Jean Montalbano

svaghi svizzeri

   Fosse lo scrupolo di confermare l’esistenza di svizzeri fuori dalla Svizzera, fosse l’esempio di avventurose ed eccentriche viaggiatrici, fatto è che nel 1953 il ginevrino Nicolas Bouvier (1929-1998) mentre nel nostro meridione sciamavano utilitarie affollate di etno-sociologi a caccia di sopravvivenze magiche e familismo amorale, puntò con l’amico T. Vernet la sua Topolino verso oriente. Esclusi da subito alibi scientifici, già immaginato e percorso su atlanti e libri, il viaggio si sarebbe concluso a Ceylon sul finire dell’anno seguente, giusto quindici anni dopo che la coppia A. Schwartzenbach- E. Maillart ebbe disegnato su di una Ford la “ via crudele “ che dai balcani portava nel cuore afgano dell’Asia, ma  vissuto ora con più indugi e meno impazienze, con l’agio minimo di chi non si sente pressato da demoni (camicie brune o morfina), addirittura col lusso di ammalarsi e ritemprarsi per la via.

Molte delle foto allora scattate hanno preso a circolare solo dopo la scomparsa di Bouvier ed un centinaio sono esposte, a cura di D. Girardin, nella mostra L’oeil du voyageur (presso Palazzo San Giorgio ) nell’ambito di Genova 2004: tracce non solo di sguardi scambiati tra viaggiatore e residenti (mai sorpresi, sempre in posa, alla pari) ma conferma di una vocazione trovata in corso d’opera, se è vero che quando non viaggiò Bouvier scelse di guadagnarsi il pane inventandosi un lavoro di iconografo per svariati editori (per tornare all’etnografia, è sua una magnifica raccolta sull’arte popolare elvetica). E per felice coincidenza in Francia Gallimard ha appena pubblicato in un grosso volume della collana “Quarto” buona parte degli scritti del nostro (compresi i giovanili pezzi giornalistici e le trascrizioni di trasmissioni radio) testi di ardua reperibilità, sepolti in minime edizioni a far da corona a quell’Usage du monde che gli diede una certa notorietà una decina d’anni dopo l’impresa inaugurale. Se, secondo la formula di Michaux, si viaggia per disimparare, svuotandoci la testa da quanto vi fu, tradendone l’innocenza, fraudolentemente inculcato, Bouvier confermò in quell’esordio maggiore (tradotto in Italia, come il seguente resoconto giapponese, dalle edizioni Diabasis) il suo lato riflessivo-filosofico, non disgiunto da lieve ironia, per nulla avventuroso o dandy come per altri sarebbe stato. Scrittore dell’anima, secondo alcuni, ma dopo aver colto nel dettaglio fotografico i fantasmi di quanto svanisce (pensiamo solo a paesi come Jugoslavia, Iran o Afghanistan per più aspetti oggi scomparsi); fatica della scrittura dopo il piacere delle impressioni: tra il lasciarsi vivere degli istanti assaporati fino nell’indigenza e la sorvegliata redazione che li traduce in reportage, tra l’estasi della verticalità e la seduzione colpevole dello strumentale, le opere di Bouvier, senza clamore chiedono sommessamente, come ogni vero viaggio, di farci – o disfarci.