Massimo Bacigalupo

Emerson. L’individuo illumina ogni cosa, prima del fuoco universale

“Chi oserà pensare di essere giunto in ritardo nella natura, o di avere perso qualcosa di straordinario nel passato, a vedere le meravigliose stelle di possibilità e il continente ancora inesplorato di speranza che brilla con tutte le sue montagne nell’immenso Occidente?” Ralph Waldo Emerson pronunciava queste parole nel corso di una lezione tenuta l’11 agosto 1841 in un remoto college del Maine. La conferenza, Il metodo della natura, oggi riproposta con testo a fronte da Anna Banfi (La Vita Felice, pp. 83, euro 9,50), risale al periodo aureo in cui Emerson pubblica alla vigilia dei quarant’anni  il primo volume dei decisivi Essays, contente capisaldi della visione americana, fra tutti “Self-Reliance”, la “fede in se stessi”, in cui invitava a rigettare precedenti e tradizioni e affidarsi alle proprie intuizioni: meglio sbagliare da soli che andar dietro al gregge. Una tesi a suo modo rivoluzionaria, alla base di ogni biografia americana che importi. Si pensi solo ai due maggiori poeti di quel mondo: Whitman (che conobbe personalmente Emerson) e Dickinson (che probabilmente lo sbirciò da dietro le tendine della sua camera in occasione di una visita del pensatore ad Amherst). Entrambi scrivono in un modo che nessuno aveva visto prima, di cose note solo a loro. “Perché io vedo al modo della Nuova Inghilterra” dichiara Emily. “La regina discerne, come me, provincialmente”. La benedizione di essere provinciali. Provinciali immersi però nella cultura del tempo, e insieme da essa distaccati. “Non accetto ciò che passa per buono ma indago se sia buono”. La storia conta poco.

    Emerson ha anche fama di essere piuttosto vaporoso. Non per nulla egli è il filosofo del “trascendentalismo”. E’ un idealista assoluto, per cui siamo tutti immersi nello spirito. “La natura non esiste per realizzare uno o più fini personali, bensì innumerevoli e infiniti benefici; non vi è in essa una volontà particolare, una foglia o un ramo ribelle, tutto è invece oppresso dall’incombere di una sola tendenza, obbedisce a quell’esubero o eccesso di vita che negli esseri coscienti chiamiamo estasi”. La chiave del tutto è l’estasi: “C’è  una vita che non possiamo descrivere che possedendola”.

     Nonostante la sua passione per l’astrazione, Emerson ha una grande capacità espressiva, inventa frasi memorabili, e soprattutto tende a galvanizzare l’uditorio con il senso della possibilità e della grandezza dell’individuo, a scapito delle istituzioni sociali. Svaluta i dibattiti parlamentari, celebra l’uomo di genio, che è l’eroe romantico e costruttore (e distruttore), Napoleone, ma è anche democraticamente ciascuno degli studenti che ascoltano la sua lezione e ciascuno dei suoi lettori.

     Per cui leggere Emerson è un po’ un dovere culturale data la sua importanza come fonte ideale non solo americana, ma è anche stimolante come per un testo insieme speculativo e poetico. La natura innerva il tutto e l’uomo trova in lei la sua collocazione esaltante : “Da lui ogni cosa è illuminata fino al suo centro”.  Ma per svolgere questa funzione occorre il genio: “La natura è muta e l’uomo, suo eloquente fratello, ecco! anche lui è muto. Eppure quando arriva il Genio, il suo parlare diventa fiume; non deve sforzarsi di esprimersi, più di quando la natura si sforzi di esistere”.

    Se Emerson non fosse riuscito a comunicare queste convinzioni ci sarebbe quel poeta immenso e diseguale che è  Whitman che le ha espresse a non finire nelle sue rapsodie, con la sicurezza (giustificata quando era in vena come nel “Canto di me stesso”) che ogni cosa del mondo potesse essere detta e diventare immediatamente  rivelazione. Queste e altre pagine di Emerson sono affascinanti da leggere come una sorta di programma o libretto da cui l’incolto Whitman fu trascinato e (come disse) “portato all’ebollizione”. Ma l’entusiasmo non basta a scrivere buoni saggi e buone poesie. E’ per questo che c’è un solo Whitman.

     E magari un solo Dante. Il colto e curioso Emerson si occupò spesso di Dante e viaggiò in Italia. Nel 1843, dunque nel periodo più ispirato, stese la prima traduzione inglese della Vita nuova, pubblicata postuma nel 1957 e ora edita in Italia per la cura meticolosa di Igor Candido (Aragno, pp. XXX+305, euro 15,00). E’ un libro elegante, di interesse specialistico. La traduzione si basava sull’edizione del 1576, molto manchevole, che Candido ristampa a fronte del testo inglese. A parte qualche fraintendimento, Emerson se la cava bene nel leggere le scrupolose annotazioni da diario intimo della Vita nuova, che data la sontuosità dell’edizione Aragno fa piacere rileggere. Quante  volte Dante parla della sua camera dove va a riflettere sul saluto dato o ricusato di Beatrice...

      Pubblicare una traduzione d’autore accanto al testo di partenza nel paese d’origine del secondo è un lusso riservato a poche delle tante importanti traduzioni dei nostri classici, tanto più sorprendente dato che in Italia mancano affatto  edizioni correnti dei principali lavori di Emerson. Che pure, come ribadisce Banfi nella prefazione a Il metodo della natura, meriterebbero di essere ponderati e potrebbero svolgere una funzione animatrice addirittura politica per il loro franco insistere sulla necessità di ricominciare sempre. Ogni nuovo individuo è precipitato in un caos sconosciuto di cui deve dar conto prima di scomparire nel gran fuoco universale.

    Ma l’edizione italiana di questa Dante’s New Life contribuisce significativamente alla storia del dantismo anglosassone (altro argomento esoterico, si dirà). Igor Candido infatti racconta in un saggio di 175 pagine tutto ciò che si può scoprire sul rapporto Emerson-Dante, citando i testi in cui il “saggio di  Concord” si pronuncia sul tema del grande uomo “rappresentativo” (Shakespeare, Milton, Goethe, Dante ecc.) e fornendo anche un ricco contesto che va dai contemporanei a George Santayana giù giù fino a Eliot e Pound che a differenza del più timido conterraneo (loro venivano dal West!) erano pronti a gettare alle ortiche Milton per seguire l’esempio luminoso del fiorentino e la sua “amorosa erranza”, giudicandolo perlomeno non secondo a Shakespeare e migliore modello da imitare. Shakespeare sarebbe secondo Eliot inimitabile se non goffamente, Dante invece con le sue semplici immagini dichiarative non costituisce un pericolo per il giovane poeta. Da ciò  ad esempio questa similitudine del neo-inferno di Pound: “un puzzo come di oli a Grasse” (canto 15). “Quale ne l’arzanà de’ Viniziani”, scriveva Dante. Oppure: “come la mosca cede alla zanzara”.

      Il saggio introduttivo di Candido, quasi un libro a sé, offre un florilegio di scritti emersoniani, tutti citati in inglese, il che lo rende più prezioso per lo specialista ma forse meno fruibile dall’italianista. Vediamo Dante rinascere in America dove avrà una lunga fortuna, e sentiamo anche le voci di Singleton e altri interpreti nostri contemporanei. Verso la conclusione Candido si sorprende che in età avanzata Emerson dia un giudizio apparentemente limitativo di questo “mastodonte” (“un uomo da mettere in un museo, ma non in casa tua”), e concluda: “Indeed I never read him, nor regret that I do not”. Candido pensa che questo significhi “non l’ho mai letto e non lo rimpiango”. In realtà direi che la frase va letta al presente: “Non lo leggo mai e non me ne dolgo”. Questo naturalmente potrebbe dirsi di ognuno di noi che, più o meno dolendosi, non torna più di tanto a queste grandi fonti, distratto dalle incombenze che Emerson appunto biasimava. “Il manifesto-Alias”, 20 gennaio 2013