All'uscita del volume, nel 1993, Pier Vincenzo Mengaldo pubblicava sull'”Indice dei libri” una recensione a Tozzi Moderno di Luigi Baldacci (“uno dei maggiori critici italiani, e Tozzi è uno dei "suoi" autori") allargandosi polemicamente ai troppi grandi scrittori o dimenticati o trattati con superficialità. Quanto  a Tozzi, fra l'altro, osservava che si pensa spesso a lui “come a un Kafka di provincia”quando invece “certi suoi racconti sono superiori a quelli di Kafka.” Tempo dopo, sul “Corriere della Sera” del 25 marzo 1994, Baldacci stesso ripartiva dalla polemica di Mengaldo per discutere proprio delle Novelle di Federigo Tozzi e, senza lesinare acute osservazioni sulla conversione dello scrittore senese dal socialismo ateo al cattolicesimo, svolgeva contemporaneamente una puntuale rassegna sullo stato delle edizioni e della critica.

 

Luigi Baldacci

Tozzi, la buona novella

 

Delle novelle di Pirandello esistono diverse edizioni complete: l' ultima nei Classici Giunti; di quelle di Tozzi fu fatta un'edizione Vallecchi, ormai introvabile, nel 1963, a cura del figlio Glauco, e una ristampa, del 1988, che praticamente non fu mai distribuita. È colpa grave della nostra cultura se uno degli scrittori più grandi del Novecento - rimandiamo a quanto ne ha detto Mengaldo su "L' Indice" del maggio 1993 - e' stato sistematicamente escluso dai progetti editoriali nel suo aspetto più significativo e più rilevato - rispetto ai ben più noti romanzi - che è appunto l' attività del novelliere. I Classici della Bur si propongono di colmare questa lacuna pubblicando, a cura di Romano Luperini, un volume vastamente commentato, Giovani e altre novelle, che riproduce l' unica raccolta voluta dall'autore (ventuno pezzi) e ne aggiunge undici su un corpus che tocca il numero di centoventi circa. È accaduto - e non poteva essere diversamente - che la selezione risulti inadeguata alla ricchezza di proposte dell'opera considerata nella sua interezza. Luperini, che è studioso appassionato di Tozzi (ottima e innovatrice quella parte della sua Introduzione nella quale prende in esame la logica della scrittura tozziana), giustifica la scelta evidenziando al massimo il valore di Giovani e conferendo piena responsabilità ai criteri dell'autore che, alla conclusione della sua breve esistenza (morirà nel ' 20), rivelava invece incertezza di obiettivi e un notevole abbassamento della guardia.

È la stagione di Tre croci e le soluzioni naturalistiche, in cui il Borgese, amico e promotore autorevolissimo, salutava un nuovo tempo di edificare dopo il dispendio del lirismo vociano, non sono certo assenti in Giovani: si pensi alla Matta o al Morto in forno. Occorre però precisare che per Luperini Tre croci rappresenta la ricerca "più matura" di Tozzi, laddove il Debenedetti, al quale il Luperini stesso riconosce di essere arrivato, trent'anni fa, a "conclusione definitiva", denunciava "le derivazioni, le recidive naturalistiche, la demagogia estetica e narrativa di Tre croci e di parecchie parti del Podere". Noi stiamo col Debenedetti nel privilegiare Con gli occhi chiusi e quei romanzi del primo periodo testimoni diretti di un interesse per la psicologia sperimentale che accompagno' Tozzi, come ci hanno dimostrato gli studi di Marco Marchi, alle soglie di Freud. Luperini ritiene al contrario che i simboli onirici e visionari, peculiari di Con gli occhi chiusi, non siano diversi da quelli del Podere, quasi che il sogno di Ghìsola, in cui la ragazza si sente addosso il corpo del padre reso ancor più pesante dai sacchi che porta sulle spalle mentre un fiume di sangue scorre a riempire la gora del mulino, fosse la stessa cosa dell'uccello nero che Remigio vede svolazzare sulla casa. Per non dire che, al di la' dei simboli, sono le strutture che contano: aperte, aggregazionali, alogiche in Adele, nei Ricordi di un impiegato e, appunto, in Con gli occhi chiusi, e tutte tese, nel Podere e soprattutto in Tre croci, a ricomporre e riedificare la forma romanzo.

Luperini pensa inoltre che Tozzi sia uno scrittore ideologico che riscopre la propria anima cristiana nei suoi studi di psicologia, e noi crediamo che, al tempo di quegli studi, lo scrittore - che magari si atteggiava a belva sulla rivista "La Torre", si sentisse, quando narrava, uno scienziato, un esploratore, magari un malato, ma non un apologista della fede. Quanto poi al riconoscimento di una simbologia cristiana di carattere culturale (quindi non psicologico) negli ultimi romanzi, Luperini si chiede come mai, a nostro parere, si sottrarrebbero a questo dato i Ricordi di un impiegato che furono "completamente rielaborati" poco prima della morte e, con essi, le novelle tutte che sono percorse, prime e ultime, da una stessa crudeltà disperata; ma conviene ribadire che i Ricordi, in cui è protagonista un nevropatico, non furono rielaborati bensì accresciuti in diverse fasi con materiali omogenei e in stile, tanto da conservare al proprio interno il racconto da cui, intorno al '10, prendevano avvio e che il Marchi poté ricostruire nella sua edizione dei Meridiani, mentre non scopriamo niente di nuovo dicendo che, se il genere romanzo tende per sua natura all'interpretazione, se non alla giustificazione del mondo (come avviene in Tre croci o negli Egoisti), il racconto non si prefigge così alti traguardi.

Contestazioni, in ogni modo, da girare a Debenedetti, il quale intitolò il suo saggio Con gli occhi chiusi e non lo avrebbe intitolato mai Tre croci. E considerando che, fuori dal cerchio degli addetti, Tozzi ha più nemici, e cioè pervicati non lettori, che amici, non sapremmo immaginare come la sua fama possa consolidarsi sui fondamenti provinciali e sulla scrittura facinorosa di Tre croci o di novelle come La matta, quando si trascurano pezzi come La prima fidanzata (il sadismo erotico dei bambini) o In campagna (il disamore violento per la moglie) o Il cieco (una discesa nel male), dove, se anima cristiana c'è, dovremmo dire che campione del cristianesimo sia il marchese de Sade.

Il Luperini, critico di spiccato valore, che ha radicalmente rinnovato da sinistra la discussione critica su Verga, ha affermato nel suo Novecento (1981) che Tozzi aveva vissuto "tanto il socialismo giovanile quanto il cattolicesimo arrabbiato alla Giuliotti, in termini sostanzialmente psicologici", fuori dell' ideologia, "piuttosto che come programmi da attuare nella vita o, tanto meno, nell'arte". Noi sottoscriviamo queste affermazioni di allora e ci sembra significativo che, proprio nel carteggio con Giuliotti, il discorso, anziché a livello religioso, sia mantenuto in chiave becera, rodomontesca, quasi a evitare un contatto serio; e del resto fu Giuliotti a dichiarare a Paolo Cesarini, biografo di Tozzi, che il suo povero amico non era mai stato né socialista né cattolico. Ma si veda quel che scrive il Marchi nel suo recentissimo volume Sondaggi novecenteschi (Le Lettere) a proposito della sterilità e del vuoto di quell'incontro. Marchi ha altresì curato (per la SE) una ristampa di Bestie, il primo libro di Tozzi a vedere la luce, nel '17, pieno di cose straordinarie sul piano di uno stile che ha sperimentato tutti gli azzardi dell'analogia; e non è un caso che, con un anticipo di vent' anni, lo scrittore sembri, anche nelle sue prose critiche, un collaboratore ermetico di "Campo di Marte". "Che punto sarebbe quello dove s' e' fermato l' azzurro? Lo sanno le allodole...", cosi' il primo rigo; oppure, in parallelo con un tema dominante in Barche capovolte: "Non ho mai guardato dentro un pozzo senza pensare alla morte"; o l' evocazione delle case di Siena che ti crollano addosso come nella scenografia di un film espressionista. Iniziato a comporre già nel periodo senese, Bestie è da collocare ancora nel momento psicologico (in quanto però negazione dell'analisi tradizionale) della ricerca di Tozzi, non senza un rischio di esperienza vociana. Il Marchi, nella postfazione, sottolinea i rapporti di Bestie col poema in prosa Paolo e con Adele, nonché, ovviamente, con le altre due sezioni del trittico, Cose e persone, pubblicate postume: "Un programma di lavoro unitario, una trilogia incompiuta in cui l' uomo arriva per ultimo", e con l' uomo arriva un Dio biblico, che si scambia i panni con la figura del padre padrone. In questo senso Tozzi e' un "modernissimo credente di un Dio antico"; anzi, come si legge in un altro articolo di Sondaggi novecenteschi, l' universo tozziano resta "senza Cristo e religioso senza Dio, al di la' di ogni momentanea vantata conversione".

Ma in Bestie c'è un margine di manierismo, una strategia dello spasimo, che era assente in Con gli occhi chiusi, testo oggi ristampato nei classici Feltrinelli coi Ricordi di un impiegato, come era avvenuto già nel 1980 per gli Editori Riuniti: all' Introduzione di allora firmata da Ottavio Cecchi si aggiunge una Prefazione di Gianni Celati. Siamo in attesa del film dell'Archibugi e questa riproposta prepara l' evento, anche se non sarà facile trasferire in cinema un romanzo che non si fonda sull'azione ma sulla suspense, sulla rarefazione del tempo narrativo, sui rapporti analogici tra i personaggi, le bestie, le piante, le cose. Quando Cecchi conclude che per Ghìsola "il solo progetto possibile e' la liberazione dal mondo di Domenico e di Pietro", mettendo nel conto "anche il disinganno e la sconfitta", si lascia andare, noi crediamo, a una seducente ma illecita' sovrimpressione ideologica. Né Ghìsola né Pietro hanno progetti e in questo consiste la loro novita' . Aderentissime all'opera sono le pagine di Celati che, tenendosi alla scrittura e ai suoi segnali, dimostra un' ottima conoscenza dell'opera tozziana e (senza dichiararlo) del discorso critico, insiste acutamente sul motivo dell'inconoscibilità dei personaggi in quanto risucchiati - dall' esterno - nel magma dell' interiorità .