I testi di Blanchot sono quelli delle prières d’insérer (così si chiamano in Francia i foglietti volanti inclusi nelle copie dei volumi appena pubblicati, con brevi note informative ad uso della stampa) da lui redatte per alcune sue opere narrative. Ora si leggono in M. Blanchot, La Condition critique. Articles, 1945-1998, Paris, Gallimard, 2010, pp. 131-132, 189, 301-302.

 

Maurice Blanchot

prières d’insérer

 

Le Très-Haut (L’Altissimo)

In linea di principio, un libro scritto in prima persona, come lo è questo romanzo, inserisce tra le cose che accadono realmente lo spessore di uno sguardo e l’affermazione di una presenza.

La stranezza di questi libri potrebbe dunque provenire da ciò: scritti in prima persona, sono letti in terza. E forse anche da un’altra contraddizione: affermazione di una presenza, sono la storia di un presente.

Chi scrive «Io», persino in un libro dal quale si giudica del tutto assente, dimostra senza dubbio una grande compiacenza nei riguardi di se stesso. Poiché affermarsi non equivale necessariamente a mettere più «Io» nel mondo, ma anche a cercare di non mettere nessuno là dove c’è «Io».

Giugno 1948

 

L’arrêt de mort (La sentenza di morte)

Indubbiamente non vi è nulla di comune tra questi due libri, Le Très-Haut, L’arrêt de mort, che vengono pubblicati nello stesso tempo. Ma, a me che li ho scritti, sembra che l’uno sia in certo modo presente dietro l’altro, non come due testi che si implicano a vicenda, ma come le due versioni inconciliabili, e tuttavia concordanti, di una stessa realtà, ugualmente assente da entrambe.

Giugno 1948

 

Au moment voulu (Al momento opportuno)

Di questo racconto, si vorrebbe soltanto dire che ciò che riferisce è vero. Ma è anche l’approssimarsi a quel momento in cui non c’è nulla di vero, in cui nulla si rivela, in cui, nel cuore della dissimulazione, parlare non è ancora nient’altro che l’ombra della parola, quel mormorio incessante e interminabile a cui è necessario imporre il silenzio, se si vuole, finalmente, farsi sentire.

Novembre 1951

 

L’attente l’oubli (L’attesa l’oblio)

Vorrei poter facilitare la lettura di queste pagine, esprimendo (secondo le consuetudini) in forma semplificata ciò che esse cercano di dire. Ma, onestamente, non posso farlo. Mi accontenterò dunque di alcune osservazioni sul carattere del racconto. Quel che potrebbe colpire e contrariare il lettore, è il suo movimento discontinuo: spesso da un paragrafo all’altro, a volte da una frase all’altra, c’è un’interruzione, un arresto. Supponiamo che a un autore abituato alla felice (o infelice) continuità della narrazione si sia imposta la necessità di scrivere, talora quasi simultaneamente, delle frasi separate, brevi, chiuse, che si rifiutano di proseguire e restano come dritte nel vuoto, rigide, testarde ed immobili. Questa simultaneità di frasi, le une a distanza dalle altre, inizialmente può solo essere accolta come un tratto inquietante, poiché significa una certa rottura delle connessioni interne. Tuttavia, alla lunga e dopo che si sono fatti dei tentativi di unificare brutalmente, con una costrizione esteriore, ciò che è sparso, risulta chiaro che anche questa dispersione ha la sua coerenza e corrisponde persino a un’esigenza ostinata, anzi unica, volta all’affermazione di un rapporto nuovo, forse lo stesso implicito nelle parole giustapposte che danno il titolo al racconto. Devo aggiungere che la supposizione appena formulata resta solo una supposizione.

Di ciò che è stato suggerito in questa forma indiretta (e senza riferimento all’opera qui presentata), ricordiamo però che una forma discontinua può ancora essere una forma e trasmettere il senso di un movimento ininterrotto; ricordiamo nel contempo che, se la poesia è la dispersione stessa che, in quanto tale, trova la sua forma, anche il lavoro romanzesco può pretendere di lottare contro lo spirito della dispersione, e a partire da quest’ultima.

È vero che il romanzo moderno, romanzo d’un mondo senza coerenza, ha dato luogo soprattutto a ricerche della continuità, in ogni senso del termine, opere di coesione massiccia nelle quali però la rottura è più dissimulata che dominata, e in fin dei conti viene resa segretamente attiva (quelle di Proust, Joyce, Faulkner, Broch…). Ma, per contro, immaginiamo un’immensa memoria vuota, con pochi ricordi sparsi, irrelati, e tuttavia in un rapporto incessante fra loro; forse una simile memoria riuscirebbe meglio, se potessimo giungere fino ad essa, a restituirci lo spazio della pura continuità, là dove il memorabile non ha più corso e dove (come si dice qui) non importa ricordare o dimenticare, ma, ricordando, essere fedeli all’oblio nel cui spazio si ricorda e, dimenticando, essere fedeli a quel venire che ci fa ricordare.

Marzo 1962

(trad. di Giuseppe Zuccarino)