Massimo Bacigalupo

Orwell: diari di guerra, il socialismo e il genio inglese

Gli eventi catastrofici possono provocare disorientamento e giudizi emotivi che presto appaiono datati. George Orwell visse a Londra la II guerra mondiale e in qualità di giornalista e commentatore scrisse diari e testi che congiungono impressione e riflessione, sempre con molto respiro. Le considerazioni e predizioni errate non mancano, come egli stesso segnala, ma nel complesso questi scritti restano attuali anche quali documenti di come una  situazione in fieri appariva a un uomo della sua acutezza e della sua capacità di sintesi. Diari di guerra (a cura di Guyda Armstrong, traduzione di Alessandra Sora, postfazione di Bernard Crick, Oscar Mondadori, pp. VIII+396, € 9,80) ristampa i Diari veri e propri tenuti nel 1941-42, insieme a un importante pamphlet del 1941 inedito in Italia, Il leone e l’unicorno: il socialismo e il genio inglese, e le notevoli corrispondenze che Orwell inviò durante il conflitto alla “Partisan Review” di New York, spiegando ciò che accadeva nell’isola ai compagni di fede progressista. Fra queste tre sezioni  esistono sovrapposizioni, ma è istruttivo seguire Orwell, sempre così lucido e chiaro, mentre assiste, giudica, si corregge, guarda avanti e indietro.

      Diari di guerra è un documento nella storia del socialismo, che si sente attaccato dall’esterno (il nazifascismo) ma è nel contempo minacciato dall’interno (lo stalinismo, che Orwell aveva visto in azione in Spagna, restando per sempre vaccinato). Poco dopo l’attacco tedesco alla Russia, Orwell annota: “Il miglior esempio della superficialità morale ed emotiva del nostro tempo è che siamo ora tutti più o meno pro-Stalin. Questo disgustoso assassino per il momento sta dalla nostra parte e così abbiamo istantaneamente dimenticato le purghe e tutto il resto. Così sarebbe per  Franco, Mussolini ecc., se alla fine dovessero decidere di schierarsi con noi.” La polemica qui è diretta contro il governo inglese, e ritorna a proposito delle atrocità commesse dalle varie parti, che secondo Orwell sono evocate o taciute a seconda dell’inclinazione e soprattutto dell’opportunità politica.

     Se oggi pensiamo a un’Inghilterra eroicamente monolitica nella resistenza solitaria all’attacco nazista, il Diario rivela una situazione assai più sfumata. Orwell considera Churchill poco meno che un nemico conservatore e opportunista, e nei primi mesi di guerra ne anticipa la caduta e l’avvento di un governo socialista. Questa è una delle costanti del suo pensiero. Per quanto non sia uomo di facili entusiasmi e autoillusioni, è convinto che la guerra sia preludio a una rivoluzione sociale inevitabile, giacché essa non può essere vinta da una società antidemocratica retta da interessi contrastanti contro un nemico totalitario che aggredisce senza essere ostacolato da profitti particolari .

      Di questo Orwell scrive agli amici americani nelle prime lettere alla “Partisan Review”, augurandosi addirittura che la vittoria inglese non sia troppo rapida perché il processo di democratizzazione possa compiersi fino in fondo. E di questo scrive in Il leone e l’unicorno, un ritratto dell’Inghilterra in un momento di crisi che si chiude con sei proposte concrete: “1. Nazionalizzazione della terra, miniere, ferrovie, banche e industrie principali; 2. Limitazione dei redditi... 3. Riforma democratica dell’educazione... 4. Concessione immediata all’India dello statuto di ‘Dominion’, con potere di secessione al termine della guerra. 5. Creazione di un Consiglio Generale Imperiale, in cui siano rappresentati i popoli di colore. 6. Dichiarazione di alleanza formale con Cina, Abissinia e tutte le altre vittime del potere fascista”...

      Orwell crede nell’ideale di eguaglianza che giudica centrale nella forma mentis inglese e americana se non altro come idea che ha la capacità di realizzarsi. E contesta la posizione estremista secondo cui “non vi sarebbe differenza” fra democrazia imperfetta e totalitarismo, così anticipando la visione di 1984:  “L’intera concezione di uno stato militarizzato continentale, con la sua polizia segreta, la sua letteratura censurata e il suo lavoro coatto, è assolutamente diversa da quella di una vaga democrazia marittima, con i suoi bassifondi e la sua disoccupazione, i suoi scioperi e partiti politici... E dovendo scegliere tra l’una e l’altra non si sceglie tanto sulla base di ciò che ora sono ma di ciò che sono capaci di diventare...”

     Questo è stato scritto quando tutti i giochi erano da farsi, e Orwell vedeva che l’Europa e il mondo avrebbero potuto compiere una svolta totalitaria, e metteva le mani avanti proponendo riforme radicali ma confermando la sua fedeltà al regime parlamentare in crisi. E’ affascinante vedere Orwell davanti a questo bivio della storia, che allora era completamente aperto.

      Ma la sezione più istruttiva di Il leone e l’unicorno è il viaggio nelle contraddizioni pittoresche del suo paese che Orwell compie nella prima parte, “L’Inghilterra, la vostra Inghilterra”. Egli mette in luce le caratteristiche nazionali, quali la privatezza, la non religiosità, la “gentilezza” che si congiunge all’antimilitarismo e alla barbarie della forca e della frusta, la fede nella legalità. E’ vero, il sistema elettorale è fraudolento, tuttavia “persino l’ipocrisia è una protezione potente. Il giudice che impicca, il vecchio malvagio in toga scarlatta e parrucca di crine, cui solo la dinamite potrebbe far capire in che secolo vive, ma che comunque interpreta la legge secondo i codici e non si lascia corrompere, è una delle figure simboliche dell’Inghilterra”.

      E’ notevole che una mente propositiva come quella di Orwell, proiettata verso il futuro, colga così bene questi aspetti tradizionali vedendo una forza nella loro obsolescenza, e questo senza sentimentalismo. Critico di vaglia, rileva la scarsa attitudine artistica degli inglesi, che non hanno prodotto musica e pittura, solo letteratura e poesia, genere che poco si esporta: “Tranne Shakespeare, i migliori poeti inglesi sono scarsamente noti in Europa, persino di nome. I soli a essere molto letti sono Byron, che è ammirato per le ragioni sbagliate, e Oscar Wilde, compatito come vittima dell’ipocrisia inglese”. A questo tratto si unisce, dice, “la mancanza di capacità filosofica”.

     Sicché  la seconda parte del pamphlet allude nel titolo al giudizio sprezzante di Napoleone:  “Bottegai in guerra”. Perché un’altra caratteristica inglese sarebbe il senso di unità nazionale nel pericolo, che si poté avvertire durante la lotta per la sopravvivenza del 1940-41. L’Inghilterra, conclude citando Shakespeare, deve essere “fedele a se stessa”: “Gli eredi di Nelson e Cromwell non sono nella Camera dei Lord, bensì nei campi e nelle strade, nelle industrie e nelle forze armate”. Questa la vera nazione che Orwell si augura venga alla luce in seguito al conflitto.

     Le lettere alla “Partisan Review” chiudono opportunamente Diario di guerra in quanto Orwell riflette sui suoi errori di giudizio e sulla resistenza della Destra che è rimasta al potere, per perderlo democraticamente a vittoria ottenuta. Passa in rassegna retrospettivamente le posizioni più diffuse sulla guerra e conclude che “sbagliavamo tutti”, anche se “avevo ragione a non essere disfattista” (come l’estrema sinistra), “e dopo tutto la guerra non l’abbiamo persa”. Con tipica disponibilità conclude invitando i lettori americani di passaggio a Londra a farsi vivi: “Il mio numero di casa è CAN 3751”.

“Il Manifesto-Alias”, 3 novembre 2007