Il black out elettrico dello stato della California del 17 gennaio 2001

In California ci si interroga sulle conseguenze della liberalizzazione che, salutata come un passo avanti, ha portato come unica conseguenza bollette più care e un paese in ginocchio.
Per fronteggiare un'improvvisa penuria di gas naturale, alcune centrali sono state inoltre alimentate provvisoriamente col petrolio.
I legami di interesse fra i politici più in vista e le aziende produttrici sembrano essere all'origine del mancato riassetto del settore e della crisi attuale.
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sull'argomento

(stralci da Repubblica)

Nella più grande crisi della California si uniscono dunque due elementi: da un alto fattori contingenti come la ristrutturazione della rete elettrica e la penuria di materie prime (gas soprattutto). Dall'altro un problema strutturale ed economico                     Le due aziende si sono ritrovate a pagare un prezzo maggiore per comprare l'energia elettrica di quello che poi praticavano al consumatore.
Inoltre nel sud dello stato è improvvisamente venuto a scarseggiare il gas naturale, dal quale dipende un terzo di tutta l'energia prodotta in California. Così è stato necessario fare ricorso al petrolio, ma molte centrali hanno frattanto dovuto operare a basso ritmo.
Le due principale società di distribuzione elettrica, La Southern California Edison e la Pacific Gas&Elettric hanno accumulato montagne di debiti.
"La nostra deregulation non ha abbassato i prezzi e non ha aumentato la disponibilità di energia - ha dichiarato ieri il governatore Davis -. Al contrario: abbiamo prezzi alle stelle, speculazione, incertezza nell'approvvigionamento di elettricità".
Il suo piano per uscire dalla crisi. Innanzitutto una parziale ri-nazionalizzazione: lo Stato della California si darà i mezzi per acquistare o costruire in proprio nuove centrali, visto che il problema principale è la scarsità nella produzione locale di energia. Lo Stato si riserva anche la facoltà di espropriare impianti privati, per assicurare una produzione a prezzi stabili.

Il colosso dei semiconduttori Intel (basato a Santa Clara nella Silicon Valley) ha congelato ogni progetto di nuovi investimenti in California a causa del rischio blackout, e sta considerando la possibilità di delocalizzare nuovi stabilimenti in Oregon, Arizona o New Mexico. Inoltre questa crisi ha un forte impatto politico negli Stati Uniti e nel resto del mondo: la California è uno dei primi Stati ad aver varato la deregulation elettrica, ed è considerato un "laboratorio" in questo campo.

Già nel 1997 un rapporto dell'Energy Institute dell'università di Berkeley, sotto la direzione di Severin Borenstein, ammoniva contro i rischi di un'eccessiva concentrazione nella produzione elettrica. Il rapporto indicava chiaramente che occorreva più concorrenza a monte, con una maggiore pluralità di proprietari di centrali, altrimenti pochi oligopolisti avrebbero manipolato i prezzi a loro esclusivo vantaggio. E' esattamente quanto accaduto, con l'aggravante che il meccanismo della Borsa elettrica "spot" ha reso ancora più volatili i prezzi e ha esaltato le possibilità di manipolazione del mercato.

Perché i moniti degli esperti non furono ascoltati? Forse, insinuano le associazioni dei consumatori, perché le aziende elettriche sono tra i principali finanziatori della campagna elettorale del governatore Gray Davis: da esse ha ricevuto 770.000 dollari di contributi dichiarati. Oggi Davis è a Washington per affrontare l'emergenza con le autorità federali. Ma il nuovo presidente non è meno sospettabile di conflitto d'interessi: tra i maggiori finanziatori della campagna di George Bush figurano Enron, Aes e Green Mountain Energy, tre giganti nella produzione di energia elettrica.

(18 genaio 2001)