti (non di certo "Servire il Popolo") fra i quali, sembrerà strano, era più facile che in altri imbattersi in discussioni letterarie o variamente culturalizzate, tanto che proprio da genovesi così situati derivò, attraverso il maoista Domenico Aleotti, una certa influenza sulle iniziative che avrebbe preso Dario Fo e, attraverso il socialista-trotzchista Antonio Caronia, un'attenzione per niente frivola, come era ancora a quei tempi, nei confronti della fantascienza e della letteratura di genere.

Il vero problema - che è poi quello che Gianni Bosio si era posto in relazione alla storia delle classi subalterne - sta comunque nel fatto che senza riscontri cartacei o piste registrate certi episodi e certi personaggi, studenti o meno che fossero, sembrano non essere mai esistiti. Ma il "68" genovese fu vivace proprio in quello che è oggi difficile raccontare e che, nel tempo, si sarebbe potuto raccogliere attraverso le dirette testimonianze. Un lavoraccio, certo. Forse se non si fosse voluto giocare d'anticipo la mostra e il libro, fermo restando il già encomiabile sforzo, avrebbero potuto aggiungere qualcosa. Qualcosa avrei potuto raccontare anch'io . Chi sa, per esempio, che Giuliano Naria, un decennio prima delle dolorose esperienze carcerarie, si presentava - e così lo conobbi - come membro di un gruppo "Provos" di Sestri Ponente?

“Fogli di Via”, marzo.luglio 2017