“la posizione di Terragni è sradicata, laterale, alienata rispetto al suo tempo, non meno di quella di Michelangelo e Borromini . Inoltre egli è manierista in senso stretto, poiché intreccia e contamina gli etimi dei maestri razionalisti, da Gropius a Le Corbusier e Mies van der Rohe.” Bruno Zevi, Giuseppe Terragni, Zanichelli, Bologna, 1993, pag.9. Terragni vive in un contesto in cui la dittatura fascista già si è instaurata ma che, inizialmente, agisce sulla cultura architettonica con una pressione discontinua che favorisce una visione rivoluzionaria, modernista e dinamica del fascismo. Nasce il “razionalismo italiano” a cui egli appartiene, e che molti presentano come stile fascista. Ma alla fine, come ogni regime totalitario, anche il fascismo imporrà una visione monumentale e retorica legata a modelli del passato(neoclassicismo di Stato). Inoltre ostacolerà il movimento moderno operando un protezionismo culturale che porterà all’isolamento dagli avvenimenti architettonici europei. E’ in questo contesto che ritroviamo il filo che lega Terragni a Michelangelo. Un filo che non è soltanto di tipo accademico, ma è quello di due vite unite da una condivisione poetica drammatica: il rifiuto dei canoni proporzionali e prospettici, delle regole scolastiche, dell’inerzia creativa. Entrambi mossi da una fede idealizzata nei propri ideali, che però non corrisponde alla realtà concreta, li porta a considerarli come degli “eversivi”. Terragni, un “cospiratore” perché capace di agire dall’interno del regime , magari di contrabbando, per superare i dogmi sia classici che moderni , assimilando le sperimentazioni dell’avanguardia europea in una sintesi di opposti che sfocia nella costruzione di un vocabolo personale; un linguaggio con cui tradurre i suoi ideali in Architettura.
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