Jean Montalbano

Meckert e Amila tra blanche e noire

Mobilitato nel 1939, il non ancora trentenne Jean Meckert, dopo mesi di strana guerra si svegliò frastornato nella Débâcle, in rotta verso la vicina Svizzera. In anni in cui “si votava per la pace e si pagava per la guerra” quell’esperienza, più ancora della successiva resistenza, lasciò tracce copiose nella letteratura francese nel tentativo di mitigare “una grandissima impressione di spazientita inutilità”. Come il Fabrizio stendhaliano a Waterloo, il semplice fante, famigliarmente lapin (coniglio), si perde nella battaglia: “di tutta quella guerra immonda in cui potevano spararmi come a della selvaggina, in cui mi avevano tirato pallottole, bombardato e caricato con mostri blindati, non avevo visto nulla e non avevo nulla da raccontare”.

Ma di quei mesi Meckert tenne un rendiconto che poi prese ad elaborare una volta ritornato a Parigi dopo la breve sosta nei campi d’internamento elvetici; vi si registrava per frasi brevi e ritmate il lasciarsi andare e la cordialità nei rapporti tra militari, la Gerarchia calata in futile forma umana: la guerra attesa nei fumi alcolici dell’immaginazione, perciò già persa. Altrove vi si diceva dell’avvicinamento al fronte, a piedi o in treno, avvenuto sotto il segno gioioso della vivacità francese “sempre all’altezza della situazione con il quarto di vinello a portata di mano”: tutte pagine rimaste inedite e da poco pubblicate, con il titolo La marche au canon, dalle edizioni J. Losfeld ad inaugurare un programma di scoperte e ristampe del piccolo maestro, originario del parigino quartiere di Belleville, che già all’esordio nel 1942 con Les coups avrebbe raccolto quegli elogi, tra i tanti, di Queneau, Aymé o Gide, che ne decisero la scelta professionale. L’ambientazione populista (su cui era passato il ciclone celiniano) del dibattersi del vinto che qui, nella rabbiosa impotenza delle botte date alla sua donna, esprime la propria lotta per il riconoscimento (Pauvert lo ristampò negli anni settanta) ritornerà nelle opere successive avvalorando l’elezione di Meckert a padrino del neo-polar, anello di congiunzione tra il populismo di Malet e il politichese di Daeninckx.

Dopo altre prove meno fortunate, ad accelerare la transizione dal noir al polar a partire dal 1950 fu il pungolo di Duhamel che trovò da ridire, giudicandolo troppo lungo, anche sullo pseudonimo “John Amilanar”, scelto dallo scrittore all’esordio nella Serie Noire (per cui scrisse una ventina di titoli) e con gli anni diventato Jean Amila.

Il paesaggio americano del nuovo corso, Y’a pas de bon Dieu, già nel successivo Motus (1953) sarà dismesso per un ritorno all’ambiente francese a volte sfiorato, come in La lune d’Omaha (1964), da motivi americani: l’Omaha in questione è la spiaggia normanna da cui è fuggito disertando, dopo essersi spinto oltre le linee tedesche, il disilluso poilu americano che poi per il ventennio seguente ha tentato, sotto nuovo nome, un’impossibile convivenza con le miserie dei liberati. L’adozione fallita scatena l’azione del rimosso o dell’escluso a danno di ogni superficiale conciliazione: “Isigny era stata completamente distrutta. Questo fatto dava l’immenso vantaggio di abitare diciannove anni dopo in una cittadina dalle case nuove e confortevoli. Cosicché per i normanni la guerra sarebbe stata ricordata non tanto come un massacro, ma come l’avvento del bidé, dell’acqua calda nel lavandino e dello sciacquone per il gabinetto”. (È questo, ci pare, pure l’unico titolo tradotto tempestivamente in italiano, già nel 1965, dalle romane edizioni de Il Liocorno).

Nella Francia “duratura”, meglio che nella scontata America di rigore per i transalpini freschi di letture faulkneriane, respirano i suoi solitari ribelli (lo è pure il flic Geronimo al servizio delle vittime nella mini-serie accolta nella noire) contro le istituzioni (in Noces de soufre è il bancario a scappare con la cassa per fuggire dalla fallimentare vita di coppia) o i protagonisti del caso Dominici (per cui scrisse nel 1952 delle corrispondenze): un radicamento, per vivide notazioni, che vale a Meckert/Amila le collaborazioni con i cineasti A. Cayatte, Y. Allegret o P. Labro. Il cinema (e, dopo, la televisione) gli garantisce la tranquillità negli anni maturi: ancora nel 1995 R.J. Denis trasse Sortez des rangs da un suo romanzo; mai comunque ne risultarono anestetizzati quegli inquieti tratti di rivolta che lo portavano a definirsi “vaguement anarchiste”.

Anni dopo, di ritorno da sopralluoghi nella Polinesia francese, Meckert ne denuncerà l’occupazione militare in La Vierge et le Taureau, ruvidamente ricambiato con noie e minacce di cui forse fu coda velenosa l’aggressione del 1974 che lo spinse in un coma da cui si svegliò amnesico ed epilettico, incapace di leggere/scrivere. Dopo sette anni di rieducazione e prima di congedarsi consegnò, in Le Boucher des Hurlus, la versione romanzata della propria vicenda familiare a partire dalla Grande Guerra che lo aveva reso “orfano”: così il padre (che nella “realtà” disertò dalla famiglia scatenando la follia materna) veniva trasformato in vittima sacrificale offerta alle fucilazioni esemplari del 1917. La commistione avrebbe causato qualche imbarazzante e divertente qui pro quo, oramai in via di dissolvimento, nei precoci biografi di Meckert: pare infine giunto il momento di abbandonare, anche nel suo caso, ogni impalcatura mitica che ne abbia sostenuto la gracile fama.