col bacio ultimo
COL BACIO ULTIMO MCMIX I. Le Adelaide, le
Simona, le Carlotta e Giuseppina, le Ada e Argia e Chiara, Ester e Esterina,
pure una Faustina - e la infelice moglie di Oscar Wilde (nel
cimitero protestante) - e giù il
pantheon di Agrippa col suo boschetto regolare seminato di regolari mausolei
- e i boschetti irregolari di regolari cappelle romane visibili, fra il verde
di mezza collina, dall’uscita est dell'autostrada Aurelia - e quelle liste di
soldati di venti guerre (dove ci si perde) e quei tankisti italiani caduti
nell'oasi di El Alamein, sporchi ed ingessati, - e il monumento neoclassico a
Mazzini - e il Silenzio che avvolge di labbra nude un dito furtivo - e questa
energica Pietà appoggiata a un'ancora - e quel pizzo e la finanziera da
panciuto oratore del Risorgimento che, come noi tutti, trascinava le vergogne, le palinodie, e gli
amori - e i tumuli
d’argilla, e i loculi a concessione trentennale in corso di esumazione - e
questa Iris (1920-2002), - ah e tu, nuda
infine, senza croce, coi seni di marmo nero (dalla sagoma liscia e dura come
il ferro, arrotondata sotto il mio dito), abbandonata, un poco arcuata, fuori
dai neri marosi, sotto l’ornata galleria, nelle braccia d'un dio incompiuto e
quasi infernale, come l'amore, il quale COL
BACIO ULTIMO QUI
DI MARIA FRANCESCA DELMAS MCMIX - poi il buio
giardinetto ebreo con la palma del deserto dietro la mastaba, senza allegorie
né statue ma, sotto la loro lastra, una tal Venezia col suo Davide - e poi
attaccato l'affine evangelico (un viale curvato che inizia con un nome
tedesco) - poi, di là, a cielo aperto, il territorio delle sepolture
impreviste, l'argilla pulita spalata per Komatsu e le tracce d'un cingolato
sul fondo molle - poi la cappella ardente, all'uscita del cimitero, con nove
bare sovrastate da corone floreali (nove di lato e sette di fronte), spinte
fin qui da qualche giovane addetto nel sentore aspro della ramaglia che
sprigiona linfa di morte e macerazione - poi, davanti la monumentale uscita,
altro odore di fiori (fuori stagione), di crisantemi senza crisantemi - di mimosa
senza mimosa - di mughetto privo di stelo e campanula - di rose dipinte a
fiamma di rosa - e di autentico girasole (astro atroce che irradia
all'infinito, imbiancante, il chiarore d'un novello fuoco) - poi io, infine,
laggiù, uscito, nello strettissimo baraccamento d'un bar, davanti al
cappuccino che lascio raffreddare, il tempo della poesia. II. Le Adriana,
Erminia, Violante, Vittoria e lassù, al limite della gestante, al di sopra
del calvario repubblicano di Mazzini (tronca caverna e grossi pilastri
neo-dorici schiacciati), le Gemma, Enrichetta (professoressa), Giuditta
(istitutrice?). Anche i bambini Luisa Puppo (1894-1900) e Franco Puppo
(1935-1936), a 36 anni di distanza, nello stesso giocattolo d'una tomba, come
zia e nipote (zia di sei anni, nipote di qualche mese); morti a un'infanzia
sconosciuta che altri, per loro, avranno risognato. E l'altra Giuditta, della
tomba dei Varni, giovane un po' accademica defunta, col suo cane d'alabastro
vivo, muso rotondo, occhio vuoto e pensoso (colpa del marmo) posato sulla
coscia radente il suolo. Folle assemblea
di morte e di morti (i morti, è vero, sono infinitamente più numerosi dei
vivi) che si possono ammucchiare in un ettaro, fra cenere verde, tassi,
cipressi vestiti a festa, cappelle neo-gotiche, recenti colombaie appese al
vasistas d'una galleria quasi termale, e i chilometri da fare e rifare,
riprendere nuovamente a mezza costa per ripiombare infine, come per caso, su
Maimonide-Geremia nell'alta scalinata del vasto pantheon sempre chiuso. Senza contare
sottostanti ai criptoportici tutti quei defunti a dozzine, centinaia, fra i
quali è bene affrettare i passi saltando qualche lastra fra i monumenti e le
arcate di fianco; e nemmeno il quadrato ebraico in basso di tombe umide e
incassate, tuttavia non numerose come i nomi (leviti credenti o meno) che
figurano sul frontone del
ghetto-mastaba e che mai son tornati. Ma tu, sempre tu,
di nuovo oggi, quasi nuda: i seni nudi vagamente svasati di marmo oscuro,
lisci come bronzo; il loro duro capezzolo si dilata alla mia carezza; il tuo
viso classico, largo da statua (logorato dall'aria) che sostiene e piega
l'amante, incompiuto per la vita (il giorno che ti vidi la prima volta nuda,
la sagoma che potente resiste per sempre ai giorni neri); un bacio all'angolo
della testa, attraverso la folta capigliatura, forma bellissima inclinata,
meglio d'un poema sulla forma della vita e COL
BACIO ULTIMO QUI
DI MARIA FRANCESCA DELMAS MCMIX. III. Riomaggiore,
l'indomani. Paese, precipizio rosa arrampicato sullo striato basalto
verticale d'un torrente, al fondo d'un anfiteatro infinito di spalti grigi e
olivi, dove non si
finisce mai di salire e scendere, di rimontare e, pericolosamente, di riscendere
con la schiena al mare, senza mai vederlo, per immensi cammini stretti e
acuminati, e cento brevi culs-de-sac
intorno a un sopraelevato budello raduno di mille gatti, e ci metto del tempo
a ritrovarlo, sbarrato da scalini, un oratorio sul vuoto, ma dove si
finisce per compiacere la piega d'una vuota stanza (né salviette, né sapone,
ma un frigorifero, un liquorino di mirto nel bicchiere, un tavolaccio
sghembo) con la porta-finestra sul fuoco materiale dell'infinito dapprima
celato, e attutisce, col
bagliore che screzia la galleria, il rumore sismico della ferrovia nel
sottosuolo; e io là, vicino a
una Elda e a un'Andreina, pensando ancora a te, con nello spirito il vuoto
sapore del tempo, nella saliva dell'anima: una scialba lega
di cannella ingiallita e zabaglione paglierino nel paglierino cono d'un
gelato e, all'istante
qui, una pera oblunga e dura, ramata, il pallido caramello vegetale nella
polpa bianca mentre in basso,
al fondo del canyon d'ardesia, si spande il ritmo d'una nera canzone di Sade,
velata d'indifferenza, King of sorrow,
che si dovrà ancora risentire in lotta col ticchettio della notte (e che domani,
quando non saremo più là, forse pioverà sull'oscurità del mare, unica luce
nel cuore dei flutti, stella polare capovolta e fissa). IV. Quarto giorno.
Acquisto di un elisir delle Cinque Terre, d'un litro (rosso-nero) di luna col
tappo levigato in marmo grigio di Carrara, d'un poco di miele d'acacia di
Levanto, chiaro come l'aria quando si lascia colare dal cucchiaio sul pezzo
di mollica. Poi ritorno a
Genova; lungo il mare grigio, via Rapallo. Dove forse sei
arrivata, tu, della quale ignoro tutto, spingendo la stanchezza d'una sera
lungo la stretta cornice tropicale di Santa Margherita Ligure, ascoltando Le rose bianche dell’oblio, fra sparse
gemme lontane d’un inatteso valzer e rigustare sulla tua lingua, fin
nell'anima, l'ostia mauve di un
sorbetto alla violetta 1909, sfumato da tiepide more sciolte, sotto le deboli
fiamme dell'Orsa e la distratta attenzione d'una quasi maggiorenne (occhio
profondo, tailleur bianco, foulard inamidato da infermiera) chiamata Edera,
all'ingresso della penisola di Portofino, nel cammino botanico d'un
palazzo-fortino Valery Larbaud (eucalipti, liquidambar, ghiaia rosa inglese)
e la preghiera, in fondo, per sempre sottratta alle distanze. Sì, le Edera, le
Rosanna, le Perpetua, le... poi Genova, di
nuovo improvvisa; Genova, periferia provvisoria d'un cimitero immenso,
stabile e verde; nuovamente nella
cinta; chioschi di fiorai; e quel profumo, il tuo profumo chiuso nel
cellophane, sotto la brezza verniciata dei cipressi (ah, infine, quell'odore
che mi perseguita da ieri, dove aleggia un nome di cimiteriale infanzia:
cuore arrossato, meglio ancora, violaceo e macerato di vecchi garofani), poi il piccolo cane
d'alabastro annerito della tomba Varni, che un radente lampo al fosforo
potrebbe traslucidare per la fotografia; poiché tutto è cominciato per essere
nuovo e imbiancato come un reggimento di forme nuove, più nuove dell'antico
restaurato (come ci insegna, passando in questo luogo, il Mark Twain di Innocents Abroad, 1869), la statua
realistica, energicamente neo-ellenista, sempre molto infiorata 125 anni
dopo, della venditrice di nocciole X fieramente intrecciate in un immenso
rosario, annodato in due giri nella mano destra, orgoglioso commercio, giorno
dopo giorno, pioggia dopo pioggia, soldo dopo soldo, per pagarsi un'altra
vita, eterna questa volta, il gran capolavoro di Orengo e un epitaffio in
genovese del poeta G.B. Vigo, che ne vanta la tenacia; poi, repentina
tu, hai meno successo qui, tu: un'ultima volta, la
punta fredda e arrotondata dei tuoi seni neri fra le pagane braccia del tuo
amante spelacchiato, spalle immense, come la vita nera ancora in vita (i tuoi
seni, dei veri seni, unici, tuoi, non toccati dall'accademia, dal tempo che
tu, immortale, posasti per gli dei, superba, nella papalina Italia del MCMIX, senza mai pensare
che sarebbe stato per un secolo, e senza attingere dalla croce l’oscuro per
te sepolcro vivente); e poi infine
l'uscita, il viso classico
e sano d'una giovane bruna, con grandi ciglia e grandi occhi affilati,
classici e saggi, alla Laura Pausini, inclinati, chiari e leggermente
ombreggiati nel mistero oscuro d'un chiosco di fiorista (che voce può avere
questa grande adolescente bruna?), l'età potrebbe farne una megera ma la bellezza,
per adesso, sfugge alla stessa bellezza e alla vita, così la battezzo, sul
campo, Silvana. * Essere
tornato a Genova sol per questo. |
COL
BACIO ULTIMO
MCMIX
I. Les
Adelaide, les Simona, les Carlotta et Giuseppina, les Ada et Argia et Chiara,
Ester aussi et Esterina, et même une Faustine - et la infelice moglie di
Oscar Wilde (dans le cimetière protestant) - et le panthéon d’Agrippa là-bas et son bosquet
régulier semé de mausolées réguliers - et les bosquets irréguliers à chapelles
romaines régulières visibles, hors verdure à mi-colline, d’une bretelle est
d’autoroute Aurelia - et ces listes de soldats de vingt guerres (on s’y perd)
et ces tankistes italiens tombés d’un mauvais côté, noirâtre et plâtreux,
d’oasis à El Alamein - et le monument néoclassique à Mazzini - et le Silence
étrécissant ses lèvres nues d’un doigt furtif - et cette Pitié énergique
appuyée d’une ancre haute - et cette façon, bedonnante, d’orateur du
Risorgimento à barbichette et redingote qui eut pourtant lui aussi ses
hontes, ses palinodies, comme nous tous, et même ses amours - et les tumulus de glaise, et les carrés de concessions
trentenaires échus en cours d’exhumation - et cette Iris (1920-2002), cette Iris
épouse Vaccina à permanente bouclée de buraliste - et ces vieillardes
réalistes sculptées, quasi photographiquement, par le ciseau hellénistique et
renfrogné d’Orengo - et ces allégories mamelues à longueur de portiques
inférieurs, supérieurs, au ponant, au levant, couverts comme des galeries de
musée, où coulissent de hautes échelles de bibliothèque (on se demande bien
pourquoi, sinon pour rafraîchir l’inscription d’un ultime tombeau entassé
là-haut, sur une dizaine d’autres, sous la voûte) - et le solécisme d’une
épitaphe de bronze sur l’amour plus fort que la mort - et cette Mélancolie
éplorée de la tombe Ammirato, pliée, assise, tête dans les mains et chevelure
infinie coulant depuis la nuque à revers comme une fine cataracte - et le
nocher bien empenné, arqué sur les voiles de l’esquif qu’il cargue, presque
plus haut qu’elles, pour conduire de tout son poids de muscle nos vies
jusqu’au havre ultime avec notre ultime poids de cendre - et cet éphèbe
alexandrin à cithare biblique de bois prise de dos (une moitié de joug) et
dont une lanière fine sépare la chevelure d’albâtre en deux étages - et cette
allégorie (un Ange femme à crinière, très larges hanches et poitrine mi-nue
ressuscitée du bris très rythmique d’un reste de croix au sol, comme dans cette
Pâque noir funèbre, gris funèbre et blanc défroissé du peintre Celesti
l’autre jour, à Desenzano, dont un Archange musculeux, parmi d’autres à
l’écart et comme pour les en protéger, contrait à mi-chute la dalle de haut
marbre du Sauveur, invisible, en train d’éclater) -
ah et toi, enfin nue, sans croix, avec tes seins nus de marbre noir (à galbe
lisse et dur comme du fer sous mes doigts et pointe ronde sous mon doigt),
abandonnée, presque cambrée, hors d’une houle noire, sous ton pœcile, dans
les bras d’un dieu puissamment inachevé et, de dos, presque infernal, comme
l’amour, lequel COL BACIO ULTIMO QUI DI MARIA
FRANCESCA DELMAS
MCMIX -
puis le sombre jardinet juif, à palmier désert, derrière sa mastaba, sans
allégorie ni statue mais, sous leur dalle hébraïque, la nommée Venise avec
son David - puis l’allée évangélique (un mail en courbe à premier nom
allemand) - puis, à l’autre bout, le terrain à ciel toujours ouvert des
sépultures imprévues avec son cent de tas de glaise neufs, sa pelleteuse
jaune Komatsu et ses traces de chenilles sur le l’emblavure meuble - puis la
chapelle ardente, à la sortie du cimetière, sans personne, que neuf cercueils
blonds à roulettes chargés de gerbes (neuf d’un côté et sept en face),
poussés jusques ici depuis quelques jeunes hôpitaux dans une bise brune de
crésyl et leur senteur âpre de branchages cassés à sève mortuaire et macérée
- puis, devant la sortie monumentale, l’étal aux fleurs avec cette autre
odeur (hors saison) de chrysanthèmes sans chrysanthèmes - de mimosa sans
mimosa - de muguet sans hampe ni clochette - de roses peintes d’une flamme de
rose - et de vrais tournesols (astre, noir, d’où s’irradie à l’infini la
blancheur grenue d’un jeune feu) -
et puis moi, enfin, là, passée la sortie, dans l’étroitissime baraquement
d’un bar, devant mon cappuccino que j’ai laissé froidir, le temps de ce
poème. II. Les Adriana, les Erminia,
Violante, Vittoria et, là-haut, aux limites de l’enceinte, au-dessus du haut
calvaire républicain de Mazzini (grotte tronquée et gros pilastres
néo-doriques surbaissés), les Gemma, Enrichetta (professeur), Giuditta
(institutrice ?). Aussi les enfants Luisa Puppo (1894-1900) et Franco Puppo
(1935-1936), dans le même jouet d’un tombeau, à 36 années de distance, comme
tante et neveu (tante de six ans, neveu de quelques mois) ; morts à une
enfance, rieuse, qu’ils n’ont pas connue mais que d’autres, pour eux, auront
éternelle rerêvée. Et l’autre Giuditta, de la tombe Varni, jeune morte un peu
académique, avec son chien d’albâtre vivant, museau rond, œil vide et pensif
(la faute au marbre) posé sur sa cuisse, presque au ras du sol. C’est fou les milliers de mortes
et de morts (les morts, il est vrai, sont infiniment plus nombreux que les
vivants) que l’on peut entasser sur un hectare, entre cendre verte, ifs,
cyprès endimanchés, chapelles néo-gothiques dentelées, columbarium récent
pendu sur une galerie quasi thermale à vasistas, et les kilomètres qu’il faut
entre tout cela déplier, replier, à nouveau déplier à mi-coteau pour retomber
enfin, presque par hasard, sur le haut Maïmonide-Jérémie du haut escalier du
vaste panthéon toujours fermé. Sans compter, sous les
cryptoportiques, tous ces défunts par dizaines et centaines, joint à joint,
pieds à pieds, sur quoi l’on est bien forcé de marcher en faisant jouer
quelques dalles entre monuments et arcades des bas-côtés ; ni le carré juif,
tout là-bas, à l’écart, tombes humides et cassées, moins nombreuses cependant
que tous les autres dont le nom (lévites, croyants et non-croyants) figure au
fronton du ghetto-mastaba et qui ne sont pas revenus. Mais
toi, toujours toi, à nouveau aujourd’hui, presque nue : tes seins nus, un peu
évasés, de marbre obscur, lisses comme du bronze ; leur pointe dure et évasée
sous ma caresse ; ton visage classique, un peu large de statue (foncée par
l’usure de l’air) que soutient et replie l’amant puissant, inachevé parce
qu’en vie (ce jour où il te vit nue pour la première fois et dont le galbe
persiste à jamais au-delà du jour noir) ; qui te baise à l’angle de la tête,
à travers ta forte chevelure, belle forme inclinée, mieux qu’un poëme, sur la
forme physique d’une vie, et AVEC CE BAISER ULTIME ICI DE MARIA
FRANCESCA DELMAS
MCMIX III. Riomaggiore (Cinque Terre), le
lendemain. Village-précipice rose bâti dans le basalte quasi verticalement
strié d’un torrent, au fond d’un amphithéâtre infini de restanques grises à
olivettes, où l’on ne cesse de monter et de
descendre, de remonter et, périlleusement, de redescendre en entendant la mer
de dos, sans jamais la voir, par d’immenses marches coupantes et serrées, et
cent brefs culs-de-sac autour d’un boyau surélevé presque central à 1000
chats, que je mettrai du temps à retrouver, barré d’échelles sur grenier et
même d’un oratoire sur le vide, mais où l’on finit par vous
allouer un repli de chambre aveugle (ni serviette ni savon, mais un
frigidaire, un peu d’alcool de myrte dans un verre et une table très bancale,
parce que c’est le sol qui l’est), avec un coin de porte-fenêtre sur le feu
matériel de l’infini qu’on n’avait pas d’abord vu, et que dessert même une gare
souterraine dans sa lueur suintante de grotte et, d’heure en heure, son bruit
sismique et lointain de chenilles sur roulettes ; et là, moi, voisin d’une Elda et
d’une Andreina, pensant encore à toi, avec cette vide saveur de temps à
l’esprit, dans une salive d’âme : un alliage effacé de cannelle
jaunie et zabaglione jaune paille dans la paille d’un cornet à glace et, à l’instant ici, une poire
oblongue et dure, fanée de vieux cuivre, son pâle caramel végétal à goût
grenu de chair blanche tandis que, là-bas, au fond de
son canyon d’ardoise, l’épars cliquetis rythmique d’une noire chanson de
Shadeh, voilée d’indifférence, King of sorrow, qu’il faudra
réentendre de nuit, lutte avec un proche cliquetis de tables (et que demain, quand nous ne
serons plus là, aussi bien il pleuvra sur la mer obscure et sur cette unique
lumière, là-bas, au cœur des flots, étoile polaire inverse et fixe). IV. Quatrième jour. Achat d’un élixir des Cinque Terre, d’un
litre (rouge-noir) de luna, à bouchon poli en marbre gris de Carrare, et d’un
peu de miel d’acacia de Levanto, clair comme l’air quand on le laisse couler
d’une cuiller sur un bout de mie. Puis retour à Gênes ; via la mer, grise et fine, de
Rapallo. Où tu es peut-être venue, toi dont j’ignore tout,
transporter ta lassitude à jeunes cernes d’un soir le long de l’étroite
corniche tropicale de Santa Margherita Ligure, en écoutant Les Roses
blanches de l’oubli, entre les gemmes éparses et lointaines, là-bas,
d’une valse inattendue et regoûter, déjà de l’âme, sur ta langue l’hostie
mauve d’un sorbet à vague violette 1909, attiédi de claire mûre fondue, sous
de faibles flammes de l’Ourse et la garde distraite d’une quasi-aînée (œil
profond, tailleur blanc, foulard d’infirmière amidonné) du nom d’Edera, à
l’entrée de la presqu’île-péninsule de Portofino, dans l’allée botanique d’un
palace-fortin Valery Larbaud (eucalyptus, liquidambar, rose gravier
britannique) et l’oraison, là-bas, à jamais dérobée et perpétuelle des
distances. Oui, les Edera, les Rosanna, les Perpetua, les… puis Gênes, à nouveau, soudain ; Gênes, banlieue
provisoire d’un cimetière immense, fixe et vert ; entrée, à nouveau, de l’enceinte ; kiosque aux
fleuristes ; et ce bouquet, ton bouquet, serré contre son étui de cellophane,
sous une brise vernissée de pinède-cyprès (ah et enfin cette odeur qui me
poursuit depuis hier, où mettre enfin un nom funéraire d’enfance : cœur
rougi, juste violâtre et macéré, de très vieux œillet) ; puis la pelleteuse Komatsu, son cercueil gris-bleu
abandonné, grosse huche à brancards sur deux roues de bicyclette pour porter
d’autres cercueils à travers la terre meuble où pourrait rester prise une
voiture à pneus ; le petit chien d’albâtre noirci de la tombe Varni,
qu’une lampe rasante à phosphore pourrait rendre à nouveau translucide pour
la photographie ; puisque tout cela commença par être neuf et neigeux comme
un régiment de formes neuves, plus neuf que l’antique même restauré (ainsi nous
enseigne Mark Twain, passant par ici, dans ses Innocents Abroad de
1869) ; la statue réaliste, énergique et néo-hellénistique,
toujours très fleurie 125 ans après, de la vendeuse de noisettines, fièrement
tressées en un immense rosaire de main à main, noué de deux tourtes à celle
de droite, fier commerce qui lui permit, sou après sou, pluie après pluie,
midi après midi, de se payer en l’absence d’héritiers pour une autre vie,
éternelle celle-là, ce chef-d’œuvre d’Orengo et une épitaphe en langue ligure
(un peu étrusque) du poète dialectal G.B. Vigo, vantant sa ténacité ; puis toi, soudain, ici, qui as
beaucoup moins de succès, toi : une dernière fois, la pointe froide et presque arrondie
de tes seins noirs dans les bras de l’amant païen à cheveux ras, épaules
immenses, mal taillées, comme la vie noire encore en vie (tes seins, de vrais seins, uniques, les tiens, pris sur
le motif, non point des seins académiques de déité, du temps où, immortelle,
tu posas pour eux, superbe et close, les yeux clos, dans la très-papale
Italie de MCMIX, sans jamais penser qu’on en ferait pour un siècle, et
sans nul trait de croix, ce sombre et pour toi et sur toi à jamais vivant
tombeau) ; puis, enfin, à la sortie, tout là-bas, ce visage classique et sain de jeune brune, à longs cils
et grands yeux effilés, classiques et sages, à mais dont la beauté, pour l’heure, échappe à la beauté
et à la vie, même, qui la porte et que je baptise, sur le champ, Silvana. * N’être revenu à Gênes
que pour ça. |