Elisabetta d'Erme

mangiarsi il fegato al Finn's Hotel

In Bleak House Charles Dickens racconta la vicenda di una causa legale senza fine, la “Jarndyce contro Jarndyce”. A richiamarla alla memoria è sia l’assonanza col nome Joyce, che il doppio senso suggerito dal nome Jarndyce: ovvero “itterizia” (jaundice), malattia che può colpire chi si lascia rodere il fegato dalle cause perse… E’ in un certo senso il caso di Danis Rose, la cui vita di studioso di manoscritti di Joyce è costellata da denunce e polemiche.

Per Danis Rose i guai sono iniziati nel 1992, quando offrì alla casa editrice Penguin "the most significant textual find of this century" ovvero quella che secondo lui era un'inedita raccolta organica di prose brevi scritte da Joyce nel 1923 che, a suo giudizio, avevano una loro autonomia narrativa rispetto al precedente Ulysses e al Finnegans Wake in divenire. La raccolta, trovata tra le carte di Harriet Shaw Weaver, avrebbe avuto anche un suo titolo: Finn's Hotel, il nome dell'albergo di Dublino dove Nora Barnacle lavorò alcuni mesi prima di fuggire con James Joyce sul continente, e quindi “luogo sacro” dell'autopoiesis joyciana.

All'epoca la pubblicazione di Finn's Hotel fu bloccata dal Trust degli Eredi Joyce perché risultò che in realtà quei testi non erano affatto degli inediti, in quanto già pubblicati nel 1963 nel volume A First-Draft Version of Finnegans Wake curato da David Hayman. Danis Rose tornò all'attacco, proponendo alla casa editrice Picador una nuova edizione di Ulysses, da lui personalmente riveduta e corretta: Ulysses: A Reader’s Edition, ma quando uscì il libro gli eredi di Joyce ne vietarono la vendita, e furono disposti a pagare spese legali per circa due milioni di sterline pur di ottenerne il blocco. La motivazione addotta fu l’assenza nell'edizione curata da Rose di 200 parole (rispetto a un totale di duecentomila). “A mio parere non erano significative” dichiarò in quell'occasione Danis Rose “spesso mere preposizioni, eppure agli occhi del giudice rappresentavano una violazione dell’esistente edizione coperta dal copyright.” Quando finalmente l'Ulysses di Rose arrivò nelle librerie scatenò una bagarre senza precedenti nel mondo degli Joyce Studies. Sta di fatto che, editorialmente parlando, fu un flop e nessuna persona interessata al capolavoro di Joyce si sogna di leggerlo in quell'edizione, ormai andata peraltro fuori commercio. Anche un “rearrangement” di Rose dei notebooks di Joyce, conosciuti come i Buffalo Holograph Workbooks da lui editi come The Textual Diaries (Lilliput Press, 1995) venne accolto da critiche e stroncature.

Danis Rose è però una persona determinata e nel 2012 – approfittando della scadenza dei diritti d'autore sull'opera di James Joyce – è riuscito a pubblicare il frutto di oltre 30 anni di lavoro: The Restored Finnegans Wake (Penguin Modern Classics) una sua versione (sempre riveduta e corretta) dell'ultimo lavoro dello scrittore irlandese. Non solo, nel 2013 ha anche finalmente trovato qualcuno disposto a vendere la sua vecchia “scoperta”, ovvero la casa editrice Ithys di Dublino che, nell'estate del 2013 ha pubblicato Finn's Hotel da lui curato, con una postfazione di Seamus Deane e illustrazioni di Casey Sorrow, il tutto offerto in tre versioni deluxe il cui costo va dai 3000 ai 250 euro. Alla pubblicazione del volumetto-gioiello c'è stata una prevedibile alzata di scudi da parte degli studiosi e degli esperti joyciani, scandalizzati non tanto dal prezzo di quei libretti, quanto dalla dubbia correttezza dell'operazione editoriale. Inoltre, come non guardare con sospetto pubblicazioni firmate da una casa editrice come la Ithys di Anastasia Herbert, che nel 2012 aveva pubblicato un testo di Joyce indebitamente sottratto dal lascito Jahnke, custodito dalla Fondazione Joyce di Zurigo? In quel caso si trattava di I gatti di Copenhagen, una storiella che Joyce scrisse in una lettera al nipotino Stephen e che anche in quella occasione venne trasformata dalla Ithis Press in una strenna editoriale: 40 pagine illustrate offerte ai gonzi di turno in due edizioni da 1200 e da 300 euro.

Finn's Hotel è ora uscito anche in Italia per i tipi della casa editrice Gallucci di Roma che ne ripropone l'edizione illustrata nella collana “Alta definizione”, per la versione di Ottavio Fatica del testo di James Joyce e di Giovanna Granato per l'apparato critico (pp. 125, euro 13,00).

Di cosa si tratta esattamente? Il librino propone dieci brevi testi scritti da Joyce nel 1923 che anticipano i giochi linguistici, alcuni temi mitologici irlandesi e molti personaggi di Finnegans Wake. Purtroppo l'edizione di Gallucci non offre il testo originale a fronte, un'assenza che rappresenta per il lettore un'ulteriore richiesta di fede nei confronti di un'operazione editoriale che, in ambito anglofono, è stata definita una “beffa” (hoax). (Peraltro da un libro che si presenta in una veste grafica così raffinata, ci si aspetterebbe più attenzione al contenuto dei risvolti di copertina, dove la data di nascita di James Joyce è indicata come il 1982 anziché il 1882.). Insomma, il bombastico lancio di questo libro a firma di importanti testate nazionali può trarre in inganno i lettori italiani meno informati. La Repubblica, ad esempio, ha pubblicato il 1° dicembre 2013 l'anticipazione di uno dei racconti e un ampio articolo di Nadia Fusini, avvalorante la tesi che si tratta di inediti.

Certamente questi testi, che Danis Rose definisce “piccole epiche”, sono interessanti esempi della creatività joyciana in un momento di transizione da una scrittura ancora dialogica come quella di Ulysses all'esperimento unico e irripetibile di una nuova forma di metalinguaggio che sarà Finnegans Wake. Modello di un nuovo mondo possibile, dove tesi e sintesi tentano un nuovo inizio, il Finnegans Wake alla fine si rivelerà non essere altro che un lavoro di plagio, un pastiche di citazioni, frasi, lingue e parole altrui, ma anche il prodotto dell'“auto-cannibalismo” sui propri testi, come questi “epicleti” del 1923.

Quelli contenuti in Finn's Hotel sono dunque sketch dedicati a figure mitologiche e leggendarie come il re celtico Roderick O'Conor, Saint Patrick, Saint Kevin, Tristano e Isotta, i Four Masters ed i futuri protagonisti del Wake: H.C.E. (Humphrey Chimpden Earwicker) e A.L.P. (Anna Livia Plurabelle).

Qui la scrittura di Joyce non è ancora impervia come nell’opera compiuta ma lascia comunque spazio per realizzare divertenti giochi linguistici. Particolarmente leggibili ci sono sembrati i raccontini centrati sulle figure di Isotta e del suo amato Tristano che fanno un “pimpumpandemonio” alle spalle del povero cornuto “vecchio rompiscatole Re Marco, quel vecchio caprone rompiscatole senza latte con quel suo bacetto di prammatica e que' suoi bronchi, quel vecchio rompiscatole di orangotango barbidurico con que' suoi vecchi rognosissimi calzoni di plaid da pastore da ventiduescelliniseipence” (p. 60). Come sarà l'originale? Chissà. Comunque il testo si fa leggere, alcune soluzioni appaiono originali e il gioco polisemico è appena accennato. Nel libro, di assai minore interesse appaiono i contributi deliranti di Rose (“Con questa pubblicazione un'altra piccola tessera del complicato puzzle della storia e della letteratura irlandese si sottrae alla repressione”, p.18) e quello strumentale di Seamus Deane (general editor dell'opera di Joyce per la Penguin) che tenta di avvalorare la tesi che si tratti di una “grande opera in nuce e allo stesso tempo un'opera seminale a sé stante” (p. 125).

La lettura di questi frammenti è certamente piacevole, ma conferma nondimeno che Finn's Hotel non può essere un'opera pensata per avere dignità propria, come sostiene Danis Rose nella sua prefazione, dove non fornisce neanche le fonti delle sue citazioni, né tantomeno le basi scientifiche della sua tesi. Certo c'è il tema dell'Irlanda, sottolineato nella postfazione di Deane, con tutte le sue corrispondenze epiche, mitiche e cosmiche. Qui, come scrive Fabio Pedone nella sua recensione per Il Manifesto-Alias (22 dicembre 2013), “sono fra l’altro attive a livello embrionale le forze irresistibili di quella che sarebbe divenuta la acomedy of letters di Finnegans Wake, con la trascinante, benché indubbiamente ostica, potenza sonora e associativa di quella ultralingua giocosa e gioiosa in ogni parola della quale brucia una lotta, si accende un ‘tour de farce’. Come in Ulysses, in Finn's Hotel il fulcro della scrittura è il potere, la paternità, il tradimento, l’abnegazione, l’invidia e la gelosia; e, al fondo di tutto, la colpa: ‘un primo reato forosetto o venereatorio che era de focto un malaccorto caso, a farla grossa, di parziale esibizionismo’ che è anche l’oggetto dell’ultimo pezzo, la ‘lettera erronima’ di Anna Livia destinata a incorporarsi nel libro compiuto.” E il merito di Finn's Hotel è indubbiamente quello di anticipare ed avvicinare il lettore all'esperienza pirotecnica di Finnegans Wake.

L'edizione italiana di Finn's Hotel è accompagnata inoltre da una “nota del traduttore” in cui Ottavio Fatica (che ha già tradotto I gatti di Copenhagen) spiega i motivi per cui ha accettato la sfida di tradurre anche questo discusso testo, dei cui precedenti era a conoscenza. La decisione è stata influenzata dalla sua familiarità con Joyce, nata quando accettò di tradurre Ulysses per Einaudi negli anni '90 (progetto poi fallito), e da un'indiscussa ammirazione per il genio linguistico di James Joyce. Un autore attorno al quale vive un'intera industria culturale, verso la quale Ottavio Fatica prova sentimenti contrastanti, che non teme di palesare: “i primi estimatori (di Joyce) si sentirono tanto ma tanto audaci per non dire osé, ma non ci avrebbero messo molto a transitare sull'altra sponda, quella dell’ordine più intollerante, possibilmente inalterabile, della conservazione a tutti i costi, come comprova ogni regime rivoluzionario. Da avanguardoni si passa così senza soluzione di continuità avanguardiani; nella fattispecie, da joysuini si passa joysuiti” (p. 26).

Bisogna dare però atto che il traduttore sembra aver fatto un ottimo lavoro, anche se la mancanza del testo a fronte non permette di godere appieno il confronto con l'originale. Comunque, come ha scritto Fabio Pedone su Alias,

Ottavo Fatica si avvicina a Joyce nell’unico modo che gli è possibile, e cioè costeggiando l’impossibile, spingendo il genio dell’italiano a lavorare oltre la lettera e a cavallo del suono, facendosi parlare da esso, tentando di strappare alle forze originarie della nostra lingua un’allegria, una joycity che pur radicata nelle strutture di una lingua differente diventa immediatamente suo patrimonio. La direzione è proficua: l’approdo ideale è conseguire in questo modo un livello ulteriore di elaborazione testuale, germinativa, da cui si liberino prismaticamente le molte facce della lingua, dall’aulica alla dialettale.

Resta il fatto che il parere comune degli accademici e degli studiosi joyciani è che questi dieci raccontini pubblicati con il titolo Finn's Hotel non possono essere considerati parte integrale del canone joyciano ma che rappresentano solo materiale di lavoro per un'opera più complessa e conclusa.

Questo è ad esempio l’opinione di John McCourt (Università Roma Tre), che ha dichiarato a Il Piccolo di Trieste (3 dicembre 2013): “Non posso che deplorare l’uscita di questo volume. Nel 1992 Danis Rose tentò di pubblicare Finn’s Hotel con la casa editrice Penguin e già allora si rivelò un falso, c'è riuscito ora con Ithys in Irlanda e con Gallucci in Italia. Il libro viene venduto come un'opera originale di Joyce, ma non lo è. E’ l’ennesimo esercizio di ‘self-marketing’ da parte di uno studioso ‘indipendente’ irlandese che si firma con lo pseudonimo di Danis Rose e che ha alle spalle altre pubblicazioni di dubbio valore scientifico che hanno creato grande costernazione fra gli studiosi più accreditati. Finn’s Hotel è composto solo da bozze di pezzi del futuro Finnegans Wake e venderlo come inedito è un falso clamoroso. Chi rispetta lo scrittore irlandese farebbe bene a valutare questo libro prima di acquistarlo. Dispiace che Seamus Deane, il decano dei critici letterari irlandesi, abbia scritto una postfazione dando al volume un imprimatur che di sicuro non merita. Dispiace anche che un bravo traduttore italiano, Ottavio Fatica, sia caduto nella trappola di tradurre questo testo.”

 

Queste dichiarazioni sono state colte con sarcasmo da una testata come Il Giornale che il 10 dicembre 2013 pubblicava un pezzo di Massimiliano Parente intitolato “Ecco i racconti di Joyce che fanno litigare i fan” che si apriva con queste parole: “Avviso: se siete dei joyciani, non leggete questo articolo perché ho già la posta piena di insulti di religiosi di varie confessioni, mancate solo voi. Perché insomma, nessuno, come James Joyce, una volta passato il limite segnato dall'Ulisse, è riuscito a essere autore di un libro tanto citato come classico quanto non letto perché illeggibile. Se non per adepti con un'indole fanatica simile ai fan pugliesi di Carmelo Bene o ai groupie sedicenni di Lady Gaga”.

Eppure, tra gli studiosi più accreditati che condividono il disappunto di John McCourt ci sono esperti del calibro di Derek Attridge della University of York, il quale sottolinea che spacciare Finn's Hotel per un inedito è scorretto soprattutto verso “an unsuspecting public”. E aggiunge che “la teoria di Danis Rose, che questi testi siano stati intesi da Joyce come una raccolta di storie sotto il titolo Finn's Hotel, non trova alcun riscontro. A meno che Rose non produca sostanziali evidenze che questa pubblicazione non è il frutto del lavoro di fantasia di un editore, essa non può far altro che distorcere e danneggiare la reputazione di Joyce.”

Il Guardian riporta anche le dichiarazioni di John Nash della Durham University, che ammette che “si tratta certamente di interessanti pezzi di transizione verso la scrittura sperimentale di Finnegans Wake, ma non certo, come sostiene Danis Rose, di un 'compiuto ciclo di racconti brevi' come Gente di Dublino”. Anche Terence Killeen, del James Joyce Centre di Dublino sottolinea su The Irish Times che “non c'è alcuna evidenza che Joyce avesse pensato quei testi per essere pubblicati, e con quel titolo. Intenzioni che vanno rispettate. Inoltre Danis Rose insiste a definirli “epicleti”, un termine che Joyce usò per descrivere Gente di Dublino e che è decisamente improprio per quelle che sono solo 'vignette'”.

In questa disputa la voce più autorevole è però certamente quella di David Hayman, professore di letteratura comparata alla University of Wisconsin, Madison, per il quale Danis Rose "is building one flawed theory on top of another". Come già accennato in apertura di questo articolo, nel 1963 Hayman aveva scoperto e pubblicato gli sketches ora riediti da Danis Rose col titolo di Finn's Hotel nel volume A First-Draft Version of Finnegans Wake in cui li aveva definiti “focal points, or nodes, around which Joyce built Finnegans Wake”. Per lo studioso, Danis Rose avrebbe “seriamente travisato quel materiale” e la sua pretesa di avere per le mani un'opera compiuta ed inedita non sarebbe suffragata dalla corrispondenza tra Joyce e la Weaver, né dall'analisi dello stile e della costruzione narrativa di Joyce. Tutti questi dati confermerebbero dunque che questi sketch - come scrive Pedone su Alias - sono “solo un preludio, una campionatura di qualcosa ancora in larga parte imprevedibile”. Non ci stupiamo dunque se, quindici anni dopo i “crude drafts” di Finn's Hotel, ritroveremo in Finnegans Wake HCE (l’“Eccoquì Convenir Hominognuno” di Ottavio Fatica) nelle sue molteplici trasformazioni, e se alle pagine 380-82 vi ricompariranno al limite del riconoscibile King Roderick O’Conor, il “capo supremo polemarco e ultimo re preelettrico di tutt'Irlanda” o Saint Kevin col suo “semicupio” alle pagine 604-606 , o Saint Patrick e il Druido alle pagine 611-12.

I vecchi guardoni (che Ottavio Fatica traduce come “i quattro flutti di Erin”) diventeranno nel Wake i quattro Evangelisti, i Mamalujo, e si ritroveranno con Isotta, Tristano e il re Marco nel secondo volume, capitolo quarto, alle pagine 383-399. Mentre la “pìstola” di Anna Livia Plurabelle, finirà per esplodere alle pagine 615-619 di Finnegans Wake. Basterebbe leggerne solo le prime righe per comprendere quanta strada ha fatto quella strampalata lettera e che la versione finale del 1938 non è che una lontanissima eco della prima bozza del 1923.