Wolf Bruno

uffa, la critica

Uffa! Se non si parla più dell’egemonia dei trinariciuti sulla cultura si parla della crisi della critica letteraria, della sua rinuncia al confronto schietto, della stroncatura decaduta, della dipendenza dagli uffici stampa, del perduto stile. Sarà tutto vero, ma alla fine cosa mai si chiede a una recensione? È già lodevole la segnalazione d’un titolo, di qualche accenno ai contenuti del libro che le corrisponde, di richiami al catalogo dell’editore che lo pubblica, di varie connessioni con altri libri e di altre connessioni ancora. Questi elementi sono sufficienti al lettore per farsi un’idea, per decidersi all’acquisto o meno, per intuire l’alveo estetico ove collocarlo, se il problema fosse questo. L’interpretazione e il giudizio del critico hanno il loro peso, ma non necessariamente l’hanno nell’opera di persuasione quanto lo possono avere nell’interesse per il percorso del critico stesso, per la godibilità, la leggibilità o anche l’astrusità che a loro volta lo rendono, quando lo è, e se ha senso esserlo, campione di stile.

Non sol di questo, in verità, ci si lagna. Manca il critico “forte” dai forti giudizi e dalle interpretazioni aggressive, il grande mediatore che consegna alla storia i valori estetici. La lamentazione ha ripreso questa volta quota con la pubblicazione presso Einaudi nell’estate del 2005 di Eutanasia della critica di Mario Lavagetto, vecchia conoscenza di chi ai tempi belli s’infrattava nelle teorie freudiane e che adesso la critica vorrebbe fosse sapienzale, che dalla sua saggezza dipendono le sorti dell’uomo. Finita la critica ideologica, maciullata dal logorio della vita moderna quella stilistica, inceppata nelle sue stesse metodologie quella scientifica e semiologica, fuori corso quella psicanalitica, non resta che qualche fissato a dedicare il proprio tempo ai temi letterari, ci vorrebbero per l'appunto i grandi e forti critici di una volta a riscaldare gli animi. Assieme al trionfante bombardamento etico si desidererebbe lanciare quello estetico, cosicché una buona volta l’etico e l’estetico, in barba ai loro difficili (o addirittura impossibili) rapporti, facciano finalmente causa comune. Il discorso risulta essere tutt’altro che lineare e tanto è assoluta l’etica che all’estetica, nonostante i buoni propositi dei filosofi dal Settecento in poi, spetta ciò che da sempre, nelle sue applicazioni,  non va al di là dei gusti personali, del pirronismo più burberamente inconfessato e – nella prassi – sfegatato. Per quanto si possano statisticamente rilevare dei “valori comuni” su ciò che è bello e ciò che è brutto, la critica, a ben guardare, non supera le affermazioni tipo “questo mi piace e questo non mi piace”.

Perciò, giusto per il taglio personale, molto più divertente e ricco di spunti è un libretto uscito contemporaneamente a quello di Lavagetto ma che non ha sembrato meritare le stesse attenzioni: Nemici Miei di Gordiano Lupi (Stampa Alternativa, 2005). L’insieme si presenta come una raccolta di testi idiosincratici che hanno il pregio di non nasconderlo e che, così facendo, riescono misteriosamente ad abbozzare un ritratto efficace della cosiddetta “industria culturale”. Anche per Lupi, come per tanti letterati, motivo di malumore è il critico del “Magazine” del “Corriere della Sera” Antonio D’Orrico. Dal mio personalissimo punto di vista, il motivo principe che mi fa guardare con sospetto a questo critico è l’importanza oltremodo eccessiva che è andato attribuendo a uno scrittore chiamato Saul Bellow, prima ancora della sua infatuazione per il comico cantore degli sbirri, Falletti - o per i più recenti tributi rilasciati a quel signorino romano in church che vuol passare per elegantone vestendosi da architetto. Cosa non va giù di D’Orrico deve essere principalmente la sua inclinazione (puramente giocosa) alle graduatorie, accettate invece in un qualsiasi Harold Bloom che una volta stabilito “il canone” (puramente serissimo) si è messo a scrivere libri che sono sempre all’incirca lo stesso libro (bidone).

Detto questo, il critico “forte” tanto auspicato ci sarebbe - è lui! - se non che D’Orrico è troppo “giornalista” per l’alta letteratura e la sua prosa è troppo poco citatoria e vaticinante per farne il grande intellettuale che si vorrebbe convertisse la letteratura a coscienza del mondo. Ci prova invece un Alfonso Berardinelli che ha trovato infine la sua perfetta collocazione fra le pagine del “Foglio” neo-togliattiano di Giuliano Ferrara, vetrina ultima di coloro ancora intenti a scacciare i pidocchi dalla criniera dei cavalli di razza che si pretende essi siano - naturalmente intelligentissimi, quasi come dei mammiferi superiori. In lizza si sono messi pure dei critici più giovani, come Massimiliano Parente,  ed è facile osservare una strategia “penetrativa” che rammenta quella della neoavanguardia, non importa se osteggiata, l’importante è realizzare delle alleanze, così l’esaltazione in vesti critiche dello scrittore Moresco mi dà l’impressione della speranza che essa possa riverberarsi sul giudizio attorno alla propria opera quale narratore. Parente sa usare la lingua, ciò è indubbio, e ha modo di usarla anche fuori dalle recensioni, dalle polemiche, dai romanzi. Mi è capitato vedergliela usare nel corso di una trasmissione televisiva di Vittorio Sgarbi, e non era per azzuffarsi con lui.

E poi, a novembre, Pasolini, già trent’anni: “oh quanto ci manca!” Ma dite sul serio?