Massimo Bacigalupo

astrazioni quotidiane: John Ashbery, finalmente

John Ashbery, poeta newyorkese-parigino che ha compiuto 81 anni il 28 luglio 2008, è uno dei grandi misteriosi della scena poetica americana, un figlio di T. S. Eliot e Wallace Stevens, ma anche dell’ostinata Gertrude Stein, insomma un originale americano con una buona dose di umorismo sapienziale, così candido che rischia di sfuggirci. Un libro del 1995 si intitola, Ci senti, uccello?. Contiene una poesia intitolata Capitolo II, Libro 35. Che comincia:

 

Era un soldato e uno Shaker. Almeno faceva qualcosa,

andava qui o là. Spesso, la sera, blaterava di Mark Twain...

 

Sembra un racconto filato, ma si tratta solo di una delle tante maschere che Ashbery indossa: il lirico, il meditabondo, il prosatore capzioso, lo svanito, soprattutto il figlio dei surrealisti. Hebdomeros di De Chirico è uno dei suoi testi capitali, e quando nel 1992 ebbe a Roma il premio dei Lincei disse in una bella conferenza che stava traducendo, sempre di De Chirico, Une aventure de Monsieur Dudron. “Lavoro alla poesia circa due ore al giorno, quando sono proprio ispirato quattro, rimane il problema delle altre venti...” Così Ashbery ha pubblicato in 52 anni ventun libri di versi, di cui quattro solo dal 2000  in poi. Sodale e amico dei pittori di New York (Johns, Rivers, Rauschenberg), autore di saggi d’arte, in realtà compone i suoi testi come quadri pop: un colore qua, un brandello di manifesto pubblicitario là. Ma non è mai sguaiato. E’ un figlio di Harvard, che sovverte sottovoce. Ci dice che siamo in un mondo dove nulla è sicuro, il sogno si confonde con la realtà, la percezione è un labirinto, eppure ci si può stare bene. E’ americano, dopo tutto.

   Donde il titolo del formidabile volume che finalmente rende giustizia editoriale da noi al pluripremiato ottuagenario: Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007 (Luca Sossella Editore, pp. 309, €15,00). Procurarselo (a quel prezzo contenuto, direi (a)politico come Ashbery stesso) è come mettersi in casa un pezzo del MOMA di New York. Grande formato, in copertina Cubo rosso di Isamu Noguchi, all’interno 79 poesie (fra cui brani estratti dai poemi più lunghi) scelte – con il beneplacito dell’autore – da Damiano Abeni e Joseph Harrison, poeta-critico americano che firma l’utile introduzione, e tradotte dallo stesso Abeni con la poetessa Moira Egan.  

Il risultato è ottimo, poiché Abeni (di professione medico) è uno dei nostri migliori traduttori di poesia in inglese, e i suoi collaboratori lo hanno sicuramente coadiuvato nel penetrare il linguaggio naturale di Ashbery che però cela infinite trappole.

    Ashbery infatti ama le metafore del parlare comune, gli “idioms”, che tutti (tranne gli stranieri) capiscono ma che hanno più di un senso secondo il contesto. E questi pezzi di realtà linguistica li combina ed estrania. E’ come se sentissimo un discorso perfettamente filato di cui però il nesso ci sfugge, o dobbiamo fornirlo noi. Diventa essenziale, come in musica o pittura, che il lettore “esegua” il pezzo, lo avvicini in uno stato d’animo ricettivo, disposto al gioco.

    Gioco serio potrebbe essere la chiave (una chiave) di John Ashbery, che per esempio ci offre bizzarre poesie a rima baciata -

 

Perché la notte, al solito, sapeva cosa stava facendo,

fornendo sonno per compensare l’enorme scollamento

 

- o scrive le stranezze dette “pantoum”, cioè quartine dove i versi 2 e 4 di ogni strofa ritornano come versi 1 e 3 della strofa successiva.

    E’ il caso dell’ultimo testo della raccolta, che comincia:

 

Perché la sua società fosse in vendita non so dirlo bene.

Le obbligazioni del pensiero dozzinale ci riposizionarono comunque,

e in più dovevi essere un fantasma per apprezzarlo.

Come se ne vedono tanti.

 

Le obbligazioni del pensiero dozzinale ci riposizionarono comunque.

Ci trovavamo incantevoli, fatti vorticare dai nostri partner

(come se ne vedono tanti).

Aggregatasi al giro c’era una nidiata di capretti...

 

     Il rischio è che la stranezza ci paia troppo voluta e che il meccanismo stanchi: il pericolo  del manierismo in cui spesso cadono i poeti-linguisti, che sono legione (anche in Italia), tutti più o meno nipotini di Ashbery. Se Ashbery ripaga quasi sempre la nostra attenzione benevola è perché unisce l’astrazione alla quotidianità, al discorso ordinario. Lo sentiamo parlare e ci sembra che fra un attimo capiremo tutto (imminenza del senso). Nondimeno sarebbe difficile ridurre a logica le due quartine appena citate. La poesia ne conta quindici e finisce:

 

Nei self-service e sui campi da gioco le folle si succedevano.

Perché la sua società fosse in vendita non so dirlo bene

(tutto a posto, è solo una ferita della carne, è quasi guarita),

e in più dovevi essere un fantasma per apprezzarlo.

 

Così scopriamo la regola che nell’ultima strofa devono tornare i versi 1 e 3 della prima come versi 2 e 4. Siamo vicini alla musica. Ashbery è un grande ammiratore di Donadoni ma soprattutto del guru Giacinto Scelsi, e in fondo John Cage con la sua alea e giocosità fa parte dello stesso ambito culturale. L’eccezionalità di Ashbery sta nella sua semplicità e mancanza di supponenza. La sua è un’arte contemporanea rivolta a tutti, anche se la poesia inevitabilmente trova un pubblico più esiguo della pittura (ma non della musica).

    Rispettosi dello spirito dadà dell’autore, gli ottimi curatori di Un mondo che non può essere migliore non allegano né annotazioni né bibliografia. Ma a chi voglia sentire come si commenta una poesia di Ashbery raccomando l’intervista ad Abeni ed Egan sul sito di Radio3 Suite (http://www.radio.rai.it/radio3/radio3_suite). La Egan, con la sua nitida inflessione americana, ci spiega che in Questa stanza il verso “Qualcosa riluce, qualcosa viene azzittito” è “una delle migliori definizioni di poesia che conosco”. E’ solo rileggendo le battute gettate lì di Ashbery che ci accorgiamo della loro felicità e memorabilità:

 

Per ora basta che questo giorno sia finito.

Ha portato il suo carico di freschezza, l’ha scaricato

e se n’è andato. Quanto a noi, siamo ancora qui, no?

                           (“L’interesse d’amore”)

“Il Manifesto-Alias”, 6 settembre 2008