(a cura di) Massimo Bacigalupo

William Wordsworth, il Preludio e i suoi lettori

Nel maggio 1805 William Wordsworth completò il “poema sulla crescita della sua mente” che sarebbe stato pubblicato con molte revisioni nel 1850, poco dopo la sua morte, col titolo The Prelude voluto dalla moglie Mary.  Era un’opera grandiosa per un poeta di soli trentacinque anni, che però aveva alle spalle una vita intensamente vissuta in un periodo di grandi sconvolgimenti storici a cui aveva assistito in prima persona, e soprattutto aveva una perenne curiosità riflessiva nei confronti del fenomeno dell’interiorità, dell’interferenza della mente e del mondo, come consapevole che lì si gioca il destino della coscienza dell’uomo. I suoi maestri erano stati Shakespeare, Spenser e soprattutto Milton, con le sue immagini cosmogoniche e la sua lingua poderosa, la sua preoccupazione per il destino ultimo, religioso e sociale, dell’umanità. Wordsworth a sua volta si avventurava lontano dalle vie del protestantesimo anglicano, recuperando un senso quasi animistico dell’uomo immerso in una natura vivente, attraversato da passioni e desideri di una fisicità sublimata ma intensissima. Era insieme un idealista e un materialista legato strettamente alle cose, agli eventi, e alla fenomenologia degli stati mentali. Ed era animato da una forza poetica senza eguali che tutto trascina lungo i tredici libri del Prelude, caso quasi unico in età moderna di potente ispirazione sostenuta sulla lunga durata. Tutti hanno i lori episodi favoriti del Prelude, quelli infantili dei primi libri, o gli esempi di epifanie (“spots of time”) evocati con stupenda evidenza nel libro XI: scene di smarrimento del giovane in luoghi perturbanti, o di solitudine piena di presagi in una giornata di nevischio lungo una strada non frequentata. Sono episodi di per sé comuni ma che Wordsworth riesce a presentarci qualo momenti intensi e numinosi come per lui furono e come di conseguenza divengono per noi. Ma anche le parti prosaiche e riflessive del Prelude sono sempre animate da una forza percettiva ed espressiva che stupisce il lettore e lo tiene legato alla voce profonda del poeta, questo grande narratore dell’interiorità ma anche dell’alba della nostra storia: gli anni di Robespierre e Napoleone, i primi anni del secolo XIX.

            Nel Prelude non vi è pressoché nulla di fantastico, esso è il più realistico e pedestre dei poemi (infatti Wordsworth componeva passeggiando) e insieme, come detto, uno dei più sublimi. Forse l’unico episodio apertamente visionario è il sogno del cavaliere arabo che apre il libro V, a illustrare la grandiosa quanto semplice riflessione sul destino dell’universo che la precede. Tutto è destinato a essere distrutto, anche le meravigliose opere delle menti più ispirate, e questo - dice il colossale “egoista” Wordsworth - gli pare una cosa ancora più tremenda dei “dolori” che tutti gli uomini soffrono, cioè di tutto il male e il dolore del mondo. Egli è convinto che la presenza della coscienza sopravvivrebbe idealmente all’apocalisse, ma certo non “le opere consacrate del bardo e del saggio”, e di questo non si dà pace. A questo punto introduce il racconto di un amico, che dopo averlo canzonato per tali preoccupazioni che giudica abbastanza futili (che coraggio porre in dubbio la terribilità appena evocata con tanta intensità!), confessa di aver anch’egli “ceduto a simili apprensioni”. E gli racconta di aver sognato un deserto, un diluvio incombente, e un cavaliere arabo che su un dromedario gli passa vicino e gli spiega cosa sono la pietra e la conchiglia ch’egli porta con sé.  Sono due libri, rispettivamente Euclide (la scienza) e una “cosa di maggior valore”. Gli porge la conchiglia e il narratore ode “un alto profetico squillo di armonia, / un’ode, recitata con passione, profetante / distruzione ai figli della terra / dal diluvio incombente”. La conchiglia è dunque la poesia, e la poesia ci parla delle ultime cose, ci toglie e ci dà speranza, proprio nel togliercela. E così la semplice riflessione iniziale del poeta sulla distruzione universale si trova ribadita all’interno del sogno dell’amico: un pensiero peregrino che però se assumiamo il punto di vista del sublime, la lunga  veduta sulla condizione umana, ci si presenta inevitabile e angosciante.

            Il libro V che si apre con questo celebre episodio è intitolato Libri, e prosegue parlando delle letture formative del giovane William e celebrando autori conosciuti e dimenticati (“senza nome nelle tombe sparse”), poi si avventura con qualche esitazione (“Di rado e riluttante vorrei scendere a temi transitori”) a contrastare un’educazione sana in cui i giovani sono liberi di scorazzare nella natura e scoprire insieme mondo e libri, a un’educazione nozionistica e arida, che crea dei giovani pappagalli: “intanto l’ava terra si duole vedendo / trascurati i giocattoli che con amore gli ha / apprestati: nei loro letti silvani i fiori / piangono, e le rive dei fiumi sono sconsolate”. Wordsworth, rimasto orfano in età giovanile, aveva studiato in un ginnasio nella regione dei laghi il cui influsso e la cui libertà non cessa di celebrare. E poco dopo la sua dissertazione pedagogica evoca un esempio di infanzia calata nel mondo naturale: “C’era un ragazzo...” L’episodio del bambino che dialoga coi gufi imitandone il verso è uno dei brani più famosi del Prelude, e si conclude con uno straordinario momento di comunione del bambino col senso delle cose. Meno noto è l’episodio che lo segue di poco, la visione dell’annegato, che Wordsworth pacatamente ci racconta, riportandolo in qualche modo al tema della lettura, giacché la visione del morto non lo turba, dice, perché egli conosce simili scene dai libri che ama.

        Il bambino, lettore e poi poeta, si confronta nei libri successivi con l’esperienza degli studi universitari a Cambridge e con il primo vagabondaggio sul continente del 1790, dove scopre che in Francia sta succedendo qualcosa di straordinario e sul Sempione resta turbato dalle Alpi. Un libro è dedicato al soggiorno a Londra, e cioè al nuovo fenomeno della metropoli-selva, prima che Wordsworth  passi un periodo fondamentale (1791-92) in Francia, oggetto di due ampi libri del poema (che solo indirettamente evocano l’amore per Annette Vallon che gli diede la figlia Caroline). Gli ultimi tre libri riflettono su L’immaginazione compromessa e restituita, cioè su come Wordsworth, fallite col Terrore le speranze rivoluzionarie del 1789, sposta la rivoluzione nell’intimo della mente e annuncia una nuova visione della realtà, anche se la sua resta per ora una scoperta per pochi intimi. Il manoscritto viene messo da parte, copiato dalla devota sorella e ispiratrice Dorothy e dalla moglie Mary, entrambe dedicatarie di commossi ringraziamenti all’interno del poema. Ad esse, a Dorothy in particolare, William deve la sua poesia, il fatto di aver ritrovato la via della sensibilità e della coscienza dopo il fallimento della ragione e della politica.

      L’altro angelo custode è l’amico Coleridge, a cui il Prelude è dedicato. Era stato Coleridge a incoraggiare Wordsworth e per certi versi a mostragli la strada in certe sue brevi poesie riflessive. All’amico dallo spirito più robusto spettava scrivere la grande opera che raccogliesse vita e pensiero dei due grandi poeti che videro che ciò di cui discutevano nel loro piccolo circolo appartato e senza patenti ufficiali poteva divenire una nuova visione, una nuova spiegazione dell’uomo a se stesso.

    Possiamo provare l’emozione di assistere alla nascita del Prelude leggendo la lettera che William e Dorothy scrissero a Coleridge nel dicembre 1798 da Goslar in Germania dove volevano imparare il tedesco ed erano isolati da un inverno freddissimo. Intanto Coleridge studiava filosofia a Ratzeburg e pattinava sul ghiaccio. Allora su un grande foglio Dorothy copia per l’amico la scena del pattinaggio e quella della barchetta rubata che sarebbero confluite nel libro I del Prelude, e che William aveva composto in questo periodo di attività intensissima dell’immaginazione stimolata dalla solitudine, dalla lontananza dalla patria e dalla mancanza di libri, come egli spiega a Coleridge sull’altra facciata di questa lettera costruita come una trapunta, e che contiene anche alcune poesie brevi, e la richiesta all’amico di conservare questi versi caso mai William e Dorothy ne perdessero l’originale nel corso dei loro trasferimenti. Quando si leggono i versi più belli e famosi della poesia inglese dell’Ottocento mentre nascono fra una gelata e una passeggiata dai colloqui di tre giovani non ancora trentenni, torna in mente quel che nel libro V Wordsworth dirà della fragilità dei supporti materiali, e in effetti si riflette sui casi della creazione destinati a cambiare così profondamente la poesia moderna.

            Per festeggiare i duecento anni del dono del Prelude, presentiamo qui una piccola antologia di testi che a esso in un modo o l’altro rispondono. In primis lo straordinario e profetico poemetto che Coleridge scrisse appena Wordsworth ebbe finito di leggergli il poema, di cui Coleridge comprese subito tutta la grandezza. E anche qui le parole di Coleridge ci danno il piacere di tornare a quelle prime giornate del 1807 in cui “una sera dopo l’altra” gli intimi di Wordsworth udirono dalla sua voce dalle inflessioni del Nord dell’Inghilterra tutto quel “canto più che storico, quel canto profetico”. Esso come s’è visto sarebbe stato pubblicato solo molti anni dopo, e in una versione da Wordsworth ritoccata nelle espressioni più ardite, per cui di solito si preferisce leggere il testo nella versione del 1805 per quanto esso non abbia avuto l’imprimatur dell’autore.

    I romantici della seconda generazione – Byron, Keats, Shelley – non poterono conoscere The Prelude, essendo tutti morti prima della sua pubblicazione nel 1850. Lessero invece il poema The Excursion (1814), che pur non avendo la forza del Prelude ed essendo più quietista nell’ideologia, non manca di grandi momenti e colpisce per la vasta concezione (e ancor più per quella annunciata nella premessa, secondo cui The Excursion doveva essere solo parte di un’opera maggiore, The Recluse, a cui il Prelude sarebbe servito come introduzione). In una nota lettera del maggio 1818 Keats mostra di aver inteso la portata dell’immaginazione wordsworthiana e non esita a paragonarla a Milton. Qualche anno prima, il radicale Shelley attacca in un sonetto il Wordsworth traditore dello spirito rivoluzionario, ma dice anche quello che egli aveva significato per lui. Mentre il poeta contadino John Clare difende in un testo caratteristicamente affettuoso e illogico Wordsworth dagli attacchi che gli si muovevano da parte dei conservatori in politica e letteratura (le accuse di ribelli come Shelley erano espressione di posizione allora estremistiche).

     Nel 1850, alla morte di Wordworth, Matthew Arnold, il maggior critico inglese del secondo Ottocento, nonché poeta di vaglia, espresse in Versi in memoriam ciò che egli aveva significato per la sua generazione, un maestro che riconduceva l’anima alla vera natura del sentimento, e lo paragonò a Byron e Goethe, aprendo la questione – che sviluppò in seguito in un importante saggio – della collocazione di Wordsworth nella cultura europea, che, Arnold constatava con disappunto, stentava a coglierne la grandezza. Donde il tentativo che ancora prosegue di spiegare questo massimo fra i poeti romantici inglesi a lettori che hanno di solito una più chiara percezione dell’individualità e grandezza di Coleridge e dei poeti della seconda generazione, anche perché questi ebbero risalto di personaggi ben noti sul Continente.

     Sulla presenza di Wordsworth nel Novecento angloamericano possiamo dare solo alcuni cenni. Egli è citato, parodiato e segretamente plagiato dai poeti del Modernismo. Il tema dell’ “epifania” che troviamo negli episodi numinosi del Prelude è alle fondamenta dell’opera di Joyce, Pound ed Eliot, e cosa sono i Four Quartets se non un esempio di pensiero poetante che alterna riflessione ed evocazione esattamente come The Prelude? (Eliot nutriva anche grande considerazione per gli scritti di poetica di Wordsworth, vedi The Use of Poetry and the Use of Criticism.) L’antimodernista ironico e lirico Robert Frost deriva da Wordsworth la sua convinzione della “necessità di essere versati nelle cose campestri” (come recita il titolo di una sua poesia alquanto amara), e in testi supremi come Birches scrive la sua versione della scena del ragazzo di Winander che parla ai gufi, aggiungendoci delle strizzare d’occhio concettose che ricordano il perdurante debito degli americani al Barocco. Fra i poeti del dopoguerra, Ted Hughes offre a sua volta delle scene di rivelazione legate alla fisicità e al mondo naturale, come in The Horses,  e nelle Birthday Letters tenterà la via della memoria, forse in maniera troppo apertamente pro domo sua, ma pur sempre con coraggiosa evocazione di fantasmi e momenti. Nelle Birthday Letters si sente lo scrittore di mestiere, l’artista, non c’è la forza trascinante della cosa vista del Prelude (e forse di The Horses e altri testi più diretti del poeta laureato inglese). L’irlandese Heaney è wordsworthiano in quanto si abbevera costantemante alla vita della fattoria dove trascorse l’infanzia, e ai turbamenti dell’adolescenza, vedi Morte di un naturalista.  In un saggio incluso  in Il governo della lingua egli analizza curiosamente la poesia di Sylvia Plath fornendosi di un modello della formazione del poeta desunto dalla scena del ragazzo coi gufi del Prelude. Heaney usa il Preludio ironicamente nella raccolta North, quando cita il brano sul “propizio tempo di semina della mia anima” (I, 305) e poi descrive la sua educazione di collegiale discriminato per il suo nome e accento di estrazione contadina e cattolica e fermato ai posti di blocco di Belfast nelle prime uscite con le ragazze. Ma Heaney trova maggiore serenità nel successivo Field Work, dove nei Sonetti di Glanmore cerca con la lingua di immergersi nel mondo vegetale e nel sogno, e si trova a paragonarsi un po’ ingenuamente a William con Dorothy, al che la moglie col suo caratteristico buon senso femminile lo redarguisce ridimensionando le sue pose di letterato.

            Potremmo trovare Il Preludio dovunque il poeta si muove nei territori di natura, coscienza e memoria. Un augusteo come il compianto Anthony Hecht (1923-2004) racconta candidamente in Una collina una sua visione del passato desolato nel bel mezzo di una scena cittadina. L’americano Charles Wright non fa che riflettere in testi poundianamente fluidi su brandelli di impressioni naturali, letture e memorie. Gli ho chiesto del Prelude e mi ha detto che ha sempre più o meno preso per buona la condanna di Pound: Wordsworth come “povera pecora belante”. In realtà, come ho detto, si potrebbe leggere Wordsworth in Pound, ma anche sostenere che Wright è quanto di più vicino vi sia oggi al bardo di Grasmere. In questo senso tornano utili le riflessioni di quel poeta della critica che è Harold Bloom, secondo cui a Wordsworth, lo si conosca o no, non si sfugge.

     A duecento anni dalla composizione, The Prelude non ha perso la sua attualità, anzi è più che mai un testo necessario per rimetterci in contatto con le cose e la fisicità, indicando la via della riflessione che è tutt’uno col respiro e la poesia. Esso non solo presenta una galleria indimenticabile di semplici e straordinari momenti lirici, ma li situa in un contesto, rivelandone la praticabilità, offrendo ai suoi lettori un modello di vita non fratturata, basata sulla continuità e l’ascolto che è anche creazione.

                                                                                                         

Letter to S.T. Coleridge

An den Herrn Coleridge, Ratzeburg

[Goslar, Germany, December 1798]

 

[William] Have you been able to get any information concerning the earlier poets of Germany?... Let me know what you think of Wieland. You make no mention of Klopstock, and what is the merit of Goethe’s new poem? – Dorothy has written the other side of the sheet while I have been out. She has transcribed a few descriptions. You will read them at your leisure. She will copy out two or three little Rhyme poems which I hope will amuse you. As I have had no books I have been obliged to write in self-defence. I should have written five times as much as I have done but that I am prevented by an uneasiness at my stomach and side, with a dull pain about my heart. I have used the word pain, but uneasiness and heat are words which more accurately express my feeling.  At all events it renders writing unpleasant. Reading is now become a kind of luxury to me. When I do not read I am absolutely consumed by thinking and feeling and bodily exertions of voice or of limbs, the consequences of those feelings...

 

[Dorothy] You speak in raptures of the pleasures of skaiting – it must be a deligthful exercise, & in the North of England amongst the mountains whither we wish to decoy you, you might enjoy it with every possible advantage. A race with William upon his native lakes would leave to the heart & the imagination something more Dear and valuable, than the gay sight of Ladies & countesses whirling along the lake of Ratzeberg. I will transcribe some lines which are connected with this subject, & of course will be interesting to you now. It is from a description of William’s boyish pleasures.

 

 

And in the frosty season, when the sun

Was set, and visible for many a mile

The cottage windows through the twilight blazed,

          I heeded not the summons: clear and loud

          The village clock tolled six; I wheeled about,

          Proud and exulting like an untired horse

          That cares not for its home. All shod with steel

          We hissed along the polished ice, in games

          Confederate, imitative of the chace

          And woodland pleasures, the resounding horn,

          The Pack loud bellowing, & the hunted hare.

          So through the darkness and the cold we flew,

          And not a voice was idle: with the din,

          Meanwhile, the precipices [rang a]loud,

          The leafless trees, and every [icy crag]

          Tinkled like iron, while [the distant] hills

          Into the tumult sent an alien sound

          Of Melancholy, not unnoticed while the stars,

          Eastward, were sparkling clear, & in the west

          The orange sky of evening died away.

                Not seldom from the uproar I retired

        Into a silent bay, or sportively

        Glanced sideways, leaving the tumultuous throng

          To cut across the shadow of a star

          That gleamed upon the ice. And oftentimes

          When we had given our bodies to the winds

          And all the shadowy banks on either side

          Came sweeping through the darkness, spinning still

          The rapid line of motion, then at once

          Have I, reclining back upon my heels,

          Stopped short; yet still the solitary cliffs

          Wheeled by me, even as if the earth had rolled

          With visible motion her diurnal round;

          Behind me did they stretch in solemn train

          Feebler & feebler, & I stood & watched

          Till all was tranquil as a summer sea.

[Cfr. The Prelude 1805, I, 452-89]

 

     I will give you a Lake scene of another kind. I select it from the mass of what William has written, because it may be easily detached from the rest, & because you have now a lake daily before your eyes –

 

          one evening

I went alone into a shepherd’s boat,

A skiff, which to a willow-tree was tied

Within a rocky Cave, its usual home,

The moon was up, the lake was shining clear

Among the hoary mountains: from the shore

I pushed, and struck the oars, & struck again

In cadence, & my little boat moved on

 Just like a man who walks with stately step

  Though bent on speed. It was an act of stealth

  And troubled pleasure: not without the voice

 Of mountain-echoes did my Boat move on,

Leaving behind her still on either side

Small circles glittering idly in the moon,

Until they melted all into one track

Of sparkling light. A rocky Steep uprose

Above the Cavern of the willow tree

And now, as fitted one who proudly rowed

With his best skill, I fixed a steady view

Upon the top of that same craggy ridge,

 The bound of the horizon; for behind

  Was nothing but the stars & the grey sky.

  She was an elfin pinnace: twenty times

 I dipped my oars into the silent lake,

      And as I rose upon the stroke, my boat

       Went heaving through the water, like a swan.

       When from behind that rocky steep, till then

         The bound of the horizon, a huge cliff,

         As if with voluntary power instinct,

         Upreared its head: I struck & struck again,

         And, growing still in stature, the huge cliff

         Rose up between me & the stars, & still,

         With measured motion, like a living thing,

         Strode after me. With trembling hands I turned,

         And through the silent water stole my way

         Back to the cavern of the willow tree,  

         There, in her mooring-place I left my bark,

         And, through the meadows homeward went with grave

         And serious thoughts, & after I had seen

         That spectacle for many days my brain

         Worked with a dim and undetermined sense

         Of unknown modes of being. I n my thoughts

         There was a darkness, call it solitude,

         Or blank desertion, no familiar shapes

         Of hourly objects, images of trees,

         Of sea, or sky, no colours of green fields

         But huge & mighty forms that do not live

        Like living men moved slowly through my mind

        By day, and were the trouble of my dreams.

                                   [Cfr. The Prelude 1805, I, 372-427]

 

 

William’s foot is on the stairs. He has been walking by moonlight in his fur gown and a black fur cap in which he looks like any grand Signior.

     If your eyes are not quite well, I am afraid they will suffer from this long ill-written letter & I begin to be half afraid that you will be tired before you get through it.... but no! you will not –

    We intend to lay out a little money in books o  our journey. What would you advise to buy?

    It is friday evening & this letter cannot go till tomorrow. I wonder when it will reach you. One of yours was eleven days upon the road. You will write by the first post.

    William says you will preserve any verses which we have sent you, in the fear, that in travelling we may lose the copy. F

    Farewell! God love you! God bless you! dear Coleridge, our very dear friend.

                                                           D.Wordsworth

 

S. T. Coleridge

To William Wordsworth

Composed on the Night After His Recitation of a Poem on the growth of an Individual Mind

 

Friend of the Wise ! and Teacher of the Good !
Into my heart have I received that
Lay
More than historic, that prophetic Lay
Wherein (high theme by thee first sung aright)
Of the foundations and the building up
Of a Human Spirit thou hast dared to tell
What may be told, to the understanding mind
Revealable ; and what within the mind
By vital breathings secret as the soul
Of vernal growth, oft quickens in the heart
Thoughts all too deep for words ! –

[spacer][spacer][spacer][spacer][spacer]Theme hard as high !

Of smiles spontaneous, and mysterious fears
(The first-born they of Reason and twin-birth),
Of tides obedient to external force,
And currents self-determined, as might seem,
Or by some inner Power ; of moments awful,
Now in thy inner life, and now abroad,
When power streamed from thee, and thy soul received
The light reflected, as a light bestowed –
Of fancies fair, and milder hours of youth,
Hyblean murmurs of poetic thought
Industrious in its joy, in vales and glens
Native or outland, lakes and famous hills !
Or on the lonely high-road, when the stars
Were rising ; or by secret mountain-streams,
The guides and the companions of thy way !

Of more than Fancy, of the Social Sense
Distending wide, and man beloved as man,
Where France in all her towns lay vibrating
Like some becalméd bark beneath the burst
Of Heaven's immediate thunder, when no cloud
Is visible, or shadow on the main.
For thou wert there, thine own brows garlanded,
Amid the tremor of a realm aglow,
Amid the mighty nation jubilant,
When from the general heart of human kind
Hope sprang forth like a full-born Diety !
– Of that dear Hope afflicted and struck down,
So summoned homeward, thenceforth calm and sure
From the dread watch-tower of man's absolute self,
With light unwaning on her eyes, to look
Far on – herself a glory to behold,
The Angel of the vision ! Then (last strain)
Of Duty, chosen Laws controlling choice,
Action and Joy! – An Orphic song indeed,
A song divine of high and passionate thoughts
To their own music chaunted !

[spacer][spacer][spacer][spacer]O great Bard !

Ere yet that last strain dying awed the air,
With stedfast eye I viewed thee in the choir
Of ever-enduring men. The truly great
Have all one age, and from one visible space
Shed influence ! They, both in power and act,
Are permanent, and Time is not with them,
Save as it worketh for them, they in it.
Nor less a sacred Roll, than those of old,
And to be placed, as they, with gradual fame
Among the archives of mankind, thy work
Makes audible a linkéd lay of Truth,
Of Truth profound a sweet continuous lay,
Not learnt, but native, her own natural notes !
Ah ! as I listened with a heart forlorn,
The pulses of my being beat anew :
And even as Life returns upon the drowned,
Life's joy rekindling roused a throng of pains –
Keen pangs of Love, awakening as a babe
Turbulent, with an outcry in the heart;
And Fears self-willed, that shunned the eye of Hope ;
And Hope that scarce would know itself from Fear ;
Sense of past Youth, and Manhood come in vain,
And Genius given, and Knowledge won in vain ;
And all which I had culled in wood-walks wild,
And all which patient toil had reared, and all,
Commune with thee had opened out – but flowers
Strewed on my corse, and borne upon my bier,
In the same coffin, for the self-same grave !

That way no more ! and ill beseems it me,

Who came a welcomer in herald's guise,
Singing of Glory, and Futurity,
To wander back on such unhealthful road,
Plucking the poisons of self-harm ! And ill
Such intertwine beseems triumphal wreaths
Strew'd before thy advancing !

[spacer][spacer][spacer][spacer][spacer]Nor do thou,

Sage Bard ! impair the memory of that hour
Of thy communion with my nobler mind
By pity or grief, already felt too long !
Nor let my words import more blame than needs.
The tumult rose and ceased : for Peace is nigh
Where Wisdom's voice has found a listening heart.
Amid the howl of more than wintry storms,

The Halcyon hears the voice of vernal hours
Already on the wing.

[spacer][spacer][spacer]Eve following eve,

Dear tranquil time, when the sweet sense of Home
Is sweetest! moments for their own sake hailed
And more desired, more precious, for thy song,
In silence listening, like a devout child,
My soul lay passive, by thy various strain
Driven as in surges now beneath the stars,
With momentary stars of my own birth,
Fair constellated foam, still darting off
Into the darkness ; now a tranquil sea,
Outspread and bright, yet swelling to the moon.

And when – O Friend ! my comforter and guide !
Strong in thyself, and powerful to give strength !
Thy long sustainéd Song finally closed,
And thy deep voice had ceased – yet thou thyself
Wert still before my eyes, and round us both
That happy vision of belovéd faces –
Scarce conscious, and yet conscious of its close
I
sate, my being blended in one thought
(Thought was it ? or aspiration ? or resolve ?)
Absorbed, yet hanging still upon the sound –
And when I rose, I found myself in prayer.

 

 

 

 

 

 

 

 

Percy Bysshe Shelley

To Wordsworth

 

Poet of Nature, thou hast wept to know
That
things depart which never may return:
Childhood and youth, friendship and love's first glow,
Have fled like sweet dreams, leaving thee to mourn.
These common woes I feel. One loss is mine
Which thou too feel’st, yet I alone deplore.
Thou wert as a lone star, whose light did shine
On some frail bark in winter’s midnight roar:
Thou hast like to a rock-built refuge stood
Above the blind and battling multitude:
In honoured poverty thy voice did weave
Songs consecrate to truth and liberty, –
Deserting these, thou leavest me to grieve,
That having been, that thou shouldst cease to be.

 

 

 

 

 

John Clare

To Wordsworth

 

Wordsworth I love, his books are like the fields,

Not filled with flowers, but works of human kind;

The pleasant weed a fragrant pleasure yields,

The briar and broomwood shaken by the wind,

The thorn and bramble o’er the water shoot

A finer flower than gardens e’er gave birth,

The aged huntsman grubbing up the root – 

I love them all as tenants of the earth:

Where genius is, there often die the seeds;

What critics throw away I love the more;

I love to stoop and look among the weeds,

To find a flower I never knew before;

Wordsworth, go on – a greater poet be;

Merit will live, though parties disagree!

 

Matthew Arnold

Memorial Verses
April, 1850

Goethe in Weimar sleeps, and Greece,
Long since, saw Byron’s struggle cease.
But one such death remain’d to come;
The last poetic voice is dumb –
We stand to-day by Wordsworth’s tomb.

When Byron’s eyes were shut in death,
We bow’d our head and held our breath.
He taught us little; but our soul
Had felt him like the thunder’s roll.

With shivering heart the strife we saw
Of passion with eternal law;
And yet with reverential awe
We watch’d the fount of fiery life
Which served for that Titanic strife.

When Goethe’s death was told, we said:
Sunk, then, is Europe’s sagest head.
Physician of the iron age,
Goethe has done his pilgrimage.
He took the suffering human race,
He read each wound, each weakness clear;
And struck his finger on the place,
And said: Thou ailest here, and here!
He look’d on Europe’s dying hour
Of fitful dream and feverish power;
His eye plunged down the weltering strife,
The turmoil of expiring life –
He said: The end is everywhere,
Art still has truth, take refuge there!
And he was happy, if to know
Causes of things, and far below
His feet to see the lurid flow
Of terror, and insane distress,
And headlong fate, be happiness.

And Wordsworth! – Ah, pale ghosts, rejoice!
For never has such soothing voice
Been to your shadowy world convey’d,
Since erst, at morn, some wandering shade
Heard the clear song of Orpheus come
Through Hades, and the mournful gloom.
Wordsworth has gone from us – and ye,
Ah, may ye feel his voice as we!
He too upon a wintry clime
Had fallen – on this iron time
Of doubts, disputes, distractions, fears.
He found us when the age had bound
Our souls in its benumbing round;
He spoke, and loosed our heart in tears.

He laid us as we lay at birth
On the cool flowery lap of earth,
Smiles broke from us and we had ease;
The hills were round us, and the breeze
Went o’er the sun-lit fields again;
Our foreheads felt the wind and rain.
Our youth returned; for there was shed
On spirits that had long been dead,
Spirits dried up and closely furl’d,
The freshness of the early world.

Ah! since dark days still bring to light
Man’s prudence and man’s fiery might,
Time may restore us in his course
Goethe’s sage mind and Byron’s force;
But where will Europe’s latter hour
Again find Wordsworth’s healing power?
Others will teach us how to dare,
And against fear our breast to steel;
Others will strengthen us to bear –
But who, ah! who, will make us feel?
The cloud of mortal destiny,
Others will front it fearlessly –
But who, like him, will put it by?

Keep fresh the grass upon his grave
O Rotha, with thy living wave!
Sing him thy best! for few or none
Hears thy voice right, now he is gone.

 

 

Lettera a S.T. Coleridge

An den Herrn Coleridge, Ratzeburg

[Goslar, Germania, dicembre 1798]

 

[William] Sei riuscito a trovare informazioni sui più antichi poeti della Germania?... Fammi sapere cosa pensi di Wieland. Non dici nulla di Klopstock, e quanto vale la nuova poesia di Goethe? –  Dorothy ha scritto sull’altro lato del foglio mentre ero fuori. Ha copiato alcune descrizioni. Le leggerai con tuo comodo. Copierà anche due o tre poesiole in rima che spero ti daranno piacere. Non avendo nessun libro a disposizione, ho dovuto scrivere per autodifesa. Avrei scritto cinque volte di più di quanto ho fatto se non me lo impedisse un malessere allo stomaco e al fianco, con un dolore sordo intorno al cuore. Uso la parola dolore, ma malessere e infiammazione esprimono più accuratamente quel che provo. In ogni caso rende spiacevole scrivere. Ormai per me la lettura è diventata una sorta di lusso. Quando non leggo sono assolutamente consumato da pensieri e sentimenti e da sforzi fisici della voce e delle membra, in conseguenza di tali sentimenti.

 

[Dorothy] Parli con entusiasmo dei piaceri del pattinaggio – deve essere un esercizio incantevole, e nel Nord dell’Inghilterra fra i monti dove speriamo di attirarti, ne puoi godere con ogni possibile vantaggio. Una gara con William sui suoi laghi nativi lascerebbe al cuore e all’immaginazione qualcosa di più caro e prezioso della visione allegra di dame e contesse volteggianti sul lago di Ratzeberg. Trascriverò alcuni versi su questo tema, che naturalmente ti interesseranno. Sono presi  da una descrizione dei piaceri giovanili di William.

 

 

E nella stagione del gelo, quando il sole

era tramontato, e visibili per molte miglia,

le finestre dei casolari brillavano nel crepuscolo,

non davo ascolto a quei richiami. Chiaro e forte

l’orologio del paese batteva le sei; io mi voltavo,

fiero ed esultante come un cavallo instancabile

noncurante del ritorno. Calzati di acciaio

filavamo  sul ghiaccio lucido, in giochi

concertati, imitando la caccia

e i piaceri dei boschi, il corno sonante,

la muta che forte abbaia, la lepre braccata.

Così nel buio e nel freddo volavamo,

e non c’era voce muta: del clamore

intanto risuonavano i dirupi,

gli alberi spogli e i crinali ghiacciati

tintinnavano come ferro, mentre i colli [lontani]  

in quel tumulto mettevano un suono estraneo

e malinconico, non inosservato, le stelle

a oriente luccicavano chiare, a occidente

si spegneva il cielo arancione della sera.

    Non di rado mi distoglievo dal vocio

in qualche baia silenziosa, o mi spingevo

nella foga da parte, lasciando la ressa

per tagliare coi pattini l’immagine di una stella

che brillava sul ghiaccio. E spesso

quando avevamo affidato il corpo ai venti

e tutte le rive ombrose sui due lati

ci venivano addosso nell’oscurità con rapido

e continuo vorticare, allora a un tratto,

piegandomi all’indietro sui pattini,      

mi sono fermato, e ancora le rupi solitarie

mi ruotavano attorno, come se la terra volgesse

con moto visibile la sua rotazione quotidiana;

alle mie spalle si allineavano in fila solenne

sempre più indistinti, e io fermo osservavo

finché tutto era tranquillo come un mare estivo.

[Cfr. Il Preludio 1805, I, 452-89]

 

Ti darò una scena di lago di un altro genere. La scelgo fra tutto quanto William ha scritto, perché è facilmente separabile dal resto, e perché tu hai ora quotidianamente un lago sotto gli occhi –

 

 

― una sera

mi misi da solo nella barca di un pastore,

un canotto, che era legato a un salice

in una caverna rocciosa, sua dimora abituale.

La luna era alta, il lago splendeva chiaro

fra le montagne bianche: dalla riva

mi allontanai, e con i remi diedi colpo su colpo,

cadenzati, e la barchetta proseguì,

come uno che cammina con passo solenne

pur nella fretta. Era un atto furtivo

di piacere turbato: non senza la voce

di echi montani procedeva la barca,

lasciandosi sempre dietro sui due lati

cerchietti pigramente luccicanti al chiar di luna,

finché si scioglievano tutti in un’unica scia

brillante. Una parete rocciosa sorgeva

sopra la caverna del salice, e ora,

come si conveniva a uno che remava orgoglioso

con tutta la sua perizia, fissai lo sguardo

sulla punta di quel crinale frastagliato,

limite dell’orizzonte; perché dietro

non c’erano che le stelle e il cielo grigio.

Era un legno fatato: venti volte

tuffai i remi nel lago silenzioso,

e mentre mi rialzavo dalla battuta, la mia barca

andava alta sull’acqua, come un cigno,

quando, da dietro la parete rocciosa, fino allora

limite dell’orizzonte, una rupe maestosa,

come mossa da una forza volontaria,

levò la testa: sferzai  e sferzai l’acqua,

e, crescendo ancora di statura, quella rupe

si ergeva fra me e le stelle, e ancora,

con moto misurato come cosa viva,

mi veniva dietro.  Con mani tremanti voltai,

e attraverso le acque silenziose ritornai

alla caverna del salice, –

all’attracco lasciai la barca,

e per i campi presi la via  di casa

con pensieri gravi e seri, e dopo che ebbi visto

quello spettacolo per molti giorni la mia mente

fu pervasa da un senso vago e indeterminato

di modi d’essere sconosciuti. Nei miei pensieri

c’era un’oscurità, chiamala solitudine

o vuoto abbandono, nessuna sagoma familiare

di oggetti quotidiani, immagini di alberi,

di mari o cieli, nessun verde di campi:

ma forme grandi e potenti, che non vivono

come vivono gli uomini, mi passavano lente nella mente

di giorno, ed erano un turbamento nei miei sogni.

[Cfr. Il Preludio 1805, I, 372-427]

 

 

...

            Sento il passo di William sulle scale. E’ stato fuori a passeggiare al chiar di luna nella sua pelliccia e nel suo berretto di pelliccia nera in cui sembra qualsiasi gran signore – 

    Se i tuoi occhi non sono in buona condizione, ho paura che abbiano a soffrire per questa lettera lunga e mal scritta, e comincio a temere quasi che ti stancherai prima di averne letta la metà.... ma no! non accadrà –     

   Abbiamo intenzione di spendere qualcosa in libri durante il viaggio. Cosa ci consiglieresti di comprare?

   E’ venerdì sera e questa lettera non potrà partire fino a domani. Mi chiedo quando ti arriverà. Una tua ha viaggiato undici giorni. Ci scriverai a giro di posta.

   William dice che dovresti conservare i versi che ti mandiamo per timore che nel viaggio ne possiamo perdere copia.

     Addio! Dio ti protegga! Dio ti benedica! caro Coleridge, nostro carissimo amico.

                                                           D. Wordsworth

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S. T. Coleridge

A William Wordsworth

Composta la sera dopo che ebbe recitato un Poema sulla crescita di una mente individuale

 

Amico dei saggi, e maestro dei buoni!

Nel mio cuore ho accolto il canto

più che storico, il profetico canto

in cui (alto tema da te per primo degnamente

affrontato) delle fondamenta e della costituzione

di uno spirito umano hai osato dire

quanto può dirsi, rivelabile alla mente

ben disposta; e quanto entro la mente

attraverso vitali respiri – segreti come l’anima

della crescita primaverile – spesso desta nel cuore

pensieri di gran lunga troppo profondi per le parole!

 

                                   Tema arduo quanto alto!

Di sorrisi spontanei, e paure misteriose

(primogeniti gemelli della ragione),

di maree obbedienti alla forza esterna,

e correnti determinate da sé, come sembra,

o da una potenza interiore; di momenti tremendi,

ora nella tua vita intima, e ora nel mondo,

quando la forza proruppe da te, e la tua anima ricevette

la luce riflessa, come una luce portata;

di dolci fantasie e delle ore più quiete della gioventù,

mormorii iblei di pensiero poetico

operoso nella gioia, in valli e boschi

nativi o stranieri, laghi e monti famosi!

o sulla solitaria via maestra, quando le stelle

sorgevano; o presso segreti torrenti montani,

guide e compagni del tuo cammino!

 

Di più che fantasia: il sentimento sociale

che ampio si diffonde, l’uomo amato in quanto uomo,

nel tempo che la Francia in tutte le sue città fremeva

come una barca nella bonaccia sotto lo scoppio

del tuono improvviso del cielo, quando nessuna nuvola

è visibile, né ombra sull’ampio del mare.

Infatti tu eri lì, ed erano le tue tempie inghirlandate,

fra i tremori di un reame in fiamme,

in una grande nazione piena di giubilo,

quando dal cuore generale dell’umanità

la speranza balzò nella luce, dea già matura!

– Di quella cara speranza afflitta e abbattuta,

perciò richiamata in patria, e in seguito calma e sicura

sulla torre di vedetta intoccabile dello spirito più profondo dell’uomo,

con una luce mai offuscata nei suoi occhi, per scrutare

nella distanza,  ed essa stessa una gloria a vedersi,

l’angelo della visione! Quindi (ultimo motivo),

del dovere, leggi prescelte che guidano la scelta,

l’azione e la  gioia! – Un canto orfico davvero,

un canto divino di pensieri alti e appassionati,

intonati sulla loro stessa melodia!

 

                                               O grande bardo!

ancor prima che l’ultimo motivo spegnendosi

incantasse l’aria, con occhio pacato vidi te nel coro

degli uomini imperituri. I veri grandi

hanno tutti un’unica età, e da un solo spazio visibile

spargono influssi! Essi, insieme in potenza e in atto,

hanno permanenza, e il tempo non è con loro,

se non in quanto opera per loro, ed essi in lui.

E uno scritto non meno sacro, di quelli antichi,

destinato a trovar posto come essi, con fama graduale,

negli archivi dell’umanità, la tua opera

rende udibile un canto disteso di verità,

di verità profonda un canto dolce e continuo,

non appreso ma nativo, le stesse note a esso naturali!

Ah! mentre ascoltavo con cuore sconsolato,

il polso del mio essere riprendeva a battere:

e come la vita riappare a coloro che annegano,

la gioia della vita riaccendendosi suscitò uno stuolo di dolori:

pene pungenti d’amore, che si svegliavano come un bambino

turbolento, con un grido nel cuore;

e paure ostinate, che fuggivano l’occhio della speranza;

e speranza che non si poteva quasi distinguere dalla paura:

un senso di gioventù trascorsa, e maturità giunta invano,

e genio concesso, e conoscenza ottenuta invano;

e tutto ciò che avevo colto su sentieri selvatici,

e tutto ciò che la fatica paziente aveva nutrito, e tutto

ciò che la comunione con te aveva rivelato, solo fiori

sparsi sul mio corpo, e portati sul mio feretro,

nella stessa cassa, alla stessa tomba!

 

Basta tali sentimenti! E male si conviene,

a me venuto per dare il benvenuto come un araldo,

cantando di glorie e dell’età futura,

ripercorrere vie tanto malsane,

cogliendo i veleni del danno provocato a me stesso! Male

questa digressione si intreccia alle corone trionfali

sparse davanti ai  tuoi passi!

                                              

                                               E tu, saggio bardo!

non turbare la memoria dell’ora

della tua comunione con la mia mente più nobile

con pietà o dolore, già troppo a lungo provati!

E  non biasimare più del necessario le mie parole.

Il tumulto si produsse, passò: poiché la pace è prossima

dove la voce della saggezza ha trovato un cuore in ascolto.

Fra l’ululare di tempeste più che invernali

l’alcione sente la voce di ore primaverili

che già sopraggiungono in volo.

 

                                   Una sera dopo l’altra,

cara ora serena, quando il senso dolce della casa

è più dolce – momenti amati per se stessi,

e più desiderati, più preziosi, per il tuo canto –

ascoltando in silenzio, come un bambino devoto,

la  mia anima giaceva passiva, dalla tua varia melodia

sospinta come a ondate, ora sotto le stelle,

con stelle momentanee della mia nascita,

bella schiuma costellata, che sempre sfreccia via

versò l’oscurità, ora un mare tranquillo,

ampio e chiaro, ma gonfio sotto la luna.

 

E quando – o amico, mio conforto e mia guida,

forte in te stesso, e potente nel dare forza! –                                                         

il tuo canto a lungo protratto infine terminò,

e la tua voce profonda tacque – ma tu stesso

eri ancora davanti ai miei occhi, e intorno a noi due

quella felice visione di visi amati –

quasi inconscio, eppure conscio della sua fine,

restai seduto, il mio essere fuso in un solo pensiero

(era pensiero? o aspirazione? o risoluzione?),

profondamente assorto, ma ancora intento al suono:

e alzandomi mi accorsi che pregavo.

 

Percy Bysshe Shelley

A Wordsworth

 

Poeta della Natura, hai pianto nello scoprire

che talune cose svaniscono e non fanno ritorno.
Infanzia e giovinezza, amicizia e amore al primo accendersi

sono fuggiti come dolci sogni, e ti hanno lasciato in lacrime.
Queste pene comuni le provo anch’io. Mia però è una perdita
che anche tu senti, ma solo io lamento.
Eri come una stella solitaria, la cui luce brillava

su un fragile legno nella tempestosa mezzanotte d’inverno;
come un rifugio posto sulla roccia ti levavi
sopra la moltitudine cieca e litigiosa:
la tua voce in povertà onorata modulava
canti consacrati a verità e libertà –
abbandonate queste, a me lasci di piangere
che tu che tale fosti abbia cessato di essere.

 

John Clare

A Wordsworth

 

Io amo Wordsworth, i suoi libri sono come campi,

pieni non di fiori ma di opere dell’uomo;

l’erba piacevole offre un piacere fragrante,

la rosa canina  e la ginestra agitate dal vento,

il rovo e la mora sopra l’acqua gettano

un fiore più squisito di quanti offra un giardino,

il vecchio cacciatore che strappa la radice 

tutti li amo, inquilini della terra:

dove è il genio spesso muoiono i semi;

ciò che i critici rigettano io l’amo ancor di più;

mi piace inchinarmi e curiosare fra l’erba,

per trovare un fiore a me sin qui sconosciuto;

Wordsworth, prosegui – sii un poeta maggiore;

il merito vivrà, anche se i pareri discordano!

 

Matthew Arnold

Versi in memoriam
Aprile, 1850


Goethe dorme a Weimar, e la Grecia

già da molto tempo vide Byron terminare la lotta.
Ma
una tale morte doveva ancora venire;
l’ultima voce poetica è muta: 
oggi sostiamo presso la tomba di Wordsworth.

Quando gli occhi di Byron si chiusero nella morte,
chinammo la testa e trattenemmo il respiro.
Poco ci aveva insegnato; ma la nostra anima
l’aveva sentito come il rombo di un tuono.

Con cuore tremante vedemmo la contesa
della passione con la legge eterna;
eppure con timore reverenziale
guardammo la fonte di vita infuocata
che alimentava quella lotta titanica.

Quando fu annunciata la morte di Goethe, dicemmo:
è dunque tramontata la più saggia testa dell’Europa.
Medico di un’età di ferro,
Goethe ha compiuto il suo pellegrinaggio.
Raccolse la sofferente razza umana,
decifrò chiaramente ogni ferita, ogni debolezza;
e battè il dito sulla piaga,
dicendo: questo è il male, qui!
Gettò lo sguardo sull’ora moribonda dell’Europa

di incubi affannosi e potere febbrile;
il suo occhio penetrò le confuse contese,
l’agitazione della vita allo stremo; 
disse: la fine è dappertutto,
l’arte ancora possiede il vero, in essa abbiate riparo!

E fu felice, se conoscere
le cause delle cose, e giù in fondo,

ai propri piedi, vedere l’alluvione torbida

del terrore, e l’inquietudine folle,
e il destino sconsiderato, può dirsi felicità.

E Wordsworth! Ah, pallide larve, gioite!
Perché non mai una simile voce pacificatrice
è giunta nel vostro mondo nebbioso,
da quando all’alba qualche ombra vagante
udì il canto chiaro di Orfeo risuonare
per l’Ade, e la tetra penombra.
Wordsworth ci ha lasciato, e voi,
ah, possiate
sentire come noi la sua voce!
Anch’egli aveva avuto in sorte

un clima invernale: questa ferrea età

di dubbi, dispute, sconvolgimenti, paure.
Ci raccolse quando l’età aveva legato
le nostre anime con ceppi torpidi;
parlò, e sciolse il nostro cuore in lacrime.

Egli ci pose come nell’ora che venimmo alla luce
sul fresco e fiorente grembo della terra,
sorrisi ci sfuggirono e ci ritrovammo sereni;
intorno avevamo i monti, e la brezza
scorreva di nuovo sopra i campi al sole;
le nostre fronti sentirono il vento e la pioggia.
La
nostra gioventù ritornò: infatti fu donata

a spiriti morti da lungo tempo,
spiriti inariditi e su di sé ripiegati,
la freschezza del mondo primigenio.

Ah! poiché i giorni scuri portano pur sempre alla luce
la prudenza dell’uomo e la sua potenza di fuoco,
il tempo nel suo corso potrà restituirci
la saggezza di Goethe e la forza di Byron;
ma dove troverà l’ora estrema dell’Europa
la capacità di guarire di Wordsworth?
Altri  ci insegnerano come osare,
e contro la paura armare il petto;
altri ci daranno la forza di sopportare:
ma chi, ahi chi, ci farà sentire?
La nuvola del destino mortale,
altri  impavidi l’affronteranno:

ma chi, come lui, l’allontaneranno?

Mantieni fresca l’erba sulla sua tomba
oh Rotha, con la tua viva onda!
Cantagli quanto meglio sai! perché pochi  o nessuno
intende a fondo la tua voce, ora che egli è scomparso.

 

Nota biografica

William Wordsworth nacque a Cockermouth, nella Regione dei Laghi, il 7 aprile 1770, da famiglia benestante, ma perse presto i genitori e passò anni formativi nel ginnasio della vicina Hawkshead dove visse a pensione presso Ann Tyson, che gli fu quasi una seconda madre, sviluppò un senso precoce di solitudine nella natura, ebbe insegnanti sensibili e scrisse i primi versi. Nel 1789 intraprese gli studi a Cambridge e nell’estate 1790 viaggiò con un amico in Francia e Italia, infiammandosi per lo spirito della Rivoluzione francese. Dopo la laurea fu di nuovo nel  1791-1792 in Francia, dove simpatizzò per i girondini ed ebbe una figlia da una giovane di Orléans, Annette Vallon. Rientrato in Inghilterra, diede alle stampe due poemetti, An Evening Walk e Descriptive Sketches (1793), in cui sono già presenti i paesaggi della poesia matura. Nel 1795 si stabilì nella campagna del Dorset con la sorella ritrovata, Dorothy, che gli fu vicina per il resto della vita, e nel 1796 incontrò a Bristol S.T. Coleridge, altro suo spirito tutelare. I tre amici si trasferirono insieme nel Somerset e dal loro sodalizio nacque il volume Lyrical Ballads (Bristol, 1798) che cambiò il corso della poesia inglese. Si apriva con La ballata del vecchio marinaio di Coleridge e si concludeva con Tintern Abbey di Wordsworth:  due capolavori assoluti della poesia moderna. Nell’autunno 1798 i tre amici si recarono in Germania per studiarne la lingua e la cultura poetica e filosofica,  e nell’inverno, separato dall’amico, Wordsworth compose i primi episodi della sua autobiografia poetica. Nel 1799 William e Dorothy presero dimora a Grasmere, nella regione natia, in una casetta dove William compose le poesie raccolte nella seconda edizione di Lyrical Ballads (1801) e la fondamentale Prefazione in cui esponeva la sua poetica legata alla natura, alla memoria, alla vita e al linguaggio delle classi umili, e la sua concezione esaltata del ruolo del poeta, “uomo che parla agli uomini”.  Nel 1802, giunto a un accordo con Annette, sposò Mary Hutchinson, da cui ebbe cinque figli, di cui tre gli premorirono. Mentre Coleridge nel 1804 partiva per un soggiorno di cura e lavoro a Malta, Wordsworth riprendeva il lavoro al poema autobiografico, cui diede una prima sistemazione in cinque libri, ma che presto crebbe fino a tredici libri, terminati nel maggio 1805. Egli ne diede lettura agli intimi dopo il ritorno di Coleridge da Malta, ma decise che un’opera esclusivamente concentrata sulla sua formazione non poteva essere pubblicata durante la sua vita. Ne completò successive redazioni intorno al 1820, 1830 e 1840, attenuando alquanto le espressioni più fervide e anticonvenzionali in materia di politica e metafisica. Infatti Wordsworth, autore nel 1793 di una Letter to the Bishop of Llandaff di spirito giacobino (edita postuma), compì come Coleridge una svolta conservatrice: nel 1813 ebbe l’incarico governativo di “stamp-distributor” del Westmoreland e nel 1843 divenne poeta laureato della Regina Vittoria. Nel 1815 pubblicò una nuova edizione di Poems e il poema The Excursion, che non mancò di fare scandalo per l’umiltà degli argomenti nonostante presentasse posizioni assai più castigate del Prelude. Wordsworth fu imitato e venerato per le sue innovazioni dai poeti della generazione successiva Keats e Shelley, e insieme aborrito come traditore della rivoluzione (“la Francia fu sua amante, l’Inghilterra sua  moglie”). In effetti la sua copiosa vena poetica si andò inaridendo (non per quantità bensì  per ispirazione), ma egli non tradì la sua passione visionaria per personaggi umili, pubblicando ancora nel 1819 un notevole poema del 1798, Peter Bell, che gli valse molti insulti e una parodia dell’aristocratico Shelley (v. l’ediz. a cura di C.M. Bajetta, Mursia 2003). Scrisse anche una Guida al Distretto dei Laghi ad uso dei turisti (parzialmente tradotta nel volume Sul sublime e sulla poesia. Saggi di estetica e di poetica, a cura di M. Bacigalupo e F. Nasi, Firenze, Alinea, 1992). Morì il 23 aprile 1850. A luglio uscì la sua autobiografia poetica con il titolo The Prelude.  Del Preludio è apparsa nel 1990 presso Mondadori una versione italiana di M. Bacigalupo (v. Poesia 31, 1990), che ottenne il Premio Monselice 1992; è prevista una ristampa. Una scelta di Poesie 1798-1807, a cura di A. Righetti, è edita da Mursia (1997). Delle Ballate liriche è disponibile la traduzione di F. Marucci, Mondadori 1979. Testi di Wordsworth e Coleridge inediti in Italia sono apparsi su Poesia 121 (1998) e 146 (2001).

 

Poesia”, novembre-dicembre 2005