TERZA PARTE

Dal Neoclassicismo alla fine del XX secolo.

 

Proprio parlando dell’arte contemporanea e, ovviamente, della sua genesi, si può capire il senso di quest’opera in cui la storia dell’arte è affrontata principalmente, anche se non solo, come storia delle categorie di lettura dell’opera d’arte. Infatti il problema della lettura e della comprensione dell’arte è diventato, in questo secolo, drammatico ed a poco valgono critici e commentatori.

Facciamo un esempio: dopo novant’anni il Cubismo è ancora un mistero per i più e, malgrado ogni sforzo per renderne chiare le motivazioni, abbiamo personalmente constatato un netto rifiuto alla lettura di un Picasso o di un Braque. Non parliamo poi di Astrattismo o Dadà!

Dire che l’opera d’arte deve ormai portare in se le categorie della propria lettura è inutile, se poi nessuno vuole leggerla se non superficialmente. Già, perché il problema è che una volta impadronitosi di queste categorie bisognerebbe poi trovare un contenuto…

Ma procediamo con ordine.

 

 

IL NEOCLASSICISMO

 

Il Rococò fu essenzialmente un problema di gusto, di scelte, cioè, correlate a preferenze che se non erano personali erano comunque di classi sociali precise. Inizialmente anche il Neoclassicismo si presentò come adesione ad un nuovo gusto, quello “à la grecque”.

La storia delle scoperte archeologiche di Ercolano prima e di Pompei dopo è ben conosciuta1 ma notiamo che non furono queste scoperte a dare origine al Neoclassicismo perché l’intenzionalità ed il metodo dei nuovi scavi, a cominciare da quelli di Winckelmann, furono atti volontari e coscientemente tesi a riscoprire l’originalità di un’arte non dimenticata ma ancora troppo poco conosciuta nella sua essenza.

In altre parole il Neoclassico2, come moda, fu originato da questi scavi e dalla diffusione delle incisioni relative, ma questo avvenne dopo che una nuova sensibilità si era diffusa in Europa. Anche la raffinatezza e l’eleganza luminosa del Rococò, in fondo, contribuivano alla ricerca di una nuova purezza espressiva, allontanando da certi eccessi brutali del Barocco Italiano.

La volontà di indagare e definire il bello che abbiamo visto aveva determinato la nascita di un nuovo campo di ricerca filosofica, l’Estetica e la nuova arte “à la grecque” cercò subito di definire i criteri in base ai quali si dovessero leggere le opere d’arte.

Già, perché il nuovo gusto era qualcosa di più che una moda ed i criteri di giudizio di un’opera d’arte coincidevano fortemente con le categorie di lettura dell’opera stessa. In comune l’artista e chi contempla l’opera d’arte hanno qualcosa: il sentimento del bello, la capacità di esprimere o di sentire il bello; nel caso specifico il bello ideale le cui caratteristiche Winckelmann fa coincidere con gli attributi divini: unità, semplicità, armonia, proporzione.3

Come è noto, a simbolo di questa bellezza Winckelmann prese l’Apollo del Belvedere dei Musei Vaticani, un “corpo apparente ad un essere condensato negli estremi suoi punti e rivestito di sembianza umana si, ma senza partecipare della materia….”; la concretizzazione di un’idea pura, in altri termini. Gli altri autori dell’epoca fanno meno riferimenti a Dio ma fondamentalmente i criteri cui deve ispirarsi un’opera d’arte sono gli stessi, magari variavano le opere d’arte usate come esempio: la scelta di Winckelmann fu forse determinata dalla sua particolare omosessualità, altri scelsero di preferenza Veneri o altri atleti.

Si è scritto che ora l’Italia perse il proprio predominio nella letteratura artistica, ciò è vero anche nel campo dell’arte e se Tiepolo è l’ultimo rappresentante di una scuola italiana, Canaletto va considerato il primo artista europeo. Le nuove idee si formarono, come era naturale, nel luogo deputato agli studi classici per tradizione, a Roma, ma la loro diffusione è europea con particolare riguardo alle nazioni più forti e più progredite, la Francia e l’Inghilterra. In Italia, ed in parte in Germania, la frammentazione politica impedì una diffusione delle nuove idee su una scala abbastanza vasta da incidere a fondo nella società.

Gli intellettuali italiani assunsero per questo motivo ruoli più radicali rispetto ai colleghi stranieri fino ad arrivare all’estremismo del Milizia, che è rimasto conosciuto per la radicalità dei suoi atteggiamenti e l’aggressività dei suoi giudizi artistici piuttosto che per l’attività teorica. Questi comportamenti non impedirono che fosse nominato sopraintendente ai monumenti che il Re di Napoli possedeva nello stato pontificio. Tra le idee più interessanti ed originali c’è l’asserzione che in architettura funzionalità e bellezza non possano essere disgiunte, e che “quanto è in rappresentazione deve essere anche in funzione”4.

Il Milizia dava alla sua asserzione un carattere scientifico più rigoroso di quanto facesse il contemporaneo abate Lodoli.5 Da molti il Milizia è considerato il primo critico d’arte moderno per la sua capacità (e presunzione) di spiegare ed interpretare le opere d’arte ai non addetti ai lavori, autocollocando se stesso ed i suoi amici intellettuali (in vero il meglio d’Europa) ad un livello superiore alle masse.

Le categorie di lettura di un’opera d’arte devono essere possedute in comune dall’artista e dal fruitore, ma sono elargite da uno specialista che le spiega ad entrambi indirizzandoli nei rispettivi ruoli e formandone il gusto. Dallo studio di queste categorie si origina l’Estetica. In questa epoca di pre-industrializzazione nacquero le prime figure di esperti e di specialisti, a cominciare dai grandi economisti inglesi; perché non avrebbe dovuto accadere la stessa cosa nelle arti figurative? Ed il Milizia non era solo, egli stesso si rifaceva ai principi dei suoi amici Mengs e Sulzer.

Questa europeizzazione delle idee costituisce la vera novità nel mondo dell’arte della seconda metà del Settecento.

Ad essere più precisi si deve notare che le idee del Neoclassicismo si diffusero bene anche nelle colonie inglesi del Nord America, a riprova che negli Stati Uniti non furono mai indietro, nel campo artistico, rispetto all’Europa.

La sensazione di una presunta dipendenza americana dal Vecchio Continente viene dalla ritrosia dei primi coloni nei riguardi della pittura e, in una certa misura, della scultura, guardate con l’occhio eccessivamente prudente dei Quaccheri e dei Calvinisti in genere nei confronti di tutto ciò che era fatuo e mondano. Proprio nel nuovo stato l’architettura neoclassica trovò alcune delle sue espressioni migliori, così come le idee sociali illuministe nella sua Costituzione. Nelle grandi ville del Sud il concetto di fusione tra funzionalità e bellezza come portatrice insieme di forma ed idee trovò la sua espressione migliore.

Contemporaneamente alle idee neoclassiche nacquero tra i critici anche nuove idee sugli effetti che l’artista dovesse cercare di ottenere nelle proprie opere. Ancora queste idee si dovevano affermare come teoria estetica che già il Burke6 introduceva la categoria estetica del “Sublime”, sentimento spesso doloroso che scaturisce dalla grandiosità dei fenomeni, lo stesso che Kant definì “una sorta di stupore anche se non doloroso”. Per Burke bello e sublime non sono la stessa cosa ed anche il brutto e l’informe, come dice Kant, possono essere sublimi. Il compito dell’Arte consisterebbe proprio nel rendere sublime il brutto.

Contemporaneamente un antiquario italiano, lo Spalletti,7 indicava come compito dell’Arte fosse non la ricerca di una forma ideale ed universale ma di una tipologia individuale, il “Caratteristico”, ed era stato un altro antiquario, l’inglese Richardson che, ancora prima del Burke, aveva dato al Sublime un valore relativo ad alcune parti della pittura, come eccezione alla regola, con il compito di meravigliare e colpire l’immaginazione: valore derivato, come è ovvio, dal Tardo-barocco ancora imperante sul Continente.

Assieme al concetto di Sublime si sviluppava quello di Pittoresco. Identificabile con la Natura fantastica di Salvator Rosa, il Ruinismo del Pannini o alcuni aspetti del Piranesi come le “Carceri”, il Pittoresco riguarda la forma in cui si fa arte, irregolare, immaginosa, selvaggia e, quindi, non dichiaratamente regolata anzi, anticlassica. Il Sublime, per contro, riguarda il contenuto psicologico dell’opera d’arte, stupefacente, doloroso, impressionante e qualunque altra sensazione forte che l’opera d’arte possa suscitare.

Entro certi limiti Pittoresco e Sublime possono tranquillamente convivere. In entrambi questi due nuovi modi di vedere l’immagine artistica si sono voluti vedere i primi segni del Romanticismo il che, probabilmente, è vero ma anche poco significativo, dal momento che la contrapposizione tra Neoclassicismo e Romanticismo può tranquillamente essere composta. Si tratta, in fondo, di due modi diversi di esaminare gli stessi problemi.

Facciamo un esempio: nel Giuramento degli Orazi di David viene preso a modello comportamentale un episodio dell’antica storia romana. I tre fratelli giurano di combattere fino alla morte per difendere Roma e il vero contenuto dell’opera sono i sentimenti di amore per la libertà e la patria, sentimenti che saranno fondamentali di lì a poco (tre-quattro anni) per gli eserciti della Rivoluzione Francese.8 Questi sentimenti non sono solo vissuti come tali ma come un dovere assoluto, un imperativo categorico, usando la terminologia kantiana, che fa superare tutti gli altri sentimenti egoisticamente individuali, simboleggiati nel quadro dalle donne che piangono in un angolo.

Le categorie di lettura di quest’opera hanno origine da considerazioni filosofiche e possono essere valide solo se supportate da una cultura classica in grado di esemplificarle. Un’opera d’arte neoclassica non nega la realtà, né quella esteriore né quella interiore all’uomo, la riconsidera e la esemplifica.

Artista, committente e fruitore o, se il committente non c’è, i soli artista e fruitore debbono avere in comune non solo la conoscenza di un linguaggio visivo di base ma anche la stessa cultura e le stesse idee su come interpretare ed usare questa cultura. Un tramite tra i due (o i tre) non è indispensabile purché entrambi appartengono ad uno stesso ambito culturale ed in questo primo periodo il compito dei critici è più quello di fare propaganda che quello di spiegare l’arte, anche se il confine tra le due funzioni è, come ancora oggi, piuttosto incerto.

La cultura classica assume la funzione che nel Quattrocento aveva la prospettiva di tramite della comunicazione artistica e ad essa si riferiscono le categorie di lettura dell’opera d’arte. Questa cultura implica anche un gusto comune, tanto che i contemporanei la confondono con esso, ma non è la stessa cosa, perché non si tratta di un problema di ricerca formale ma di pensiero nel senso filosofico del termine, con particolare riferimento alla filosofia morale.

Con mezzi ancora teatrali (il Barocco è ancora vivo) David rappresenta la scena, basta esaminare i gesti enfatici ed il piano di fondo che chiude la scena per rendersene conto. Anche l’altro grande artista del Neoclassico, Canova, parte dai sentimenti e dalla realtà naturale; i suoi corpi sono estremamente fedeli al vero, come i sentimenti espressi sono i più umani. Nel recupero dell’antico e nelle pose eleganti avviene quella purificazione che rende i sentimenti universali ed eterni; un eterno che per Canova, credente in Dio, aveva un significato concreto e non solo filosofico.

Come esempi citiamo la Paolina Bonaparte principessa Borghese in Veste di Venere Vincitrice e l’Amore e Psiche. La prima statua rappresenta la sorella di Napoleone con tanto realismo che nel Museo Napoleonico di Roma si conserva il calco del suo seno9 di cui si servì lo scultore e quanto alla rappresentazione dell’amore coniugale (perciò santo e benedetto) di Amore e Psiche dobbiamo notare che quello che è rappresentato è un abbraccio carnale e non un bacetto tra adolescenti. Nel primo bozzetto di quest’opera Psiche sta sopra ed Amore sotto, mentre la tira violentemente a sé, in una posa un po’ sospetta per la rigida Chiesa Cattolica di allora. Agendo a passi successivi e graduali, Canova arriva a purificare totalmente la scena da ogni bassa materialità negli atteggiamenti passionali della coppia sino a rendere l’idea di un sentimento sano, celeste, con lo scendere lieve del volo di Amore dall’alto10.

Altra opera in cui si trascende direttamente dalla materia all’Idea è la Morte di Marat di David, in cui le stesse modalità della morte costituiscono un monumento al grande rivoluzionario; l’unico tratto classico è più che sufficiente alla sintesi dell’idea espressa e consiste nella dedica in caratteri monumentali romani sulla semplice cassetta di legno e si contrappone al corsivo moderno, perfettamente leggibile, della petizione di Carlotta Corday che Marat stava leggendo; la resa del passaggio dal contingente all’eterno è perfetta.

Canova si cimentò anche in eccellenti rappresentazioni della morte in una serie di tombe. Queste furono ispirate ai modelli berniniani in San Pietro; ma ritratti e tombe in Bernini si riferiscono alle apparenze sociali estese a tutto l’ambiente dello spettatore in Canova sono una realtà esemplificativa. Lo spazio in cui si collocano i papi ha uno scarto prospettico che lo separa da quello reale e le figure allegoriche alla base servono ad idealizzare il defunto. Ricordiamo ancora che Canova era cattolico credente.

Nelle opere di questo periodo spesso non è messo in evidenza il bello fisico, ma il bello morale e le categorie di lettura coincidono sia con la capacità di corrispondere ad un gusto preciso che alla trasmissione di questi valori morali, primo tra i quali è la libertà, movente delle grandi rivoluzioni del secolo, da quella polacca a quella americana e francese.

Un eroe di questa rivoluzione è il Bruto di Marat, quadro fatto proprio nel 1789, in cui viene indicato come moralmente lecito un comportamento così drastico da sacrificare i propri figli all’Idea; il dolore cupo di questo eroe tenebroso è sottolineato dall’ombra in cui lo relega il pittore, contrapponendolo al dolore naturale, esplicito e quindi luminoso delle donne di casa.

Poiché si parla di idee si spiega perché tra gli intellettuali acquistino un proprio ruolo i critici che sostengono, con i loro scritti, i nuovi valori.

Non sorprende che molti di loro partecipino, in seguito, ai movimenti rivoluzionari; citiamo, tra gli italiani che conosciamo meglio, l’archeologo Ennio Quirino Visconti e l’incisore ed architetto Francesco Piranesi, che furono tra i capi della Repubblica Romana mentre il Milizia, che pure era stato contattato dai servizi segreti di Parigi, era troppo vecchio e morì poco dopo, col merito di essere stato il primo critico in senso moderno, feroce e spietato nei giudizi.11 Eppure la loro azione, anche se eccellente per scacciare il passato, non ebbe una vera validità se non morale, quale era il contenuto delle opere che propagandavano.

Un tipo diverso di azione teorica era portato avanti da altri come l’Abate Lanzi, che sosteneva la necessità di studiare lo stile degli artisti, cosa che poteva permettere l’attribuzione delle opere anonime; inoltre la ricerca dello stile personale degli artisti ed il paragone con quello di altri permetteva la stesura di una nuova forma di storia dell’arte.12

Questa problematica interessava poco i teorici del Neoclassicismo. Le idee espresse in un’opera neoclassica avrebbero dovuto appartenere sia all’autore dell’opera che le conteneva che al critico che, infine, al fruitore. Se le cose non fossero state così bisognava che il critico riuscisse a convincere il fruitore ad indirizzare sulla retta via dell’arte gli altri. Durante la Rivoluzione Francese c’era pure il caso che qualcuno finisse ghigliottinato, e non siamo sicuri che fosse sempre un male.

Una ultima considerazione riguarda David, che vogliamo scagionare dall’accusa di essersi adattato troppo facilmente ai diversi regimi politici che si susseguirono in Francia tra il XVIII ed il XIX secolo. Dal Giuramento degli Orazi alla Morte di Marat all’Incoronazione di Napoleone; è questo un percorso, bisogna ammetterlo, molto variegato. Ma David segì l’iter ideologico della borghesia francese che badò ad assumere progressivamente il potere e, come questa, accettò il “piccolo” compromesso di un imperatore al potere al posto di una repubblica pur di avere salvi i propri privilegi conquistati con tanto sangue.

In fondo David e Canova sono dei professionisti, i migliori nei rispettivi campi, e come tutti i professionisti devono essere i clienti a cercarli e non viceversa.

 

 

IL ROMANTICISMO

 

Il problema dello stile interessò invece moltissimo i Romantici che presto vennero a contrastare il campo ai Neoclassici; il perché è ovvio, lo stile è espressione della personalità dell’artista e del suo sentire. Per non essere noiosi tralasciamo la storia delle origini di questo movimento, e passiamo subito a trattare subito un quesito che ci interessa: il sentimento espresso da un’opera d’arte romantica, ad esempio una tragedia, di chi è? Dell’autore che gli ha dato, in un certo senso, vita? Del personaggio che lo esprime? Dello spettatore? E si potrebbe aggiungere anche il critico che lo interpreta e, nel caso di un’opera teatrale, anche l’attore, il capocomico ecc. ecc..

In un primo momento, ovunque si esprimeva una sorta di sentimento universale confuso ed indistinto, tra intuizione ed espressione, con grande gioia dei filosofi che si occupavano della neonata Estetica. Sinceramente pensiamo che le categorie di lettura di un’opera d’arte non debbano essere confuse con quelle della conoscenza filosofica che all’epoca erano appena state “riformate” da Kant. Non si può comunque negare che di fatto esista anche un romanticismo in filosofia che si interessa prepotentemente dell’arte senza incidere, però, più di tanto sul suo sviluppo tecnico.

Non ci si scandalizzi dell’affermazione, perché fu l’arte ad anticipare ed a condizionare la filosofia. Sublime, Caratteristico, Medioevo, Fantasmi e cose del genere anticiparono di una generazione la propria sistemazione logico-filosofica. Dopo di che, quando i filosofi cominciarono a parlare di arte, non si sognarono mai di dare consigli su come farla, a differenza degli antichi che della retorica, o arte del comporre, avevano fatto una delle principali materie di insegnamento e discussione filosofica.

L’opera d’arte contiene il sentimento che, modo di essere naturale comune a tutti, viene espresso e comunicato. Il primo ad attribuire all’arte un carattere espressivo fu Vico13 che attribuì all’uomo primitivo una fantasia creatrice precedente la razionalità dell’intelletto. Poco dopo Baumgarten14 fondava ufficialmente l’Estetica come forma di conoscenza minore e Kant affermava, per la prima volta, che il bello deve piacere indipendentemente dai concetti logici espressi dall’opera d’arte, pur senza arrivare ad affermare che l’attività artistica possa essere un’attività spirituale antecedente ed indipendente da quella intellettuale. Sino ad allora si erano confuse le categorie di lettura di un’opera d’arte con quelle del giudizio, inerente le prime il suo contenuto e le seconde l’opera in sé come prodotto estetico; da Kant in poi il problema è chiarito con l’accantonamento delle seconde, dato che il giudizio, disinteressato, non ne deve più tenere conto.

Più interessanti possono essere le affermazioni di poeti come Goete, Shiller o Wackenroder. Una cosa ci preme subito sottolineare, il concetto che la fantasia possa creare e che l’arte sia essenzialmente creativa portò subito, come corollario, che l’arte non debba essere necessariamente imitazione. Non possiamo però affermare che la mancanza di imitazione nella ricerca del bello dovesse anche essere mancanza di contenuti: sono sentimenti in senso stretto, in quanto debbono essere “sentiti” prima che capiti razionalmente.

Le categorie di lettura di un’opera d’arte divengono di carattere psicologico: funzione di un’opera d’arte è rappresentare questi sentimenti facendo “consonare” l’immagine della rappresentazione con il sentimento rappresentato. Se l’opera d’arte è stata creata possiamo anche notare, arditamente per la verità, che l’espressione di questi sentimenti sia, nell’opera d’arte, autonoma ed entrocontenuta; infatti ciò che è creato prima non esisteva. Si tratterebbe, insomma, dell’inizio di quel periodo, l’attuale, nel quale l’opera entrocontiene le proprie categorie di lettura, solo all’inizio, si badi, in nessun caso si può prescindere dal fatto che l’opera d’arte sia rappresentativa di qualcosa.

Dei filosofi teorici certamente quello che meglio seppe teorizzare l’Arte Romantica fu Federico Shelling, che definì l’intuizione artistica come sintesi di un’attività inconscia, l’immaginazione naturale, ed una conscia, la volontà. Fu anche il primo che identificò arte e bellezza, senza far dipendere l’arte dalla capacità di rappresentare il bello.15 L’arte stessa è bellezza e, data la sua peculiarità di essere creata, e quindi originale, carattere specifico dell’opera d’arte, che questa bellezza esprime, è di essere “caratteristica”, distinguibile per la propria individualità ed unicità, quasi un’idea vivente e materialmente realizzata.16 Per un paragone rimandiamo ai giudizi di Winckelmann sull’Apollo del Belvedere, materializzazione anch’esso di un’idea.

Romanticismo e Neoclassicismo vedono nell’arte un’atto di volontà, quest’atto compiono sia l’autore che il fruitore dell’opera d’arte ed in entrambi i casi si suscita l’intuizione come atto conoscitivo comune sia all’autore che al lettore. Nell’autore è l’immaginazione a precedere la volontà, nel fruitore è la volontà a smuovere, per mezzo dell’opera, l’immaginazione.

Malgrado la grande fama Heghel, invece, ci sembra limitato dal creare continuamente triadi con tesi, antitesi e sintesi, che altro non sono se non il risorgere del sillogismo aristotelico in forma conflittuale. Che Heghel formuli triadi su percorsi paralleli non convergenti (storico-politico e logico-conoscitivo) è dimostrato dal separarsi della sua scuola in una destra ed in una sinistra che poco ricorsero a lui per l’Estetica, tanto che poi Croce sentì il bisogno di riconsiderare tutto il problema. Giusta è certamente l’identificazione, nell’opera d’arte, della bellezza con la verità, ma ovvia nell’ambito della logica hegheliana, dato che l’opera esiste è perciò stesso vera, a meno che non si intenda per vero quella particolare specie di conoscenza che i filosofi confondono con il perché delle cose. Heghel non sviluppò mai a fondo tutto quello che era implicito nella sua definizione di arte o, forse, non considerò mai a fondo la differenza tra una teoria dell’arte ed una teoria estetica; la prima vuole definire cosa sia l’arte, la seconda come si manifesti. Dobbiamo rilevare che questa nostra distinzione è forzata, poiché non si può fare l’una cosa senza l’altra.

Certo, senza che Kant avesse trasportato le categorie della conoscenza dall’esterno all’interno della coscienza non sarebbe neppure stato possibile concepire un’arte che comunicasse all’interno della coscienza del fruitore, come quella romantica. Un equivoco non risolto, sia in Kant che in Shelling ed in Heghel è sul reale significato del termine intuizione per cui nessuno di questi filosofi riesce a dare delle categorie del giudizio artistico se non per successive negazioni; e poi si consideri che in Heghel fondamentalmente l’arte non è neppure pensiero!

Tutto ciò riguarda i filosofi, ma non gli artisti ed il loro pubblico che, per definizione dei filosofi stessi, potevano fare e godere dell’arte senza problemi, vivendola sentimentalmente. Rimane sempre vivo il problema del sentimento che, indistintamente, non si sa se appartenga all’autore che lo crea, all’opera che ne è depositaria, o al fruitore che lo sente internamente quasi come se lo vivesse.

Non riteniamo di doverci dilungare troppo ad esaminare opere i cui soggetti siano sentimenti di carattere individuale, come l’amore, perché è in quelle che investono il sentire collettivo che il Romanticismo trova la sua massima caratterizzazione. L’amore, nelle sue varie forme, da quella puramente fisica a quelle più spirituali, era stato oggetto di indagine sin dall’antichità, come tutti i sentimenti elementari dell’animo umano, ma ora, dopo la prima rivoluzione industriale in Inghilterra, che muove grandi masse di popolo sempre più cosciente di sé, le cose cambiano. Prima l’arte, quando si rivolgeva al popolo, insegnava, ora interpreta dei sentimenti esistenti.

Abbiamo già accennato al problema della libertà nel Neoclassicismo, ma i quadri di David avevano valore per una classe sociale, mentra la Libertà Guida il Popolo alla Rivoluzione o Le Radeau de la Meduse si rivolgono realmente ad un intero popolo: Questo aspetto collettivo e nazionale è così rilevante che nei paesi dove il sentimento nazionale è forte ed esteso possono nascere veri e propri miti nazionali originati da opere d’arte, per lo più letterarie, come quello di Robin Hood od I Tre Moschettieri, mentre in altri, nei quali i concetti di libertà o di nazione sono limitati a classi sociali ristrette, anche se coscienti di se e moderne, come l’Italia o la Spagna, nessun romanzo è mai riuscito a raggiungere un simile effetto.

La volontà di identità nazionale, già anticipata dal gusto medioevaleggiante e dal Gothic Revival di cui Schlegel17 fu il teorico, si sposa alla ricerca del caratteristico e di ogni altra forma che desse all’arte capacità di “individuare” e distinguere l’essenziale di una cultura, come di un individuo. Tutto coincide con l’affermarsi del liberalesimo moderno, della ricerca della libertà e dell’affermazione individuale sia nello spirito che nella società.

Teoricamente anche l’arte figurativa romantica si rifà alle scuole classiche del passato ma con un particolare riguardo a ciò che permetteva effetti di immediatezza espressiva. Diverso il discorso letterario, in cui si sente il bisogno di un linguaggio più vicino a quello corrente, motivato dalla sempre maggiore diffusione delle opere dovuta alla crescente alfabetizzazione. I soggetti letterari, a loro volta, divennero fonte inesauribile di soggetti figurativi.

Sempre un po’ diverso quello che accade in Italia dove i migliori risultati si ottengono quando l’artista ha un contatto diretto con il soggetto, come nei ritratti, campo in cui i pittori, anche se meno conosciuti forse nel resto d’Europa, non sono assolutamente inferiori ai migliori stranieri. Il fatto è che i centri di potere economico e politico sono ormai anche centri di diffusione della cultura e di commercio dell’arte e dell’antiquariato. Parigi e Londra surclassano la statica Roma dei papi e la decadente Madrid ed impediscono un’adeguata diffusione dell’arte della giovane America che viene considerata, e si autoconsiderava, tributaria dell’Europa ancora per tutto il secolo XIX in campo culturale, cosa che contrasta e limita in parte il concetto della libertà da poco conquistata.

Nello stesso periodo, dopo la caduta di Napoleone, sorsero alcuni movimenti a carattere mistico-religioso i cui rappresentanti non raggiunsero in genere vette altissime ma che sono interessanti da esaminare perché in essi, apparentemente simili, si riflette una prima cesura tra due modi diversi di intendere e leggere l’arte. Ci riferiamo ai Puristi italiani, ai Nazareni, tedeschi che operavano a Roma, ed ai Preraffaelliti inglesi. Nei Puristi, il cui maggior esponente fu Tommaso Minardi, più teorico che artista, il sentimento religioso si esprime spontaneamente nell’arte. Nei Nazareni l’arte è mezzo dimostrativo del dogma religioso; questi pittori tedeschi tanto erano convinti di ciò che per un certo periodo operarono in un convento, a Roma, quasi come religiosi.

La differenza è fondamentale: per i Puristi l’opera d’arte è tale perché porta in se il proprio valore artistico, come sentimento, per i secondi l’opera vale solo in relazione al valore dei contenuti logici espressi. Così si ripropone la divisione tra la concezione dell’arte più antica, che identificava le categorie di lettura di un’opera con i suoi contenuti, partendo dal presupposto che il valore dell’opera fosse tanto più elevato quanto migliore fosse la trasmissione di questi contenuti (i Nazareni), ed una concezione più moderna, post-kantiana, in cui il valore dell’opera non dipendeva dai contenuti ma dalla forza con cui questi venivano trasmessi e dalla facilità con cui venivano ricevuti (i Puristi).

Come abbiamo già detto, in questo secondo caso il giudizio sull’opera in se può benissimo essere del tutto scisso da quello su questi contenuti; non è necessario essere cattolici per riconoscere che Federico Overbeck, il capo scuola dei Nazareni, fosse un pittore di notevoli capacità, certamente superiore al poco noto (giustamente) Minardi, il maggiore dei Puristi.

Puristi, Nazareni, Preraffaelliti, sulle tracce di Schlegel, amavano tutti la pittura precedente il pieno Rinascimento per la sua maggiore capacità di far coincidere struttura e significato nell’opera d’arte. Tra i teorici di questo ritorno religioso citiamo Rio,18 Ruskin,19 Rumohr;20 le loro teorie non avranno molta influenza effettiva sull’arte contemporanea ma ci piace notare che Ruskin fu il primo in assoluto ad affermare che non conta tanto l’abilità tecnica quanto la sincerità del sentimento, tema questo che si porterà avanti per tutto il secolo XIX e su cui bisognerà tornare. Il Rumohr fu invece il primo ad assumere un atteggiamento critico metodico nei confronti delle fonti e delle attribuzioni delle opere, delle quali esige, per un giudizio di valore, l’assoluta originalità; anche questo sarà un atteggiamento di cui la critica non potrà più fare a meno.

Per il resto questi movimenti mistici confluiranno nel simbolismo di fine secolo per arrivare, tramite Gauguin ed i Fauves, ad oggi.

Si ragioni: si può giudicare un’opera d’arte prescindendo dai contenuti, che possono essere sublimi, caratteristici, sentimentali (e non belli ed idealizzati) ma solo per la sua intrinseca capacità comunicativa; se si eliminano questi contenuti cui l’opera rimanda, questa capacità rimane? Probabilmente si, se la tecnica, la struttura dell’opera, l’operare dell’artista e l’osservare o il partecipare del fruitore rimangono.

In questo secolo tutta una nuova serie di scrittori, giornalisti (una nuova categoria), poeti e saggisti si dedica alla critica d’arte; da un punto di vista filosofico i loro scritti valgono generalmente poco, ma se consideriamo l’assunto iniziale del libro, una storia dell’arte come storia delle categorie di lettura dell’opera d’arte, le cose cambiano. Fondamentalmente, infatti, essi suggeriscono insieme categorie di lettura e criteri di giudizio, confondendole tutte tra di loro ma, dobbiamo notare, questa distinzione allora non c’era e forse neppure oggi è bene chiara.

Così il Selvatico,21 che confonde il valore artistico di un artista con la sua onestà (sempre artistica) o Stendhal che vorrebbe “dipingere le anime”; più tecnici sono Mérimée e Planche che ancora trovano difetti nella mancanza di disegno di Delacroix. Furono lo Schoelcher e De Musset che superarono ogni dubbio formale insistendo sull’ispirazione romantica.

Tutti costoro trovarono un buon terreno di dispute nei Salon di Pittura che la Municipalità di Parigi organizzava. I nuovi mezzi di comunicazione portarono la disputa artistica a larghi strati di popolazione, un po’ come era stato nella Firenze del Quattrocento, e servendosi della stampa interessarono l’intera Europa e l’America del Nord mano a mano che l’epoca del pionierismo finiva, specie dopo la guerra civile.

La supremazia culturale di Parigi, rassodata da Napoleone, fu assoluta nel XIX secolo o almeno lo sembrò. Pittori come Delacroix, così ammirato da Schoelcher per i contenuti, venivano incontro ad un gusto del pubblico sempre più vasto in modo spesso molto condiscendente; si pensi ad esempio alla Morte di Sardanapalo, un quadro dove le figure sono quasi in grandezza naturale, appena più piccole per dare un poco l’impressione che la scena sia ad un paio di metri dall’osservatore e non sarà difficile trovare l’origine teorica della grande striscia di luce che illumina trasversalmente la scena nel magnifico fondoschiena della donna, nuda ovviamente, in primissimo piano, quasi tangibile, con un punto focale sul seno dell’altra donna abbandonata sul letto; dietro, torvo, il protagonista mentre uno dei soldati “golpisti”22 ne uccide un’altra, il rosso delle stoffe ricorda il sangue, le donne sono più nella posa di chi si offre che di chi sta per morire, ma la morte aleggia su tutto ricordata dal fondo verdastro: sesso, sangue e morte, non è forse una miscela ancora oggi fortunata? E che le figure siano dipinte per suscitare un certo tipo di emozioni più che per essere allegoriche lo dimostra anche la “Libertà che guida il popolo” nell’omonimo famoso quadro che, per essere più femmina, ha il pelo sotto le ascelle, particolare allora come oggi rigettato come troppo volgare dai critici. La libertà è una necessità reale e come tale non la si deve più ottenere nel mito ma nella realtà.

Emozioni o sentimenti? Il limite esatto non è definibile ma certamente le prime sono più spontanee e meno facili ad essere controllate. Un sentimento è un modo di essere dell’animo che può essere raccontato e di cui si ha coscienza, un’emozione è una reazione spontanea sotto l’azione di uno stimolo; i due modi di essere sono strettamente interdipendenti. Delacroix non racconta emozioni, racconta sentimenti, le emozioni le suscitano le opere. Géricault, per fare un altro esempio, dalle emozioni passa immediatamente ai sentimenti ed a quelli vuole che si fermi lo spettatore. La sua opera fa da tramite tra i sentimenti dei protagonisti e quelli dei fruitori, sentimenti che non sono gli stessi tra personaggi e spettatori, come nel celebre Radéau de la Meduse, in cui chi guarda deve compiangere la patria sconfitta e non i naufraghi. È il sentimento di Géricault che corrisponde a quello degli spettatori. L’argomento poi fu indagato a fondo nei quadri di alienati in cui Géricault probabilmente cercò una soluzione al problema della distorsione di questi sentimenti.

Divisa tra seguaci di Omero (i neoclassici) e di Shakespeare (i romantici) la critica francese, e quella europea al suo seguito, faticò un poco ad accettare le approssimazioni di Delacroix nel disegno prospettico, ma la forza comunicativa della sua luce e l’impeto del colore non potevano non prevalere. Sembrava la concretizzazione di una pittura che portasse in se la propria bellezza, come qualità intrinseca, da giudicarsi come tale e non per i contenuti, morali o amorali che fossero, secondo il dettato di Kant.

Questa indifferenza intellettuale del Romanticismo nei riguardi della morale è verificabile in molti artisti ed in un modo decisamente esotico di vedere la figura femminile; prendiamo ad esempio Esther al Bagno di Théodoe Chassériau e L’Orientale di Jean-Léon Gérome.

I quaranta anni che separano le due opere (1841 – 1882) indicano anche il passaggio tra l’epoca in cui la donna è vista come totalmente soggetta all’uomo, nuda e bella, senza problemi relativi alla sua “disponibilità” ed il momento iniziale dell’emancipazione, in cui questa disponibilità va evidenziata; questo significa il vestito semitrasparente che esalta, invece di nascondere, la nudità. L’Orientale è una prostituta, come prostitute erano le donne dell’harem dipinte da Delacroix, anche se poi questi dovette andare a dipingere in un bordello23 perché nessun algerino lo avrebbe mai ospitato a casa sua se non altro per non doversela vedere con i movimenti di resistenza all’occupazione francese. Delacroix stesso scriveva che ogni volta che tentò di dipingere dal terrazzo del suo albergo ad Algeri sentiva le palle fischiare attorno a sé. I Francesi naturalmente convinsero gli Algerini a smetterla con gli stessi metodi con cui si teneva l’ordine pubblico a Parigi: fucilando tutti quelli che trovavano se qualche soldato fosse stato ferito od ucciso. Un fatto del genere accaduta a Parigi fu disegnato dal vero da Honoré Daumier nel 1834; si vedrà subito che le differenze tra un artista romantico ed uno realista sono evidenti sia nella tecnica che nei comportamenti individuali.

Comiciavano così anche i fruttuosi rapporti tra l’arte europea e quella africana mentre il Realismo si proponeva come modello artistico per le società industrializzate.

 

 

REALISMO E IMPRESSIONISMO

 

Nell’arte dell’Ottocento, sotto l’influsso della filosofia kantiana, lo spazio ed il tempo sono condizioni interiori psicologiche; lo spazio, la prospettiva nelle arti visive, non è più descritto ed il tempo si perde; nei Neoclassici l’ideale è un ideale comportamentale, assoluto ed atemporale ed il sentimento dei romantici è una condizione puramente interiore, emotiva anche se non necessariamente irrazionale. Al Romanticismo si doveva per la prima volta che l’esteriore (all’artista o al personaggio che questi ha creato) è condizionato dall’interiore, dal sentimento; il salto successivo sarà al “non rappresentativo” e la natura non sarà più il riferimento principale.

Anche i Realisti non vogliono descrivere una realtà fisica ma sociale, mentre negli Impressionisti la descrizione della sola luce che colpisce la retina è la presa di coscienza che spazio e tempo, la narrazione della realtà, non sono più compito dell’arte. Precedentemente quando i contenuti erano non fisici, come ad esempio verità religiose o politiche, venivano ritrasformati in realtà fisiche per essere raccontati, come nei grandi decoratori romani del Seicento.

Spazio e tempo erano condizioni assolute e lineari, comuni a tutti: committente, artista, critico, fruitore; ora, anche se rimangono obiettivamente tali, non sono più importanti e l’artista non è interessato a riportarle.  Prima viene trascurato lo spazio, indicato con la prospettiva, poi il tempo da esterno all’uomo ed assoluto diviene sempre più interiore e, quindi, relativo. All’inizio del XX secolo ci sarà una piena coscienza di ciò, ma l’arte continuerà sempre ad essere proiezione dell’uomo e della sua realtà interiore oltre la realtà effettuale dei sensi.

Avevamo detto che l’estetica kantiana si evolse fino a negare che l’arte fosse altro al di la dell’intuizione e, in Heghel, fosse perfino pensiero: l’arte in quanto tale, perché i contenuti, se razionalizzabili, non possono non essere pensiero.24 In altri termini in un’opera non sarebbe pensiero la spontaneità emotiva che suscita, ma lo sono i sentimenti che nascono nel lettore o spettatore che sia, perché di questi è cosciente. Questa è una nostra interpretazione dell’estetica romantica, perché né Hegel né i suoi contemporanei distinsero mai tra le emozioni ed i sentimenti che le opere d’arte suscitavano nei fruitori, neppure la lucidissima critica di Baudelaire.

La necessità di un chiarimento portò al rifiuto dell’eccesso di sentimentalismo e dei tentativi di accattivarsi in ogni modo il gusto del pubblico il che voleva dire anche, in un’epoca di profonde trasformazioni (ma quale non lo è stata?), dimenticarsi della realtà umana. Oggi come oggi ci accorgiamo che i quadri di Courbet e dei suoi più fedeli seguaci sono pregni di sentimento, forse a dispetto del loro stesso autore; un sentimento umanitario generico e forse un poco patetico, ma certamente sincero. Così la modella del celebre Atelier (1855) viene mostrata nel suo stato di forzata disumanizzazione, di oggetto-donna comperato ed esposto senza alcun rispetto per il pudore e l’umanità che necessariamente portava in se. Un concetto simile, ancora più forte, è espresso nel Funerale a Ornans del 1850, in cui l’unica cosa viva è il cane bianco, visto che le convenzioni avevano imbalsamato i partecipanti al funerale ancora più del morto.

In questo quadro un solo personaggio è eroizzato, il becchino, forse perché è l’unico che lavori, in contrasto con lo scarso rilievo dato ai magistrati della città. È un concetto della morte lontanissimo da quello eroico ed esemplificativo di Marat, e lontano anche da qualunque sentimento intimo e forte del dolore romantico; è una morte fisica e sociale, senza altri significati che quelli di una convenzione. La struttura di base dell’opera è costituita da una serie di fasce orizzontali di colore: la più luminosa delle quali è la più alta, il cielo, e che si scuriscono andando verso il basso, verso la terra. Al centro una striscia di volti luminosi enumera i presenti al funerale, senza espressione di sentimenti e senza alcuna apparente partecipazione dell’autore che rimane neutrale, un po’ come alcuni autori letterari, Giovanni Verga ad esempio.25 Il giudizio obiettivo dello spettatore genera la partecipazione morale di questi. È evidente che a Courbet la verisimiglianza non interessava direttamente ed il Realismo è altra cosa dalla Rappresentazione; la capacità tecnica descrittiva non è né cercata né essenziale.

I colori di Courbet sono macchie ancora più di quelli di qualsiasi Delacroix ed i personaggi sono trattati come pupazzi più che esseri umani, cosa di cui, all’epoca, tutti si accorsero anche troppo. Nel quadro Gli Sciatori, che si trova al Museo Nazionale d’Arte Moderna a Roma, vediamo che il bianco dominante del quadro è reso come un viraggio color seppia fotografico, ammorbidendo al massimo i contrasti. Ma questo non è forse il punto di contatto con gli Impressionisti?

Che gli interessi dei Realisti26 fossero essenzialmente sociali viene anche dimostrato dal convergere nel movimento di artisti dalle capacità e dalle tecniche estremamente diversificate. Daumier è un esempio di pittore – illustratore e la forza delle sue denuncie sociali è proporzionale a quella delle sue capacità di disegnatore.

William Adolphe Bouguereau nel 1865 esponeva al Salon un quadro avente per soggetto una Famiglia Povera, una madre affranta con tre piccoli figli vestiti di stracci accucciata accanto ad un palazzo di classicissime forme, il tutto espresso con tecnica altrettanto classica ed accademica nel disegno, nel chiaroscuro, nella composizione piramidale delle figure; tutto l’opposto, ad esempio, delle Spigolatrici di Millet. Quattordici anni dopo la Nascita di Venere, sempre di Bouguerau, attesta l’abbandono totale di ogni tema sociale ed il recupero altrettanto totale del Manierismo. In mezzo il tragico episodio della Comune di Parigi dopo il quale, chi più chi meno, tutti dovettero rientrare nei ranghi.

Molti realisti non abbandonarono mai le tecniche più accademiche ponendo così il primo problema alla critica di questo secolo posto, per essere esatti, quasi esclusivamente in Europa, in Italia27 ed in Francia in particolare, dove la presenza di forti partiti comunisti fece nascere negli intellettuali l’equazione nuovo = rivoluzione = di sinistra, portando ad ignorare del tutto qualunque forma intellettuale o corrente che non fosse politicamente allineata a loro.28

Il problema nacque dalla considerazione che gli Impressionisti, così innovativi e rivoluzionari in pittura, furono per lo più dei conservatori in politica tanto che molti di loro, durante la Comune, si arruolarono nella Guardia Nazionale per “riprendere” Parigi; mentre molti dei Realisti, rivoluzionari in politica, rimasero sempre attaccati alle tecniche più tradizionali. In realtà tutto può essere facilmente risolto se si guarda al loro operare nel mercato dell’arte: gli Impressionisti furono i primi pittori veri imprenditori di se stessi in senso moderno, capaci di proporre un nuovo prodotto (ognuno il suo) e inventando allo scopo le prime mostre personali, con tanto di catalogo e pubblicità.

Lasciando le considerazioni puramente economiche, questo voleva dire anche un modo del tutto nuovo di instaurare il rapporto artista – pubblico.

La nuova maniera di dipingere fu permessa da un’invenzione tedesca: i colori in tubetto, con i quali l’artista poteva lavorare senza doversi portare appresso tanti barattoli quante erano le tinture che avrebbe dovuto utilizzare. Sino a quel momento ognuno preparava da sé, o quasi, i colori che gli servivano e, fondamentalmente, per ogni colore si doveva cercare o comporre una sostanza di quel colore e di quella tonalità e mescolarla, dopo averla polverizzata finemente, ad una base a tempera o ad olio. I barattoli di colore necessari per un quadro erano molti e dipingere era possibile solo dopo aver determinato in anticipo quali utilizzare. È vero che i colori di base e più usati erano pochi, ma andare da qualche parte con un’attrezzatura leggera e senza conoscere il soggetto no, non era quasi possibile. La pittura fino alla prima metà dell’Ottocento fu sempre fatta o completata in studio. Ricordiamo che già Canaletto faceva largo uso della “camera chiara” per i suoi disegni per ricordare meglio la propria “veduta”. Ora non è più necessario; tra l’altro c’è la nascente fotografia per questa visione.

Tutte queste cose sono assai note, le ripetiamo per porci un problema: se questa facilità giustifichi: 1) la nascita di una nuova corrente artistica; 2) il suo accoglimento dal pubblico. Alla prima domanda si può rispondere che sarebbe stato strano che degli artisti sensibili ed intelligenti non si fossero messi a sperimentare queste nuove possibilità operative. Ad esempio, se non occorreva un disegno per determinare e ricordare quello che dovesse essere dipinto, perché non farne a meno direttamente? E tralasciato il disegno anche il calcolo e la determinazione della prospettiva non erano più necessari. Alla seconda domanda bisogna rispondere ricordando che questi artisti provenivano da classi sociali imprenditoriali di buona cultura borghese e borghesi erano i loro acquirenti; anche quando ciò non fosse stato vero, imprenditori erano i galleristi e liberi professionisti i critici ed i giornalisti che supportavano il mercato.

Il nuovo prodotto fu pubblicizzato, sostenuto, sponsorizzato (ad esempio dall’imperatore Napoleone III che fornì la sede per il loro Contro-salone) fino all’affermazione sul mercato. Ciò non poteva bastare al movimento se il pubblico non fosse stato in grado di leggere le opere d’arte e non avesse avuto categorie per effettuare questa lettura. Quelle tradizionali, che aiutavano ad identificare ciò che l’opera d’arte rappresentasse erano parzialmente disabilitate: la prospettiva non c’era, i contorni non erano ben determinati… e così via.

In compenso si apriva la strada alla ricerca ed all’approfondimento delle possibilità espressive di ciò che rimaneva, anzitutto il colore, e sull’impressione che questo lasciava nell’occhio dell’artista.

Sul termine “Impressionismo” si è scritto di tutto e ognuno ha tentato di darne un’interpretazione adatta a spiegare e giustificare le proprie idee estetiche. Ci si chiede cosa sia impressionato, riceva questa impressione ottica, e cosa oscilli tra la retina fisicamente intesa e l’occhio nel senso di capacità di guardare selezionando quello che più ci interessa; per alcuni si tratta di un’impressione sull’animo dell’artista secondo altri di un vero sentimento originato dalla sua sensibilità interiore, fatto che avvicinerebbe gli artisti Impressionisti ai Romantici.

Probabilmente è tutto vero contemporaneamente, anche se la lucidità con cui gli Impressionisti portarono avanti il proprio discorso fa propendere per le interpretazioni più scientifiche del termine. Del resto si parlò, ed a ragione, di pittura “retinica” perché all’artista interessava solamente la luce che arrivava al proprio occhio. Ciò deriva certamente dalla tendenza romantica a vedere nella natura una proiezione dei propri sentimenti, ma se ne distacca nel punto, essenziale, che questa natura non deve essere descritta sentimentalmente né, tantomeno, fisicamente.

La luce che arriva all’occhio è una sensazione e questa sensazione viene riportata sul quadro o, comunque, lo genera; quello che ne viene fuori non deve necessariamente rappresentare: questa è la vera Rivoluzione Impressionista, non il fatto che manchino il disegno preparatorio e la prospettiva.

Nell’Inondazione a Pont-Marly (1876) di Sisley non c’è nulla del dramma umano che il fenomeno naturale certamente avrà comportato e nulla del sentire interiore dell’artista: solo luce e riflessi di luce tra acqua e cielo in cui nuvole, alberi e case moltiplicano le proprie possibilità esistenziali tante volte quante si riflettono in basso ed in alto, moltiplicando anche all’infinito le possibilità di lettura. Non contano i riferimenti conoscitivi che può avere il fruitore, umani, metereologici, idrici e non contano neppure l’aderenza alle tecniche più tradizionali per poter leggere il quadro. L’inondazione è solo l’occasione originaria per dipingere non l’oggetto rappresentato ma rapporti di luce. Ci sembra, ora, più chiara la necessità espressa nell’introduzione di parlare di categorie di lettura dell’opera d’arte piuttosto che di categorie della conoscenza, che sarebbero necessariamente riferite a quello che l’opera d’arte dovrebbe rappresentare, non all’opera in sè.

Mano a mano cha l’Impressionismo si affermava si rivalutarono anche le tecniche della macchia e dello sfumato che già aveva usato Leonardo ma al di la delle ricorrenze formali nulla ormai rimaneva della tensione umanistica per conoscere la natura e rappresentarla.

Lo sfumato e la macchia vengono dal fatto che l’impressionista dà direttamente l’emozione del colore e, coscientemente, non racconta o rappresenta più.

I pittori antichi costruivano “montando” le immagini quasi a incastro dopo averle disegnate una ad una, con pochi colori per risparmiare tempo e fatica. Gli Impressionisti costruiscono tutta l’immagine unitariamente, recependo la realtà fuori dagli schemi ma con immediatezza; questa immediatezza rifiuta l’intellettualità della prospettiva. Di qui la costruzione nuova dell’immagine. Perciò la loro realtà è moderna, adeguata ai nuovi tempi e non esemplificativa e normativa come quella inquadrata (da quadro, no?) precedentemente con canoni tradizionali e anche, spesso, di soggetti tradizionali e storici. I criteri per leggere un quadro di questo tipo, perciò, dovevano essere anch’essi nuovi.

Già in Italia una pittura a macchie di luce si era affermata in alcune scuole pittoriche, in particolare modo a Firenze ed a Napoli. La scuola napoletana, che aveva fatto capo a Giacinto Gigante, era la più antica e fu quella che si inserì, senza difficoltà, nel grande circuito della pittura europea, a Parigi, tramite l’operata dei fratelli Palizzi, ma i più innovatori furono i Macchiaioli toscani, con a capo Fattori e Lega, che avevano preso pienamente coscienza delle proprie capacità d’avanguardia. I napoletani avevano sempre sfruttato istintivamente gli effetti di luce per ricreare le atmosfere particolari della loro terra più che altro per fornire opere di altissima qualità per i turisti.

Cronologicamente i Macchiaioli toscani precedettero, se pure non di molto, gli Impressionisti francesi, ma la polemica che vuole riportare a loro il merito di avere iniziato la pittura moderna è inutilmente nazionalistica da parte della critica italiana. Anche se fosse vero che i pittori francesi ne conoscessero l’opera, nei Toscani (o forse è meglio dire  negli Italiani) non si fece mai quel salto ideologico che portò alla separazione concettuale tra oggetto rappresentato ed opera d’arte che fu la vera novità dell’Impressionismo. I Macchiaioli, in altri termini, non abbandonarono mai la tradizione italiana che voleva definire in qualche modo, col disegno per lo più, la realtà. Le loro opere, tuttavia, non essendo condizionate forzatamente da motivazioni sociali ed economici, raggiunsero risultati più puri ed affascinanti di quelle dei Realisti francesi.

Una diffusione maggiore ed una conoscenza migliore di questo movimento vennero a mancare solamente per la situazione periferica di cui soffriva la cultura italiana dell’epoca, dovuta, come abbiamo detto, a motivazioni legate ai problemi dell’indipendenza nazionale.

Ora il nostro discorso può proseguire su due linee: vedere cosa venne fuori dall’Impressionismo nell’arte e verificare se si può ancora parlare di linguaggio nell’arte, con tanto di strutture analizzabili.

Ci si perdonerà se salteremo a piè pari cose già dette mille volte a proposito dell’Impressionismo e degli Impressionisti e dell’origine del termine che tutti conoscono anche senza essere storici dell’arte, artisti o perfino critici, per continuare con il discorso della lettura delle opere d’arte.

 

 

UN PO’ DI TEORIA

 

Determinare i rapporti reali tra Impressionismo e filosofia non è facile; si trovano corrispondenze e parallelismi nelle idee estetiche ma non teorie preformate. Gli Impressionisti furono i primi veri artisti ad essere prima operativi e poi teorici, anzi, teorizzati dagli altri.

Si risponderà che si trattava semplicemente della separazione definitiva  del ruolo del critico da quello dell’artista e dello spettatore, ed è vero, ma la questione non si risolve solamente trasferendo parte dell’agire artistico, o meglio, dell’arte stessa, su di un’altra figura.

Facciamo delle considerazioni più consistenti: quando gli Impressionisti dicono di voler dipingere solo la luce che raggiunge la retina dell’occhio certamente possono essere avvicinati al Positivismo filosofico, che in quegli anni metteva a punto metodi sempre più precisi per la Storia dell’Arte e l’attribuzione delle opere e tentava di collegare l’espressione artistica alla psiche dell’autore; tentativi che troveranno poi dei primi seri risultati in Freud. Tuttavia ci sembra che tra i sostenitori della teoria della “pura visibilità” si possa meglio trovare un sostegno alla loro corrente e, di più, anche a molte altre forme dell’arte contemporanea. Naturalmente ciò va chiarito e riportato alla giusta dimensione di un’affermazione di principio.

I teorici della “pura visibilità” volevano fondare una “scienza del vedere artistico” autonoma e non un’estetica e la loro preoccupazione principale era quella di trovare degli schemi visivi in grado di dare delle categorie di visione dell’opera d’arte. Questi schemi, in quanto universali, rimasero sempre solamente teorici e furono applicati, di fatto, solamente al passato, come quelli del Woelfflin all’arte manieristica e barocca.29

Si tratta di categorie nelle quali inquadrare e classificare le opere d’arte e non di categorie per leggerle o comprenderle (a meno di far coincidere le due operazioni), ma in questi schematismi sono impliciti alcuni importanti concetti che si aprono al mondo artistico che stava nascendo. Non ne risultò una scienza del vedere artistico nuova ed autonoma ma una nuova arte ed un nuovo fare artistico.

La definizione che il Fiedler, partendo da Kant, diede dell’artista è ancora oggi valida: «l’artista … si distingue piuttosto per il fatto che la peculiare facoltà della sua natura lo mette in grado di passare immediatamente dalla percezione visiva alla espressione visiva; il suo rapporto con la natura non è un rapporto visivo, ma un rapporto di espressione.»30 Quanto sia immediato il passaggio dalla percezione all’espressione non sappiamo, ma certamente il rapporto tra artista ed opera d’arte è sempre attivo e connesso al fare arte stesso. Siamo abbastanza lontani dalla concezione dell’intuizione come atto passivo della coscienza e l’azione (espressiva ma sempre azione) è al fondamento dell’arte. Il contenuto, in tutto ciò, si perde e diviene decisamente secondario.

Uno scultore, l’Hildebrand31, sottolineò la serie di passaggi temporali tra la visione “tattile” (forma esistenziale) e quella “ottica” (forma attiva) anticipando sia la concezione del tempo nell’arte cubista, esistenziale, che quella dell’arte successiva, che sarà sempre più tendente alla dinamicità per arrivare ad una totale dipendenza dal tempo nella performance. Nella sua concezione di “visione lontana”, fatta di luci, colori e unitaria nei suoi effetti di luce-ombra, contrapposta a quella “vicina” e conoscitiva degli scienziati è già compreso tutto l’Impressionismo. Gli anni coincidono con l’inizio del movimento, e non ci sembra poco.

Il concetto di “volontà d’arte” (Kunstwollen) fu aggiunto da Riegl, anche se non si tratta dell’affermazione di una volontà individuale, di ordine psicologico, ma piuttosto dell’affermazione dell’indipendenza delle forme artistiche nell’ambito del periodo storico.32 Anche in questo caso la tendenza è a considerare l’arte come fenomeno indipendente dai contenuti che l’arte stessa, in quanto linguaggio, dovrebbe comunicare.

Ancora, più che le interessanti ricerche storiche della Scuola di Vienna di Franz Wickhoff33 e di August Schmarsow34 e della sue “infusioni” di sentimento, ci sembra degno di nota Henri Focillon che individuò bene il principio di una vocazione formale che riguarda tanto l’artista che la materia,35 principio che dopo la seconda guerra mondiale ha avuto il suo massimo sviluppo sia nelle teorie che nella pratica dell’arte.

Per concludere citeremo gli inglesi Walter Pater36, che sostenne che “tutte le arti aspirano costantemente alla condizione della musica” e, ancora di più, Roger Fry37, che nella “forma significativa” affermò il principio che un sistema di rapporti di linee e colori, la loro struttura aggiungiamo noi, può produrre un’emozione estetica. Si potrebbe dire che queste sono già buone basi per spiegare l’arte astratta e derivati ma con Focillon e Fry siamo già in pieno XX secolo e l’arte, come abbiamo sostenuto sopra, era già andata avanti.

Non abbiamo citato studiosi italiani, ma questi erano già occupati a cercare metodi sicuri mediante i quali ritrovare gli autori nelle opere; il sentimento dell’autore secondo la critica tardoromantica di De Sanctis38, che dalla letteratura era estesa alle arti figurative, o la sua personalità secondo Benedetto Croce39 oppure il suo nome seguendo il metodo di indagine storica del Morelli cercando di identificare i “motivi sigla” degli artisti40. Tutto ciò mentre gli artisti procedevano per i fatti loro, del tutto scollegati dai critici.

Tutta l’arte italiana della prima metà del XX secolo è stata influenzata dalle teorie di Croce, che hanno avuto anche una notevole fortuna nel resto del mondo occidentale. Croce riprende il vecchio motivo dell’arte come intuizione della realtà e, avvicinandosi ad Heghel, come forma di conoscenza. In Croce espressione ed intuizione di identificano, perché l’intuizione che genera l’arte è già formata nell’artista e viene estrinsecata per mezzo della tecnica particolare delle singole arti.

Questa impostazione, non solo crociana ha portato con se una serie di conseguenze sull’interpretazione delle opere, e più ai critici che agli artisti. Ritenendo la tecnica asservita alla resa di un’immagine del pensiero interna ma già formata, si svaluta tutto il processo creativo che, spesse volte nell’arte contemporanea, è l’unica cosa che rimane identificandosi con l’agire artistico stesso e, talora, è tutto ciò in cui consiste l’arte come in certe “azioni” o “performance”.

Gli artisti, gli agenti attivi di questo processo, ignorando (giustamente) le teorie, hanno sempre proceduto secondo una loro propria logica anticipando spesso i critici; abbiamo detto ignorando, non perché gli artisti non abbiano basi teoriche, ma perché facilmente non ne tengono conto. Nel XX secolo è quasi sempre così. Per questo stesso motivo l’arte contemporanea è spiegabile meglio se si tende ad ignorare le teorie estetiche più che a cercare di sovrapporle alle opere.

Una parte notevole del pensiero di Croce è la coincidenza tra Estetica e Linguaggio, fatto che porta a rivalutare tutta una serie di fenomeni dell’arte dal punto di vista semantico e strutturale, anche quando la struttura non sia la prospettiva e non abbia alcun intento rappresentativo, anche se Croce, molto conservatore, forse non lo avrebbe mai voluto. Se alcuni41 hanno negato il valore semantico dei segni artistici è indubbio che questo valore ci sia; citiamo le ricerche di Capogrossi negli anni tra il 1960 ed il 1970 e le serie delle sue famose “forchettine”. Ricerche che si sono estese a tutte le tecniche ed a tutti i tipi di materiale. Proprio dalle ricerche di Capogrossi prendiamo lo spunto per chiarire che il “segno” non è solamente quello propriamente detto, prodotto con gli stessi mezzi della scrittura: il concetto va esteso a tutto ciò che è rimasto fissato in conseguenza di un’azione artistica e che venga recepito in questo suo stato.

Segno significante nel senso completo della parola, insomma. In termini più moderni, il problema è sempre quello antico del significato dell’arte e della sua origine, da cercarsi, quest’ultima, in un’idea interiore all’artista o in un modello esterno. Sono i modelli ad essere cambiati; non più predeterminati ma dinamici e capaci, perciò, di andare ben oltre la pura rappresentazione, di un mondo fisico o ideale, interiore od esteriore che sia all’artista, ed in questa dinamicità, che implica il processo artistico, è la differenza con l’immagine preformata e statica di cui si è parlato da Cicerone e Croce.

Il problema dell’individualità dell’opera d’arte, come veniva posto da Croce all’inizio del secolo, era di valutare quanto nell’opera d’arte fosse di personale dell’artista rispetto a quanto vi fosse della cultura collettiva o gusto. Naturalmente un’opera valeva tanto di più quanto più riportasse di questa individualità e, quindi, fosse creativa, ma già Gentile42 riconduceva l’arte ad un’operazione di riflessione, di pensiero cosciente, su questo momento intuitivo, mettendo in risalto il processo dialettico interno all’artista nel distinguere i due momenti; il processo creativo deve, di conseguenza, terminare sempre con un atto di autocoscienza del pensiero.

Non riteniamo che queste teorie siano sorpassate quanto fondamentalmente incomplete. Per prima cosa rileviamo che il processo dialettico non è restringibile solamente all’artista, ma riguarda evidentemente anche ciò che è al di fuori di questi. Dialettico è il rapporto tra individualità e collettività, tanto per tornare al problema del gusto o, se si vuole, della moda; dialettico è anche il rapporto che l’opera d’arte instaura con il fruitore da una parte ed il critico dall’altra e questi ultimi tra di loro.

Anticipiamo il concetto che l’individualità di un’opera d’arte non consiste solo nel riferirsi all’autore quanto nella propria unicità e nel rapporto univoco col fruitore.

Se l’arte implica in se comunque un concetto di comunicazione e di linguaggio il rapporto, da un punto di vista logico, non può essere che dialettico; il fatto stesso che esista un rapporto implica una dialettica, tanto più che l’opera d’arte porta in se le proprie categorie di lettura e solo comunicandole può essere recepita come tale. Se non c’è comunicazione l’opera non esiste perché ne ignoriamo l’esistenza, che viene percepita come altro da se, separato in senso fisico o concettuale non importa.

La necessità di rappresentare porta di per se la possibilità dell’arte: ad esempio un ritratto o una fotografia di paesaggio potevano (e possono) essere arte indipendentemente dalla fedeltà rappresentativa di un determinato oggetto e basta fare ricorso a degli “schemi di visibilità” convenzionali per avere la base di un giudizio: come il colore, il chiaroscuro, la linea, il volume, la prospettiva, il movimento ecc.43

Questa indeterminatezza dell’opera d’arte, in relazione alle categorie kantiane dello spazio e del tempo, è propria di un’arte che non ha più certezze né di contenuti né di linguaggio che li esprima. un’arte in fieri insomma, in divenire e in movimento e questo movimento, anche nella più solida e geometrica costruzione minimal è sempre almeno nel rapporto che l’opera instaura col fruitore, che sia fruitore-artista, fruitore-critico, fruitore-committente o fruitore-spettatore.

Ci si perdonerà questa estensione forse indebita del concetto di fruitore, che ci si dovrebbe limitare a sostituire a quello di spettatore, ma in fondo, una volta creata, l’opera d’arte non è forse autonoma?

Il problema di questa autonomia, nel campo letterario-teatrale, lo pose proprio all’inizio del secolo, Pirandello, rendendo i personaggi unitariamente indipendenti dall’autore. Mascheriamoci, che so, da Robin Hood e verificheremo che il personaggio, in quanto tale, può continuare ad essere impersonato e vissuto anche al di fuori dei fatti specifici del romanzo Ihvanoe di Walter Scott, oppure, secondo il sesso, da Strega Cattiva che, tra l’altro, è molto meglio di Biancaneve.44

Il concetto di divenire è strettamente legato a quello di tempo e in questo secolo appena trascorso il problema del tempo nell’arte ha assunto una nuova considerazione. L’opera d’arte come realtà in divenire supera in parte la concezione “visibilistica” anche se già l’Hildebrand aveva indicato la visione dello spazio come una serie di percezioni successive. Siamo tornati, così, di nuovo all’idea iniziale: l’arte a partire dalla seconda metà del XIX secolo, non ha un reale riferimento a delle teorie di estetica, perché le precede; semmai più facilmente è il contrario. Gli schemi della “pura visibilità” rimangono sempre validi, non tanto per comprendere o leggere quanto per classificare e studiare.

Per chiudere facciamo un riferimento a Bergson45, il critico e filosofo che terminò questa fase teorica con la piena coscienza delle nuove esigenze dell’arte. Bergson trasporta nel concetto di tempo le idee di Hildebrand sulla visione contrapponendo un tempo della scienza quantitativo (la visione da vicino dello scienziato) ad un tempo della coscienza qualitativo (la visione da lontano dell’artista). Questa corrispondenza non è stata adeguatamente sottolineata e dà origine alla distinzione tra Memoria, che è propria della vita della coscienza e Ricordo, proprio della vita di relazione e della scienza. Normalmente i due termini vengono usati in senso esattamente contrario da quello di Bergson e così continueremo a fare anche noi, ma il significato è chiaro.46

Bergson riporta a unità il frazionamento della conoscenza che la logica (kantiana o aristotelica) aveva causato nel pensiero. L’opera d’arte è generata come continuum dal pensiero dell’artista che, essendo tale, sia nel tempo che nello spazio, come del resto in ogni altra dimensione, crea continuamente sé stesso. La creatività, intesa nel senso proprio di origine ex nihilo di qualcosa è, finalmente, propria dell’artista e dell’opera d’arte; così quest’ultima vive autonomamente, visto che continua in se il pensiero stesso che l’ha creata. Conseguentemente, il rapporto tra artista e pubblico comincia ad essere specifico tra pubblico e opera.

Come molti hanno già notato, è Bergson il vero grande teorico dell’arte che si svilupperà nel XX secolo.

 

 

IL POST-IMPRESSIONISMO

Cosa impressiona chi?

Chi esprime cosa?

 

A questo punto dello sviluppo dell’arte e delle teorie artistiche la rivoluzione è compiuta, l’arte ha abbandonato i vincoli imposti dalla necessità di rappresentare. Fiedler, Hildebrand e Riegl gettano alcune delle basi teoriche per questa rivoluzione, e Bergson ridefinì il problema della creatività.

Abbiamo usato la parola “rivoluzione” non a caso, perché tale fu e come tale la sentirono i contemporanei, come già era avvenuto al tempo di Giotto, quando iniziò quel periodo della storia dell’arte che ora, proprio con l’Impressionismo, termina.

L’ipotesi su cui avevamo iniziato questo lavoro non considerava tanto i contenuti delle opere d’arte quanto le categorie di lettura delle stesse, ma ci sembra abbastanza evidente che quando questi contenuti non costituirono più la ragione d’essere dell’arte, anche le categorie di lettura dell’opera stessa, inevitabilmente, dovettero cambiare.

La teoria della pura visibilità concentra l’attenzione di chi guarda l’opera d’arte sulle capacità espressive di questa, dando dei criteri di giudizio indipendenti dai contenuti. Ci si consenta un paragone elementare: è come se uno leggesse una poesia ad alta voce, pronunciando correttamente le parole e le sillabe, rispettando le pause indicate dalla punteggiatura ed intonando correttamente la voce per sottolineare le rime; questa poesia risulterebbe composta secondo molte delle regole tradizionali, con una struttura ben delineata, un sonetto petrarchesco o uno di Shakespeare per esempio, ma alla fine mancherebbe un senso compiuto logico e consequenziale alla disposizione delle parole. Leggendo, però, ad un certo punto la poesia potrebbe assumere dimensioni nuove e significati nuovi al lettore, non conformi alle regole tradizionali della retorica, ma suggeriti dalla poesia stessa nel corso della lettura.

Il paragone è inesatto, ma un poco si avvicina a quello che vorremmo esprimere. In termini logici un’opera d’arte che si basi sulla rappresentazione si distingue da una che si fondi sulla espressione quanto il concetto di raccontare differisce da quello di comunicare.

Gli Impressionisti volevano fare una pittura “retinica”, dipingendo esattamente la luce che arrivava alla retina dei loro occhi, questa luce non è  la realtà ma un fenomeno e di questo fenomeno si può dare la descrizione, non il concetto; non, cioè, la realtà generante. L’Impressionismo non rappresenta e descrive poco, parzialmente e selettivamente ma adempie ad una “funzione di trasferimento” della realtà nel quadro tramite l’impressione che questa fa nella coscienza dell’artista.

Le categorie di lettura dell’opera d’arte divennero relative a quanto l’opera “è” per chi fosse in grado di giudicarla, ma per il pubblico ancora valevano criteri rappresentativi, con la frequente conseguenza di un’incomprensione totale. Questo in Italia, ancora dominata da una cultura del passato, portò alla cesura tra una lettura dotta ed una popolare dell’opera d’arte. Ciò riflette la tradizionale separazione rinascimentale tra una lettura esteriore ed una profonda delle opere.

Naturalmente tra un’arte di pura rappresentazione ed una di pura espressione il solco non è poi così netto come potrebbe sembrare ed alcuni fenomeni contemporanei, se non anteriori, all’Impressionismo ne furono esempio.

Il Simbolismo è uno di questi perché in esso è implicito il concetto che l’opera d’arte abbia un valore intrinseco, da comunicare mediante simboli, che possono essere sia rappresentati che espressi. In questo secondo caso si attribuisce un valore simbolico direttamente ad una delle costituenti tecniche dell’opera d’arte, facilmente il colore ma anche il segno o la struttura grafica o la materia.

Già il caposcuola dei simbolisti, Gustave Moreau, separava quasi totalmente le sottilissime linee dei contorni da un colore che si stendeva senza contorni, o meglio, ignorando quelli che avrebbero dovuto essere i contorni, come nel quadro L’Apparition, in cui il contenuto moralistico (il rimorso) è evidente nella testa del Battista ma in cui l’interazione tra la preziosità del colore e l’intellettualità del segno e delle linee, tanto sottili da non essere talora quasi visibili, diviene simbolo della lotta tra spirito e carne, con una netta vittoria, nello spettatore, di quest’ultima, perché il quadro stesso è piacere recepibile fisicamente prima ancora che nella coscienza.

Gli altri simbolisti non furono sempre così efficaci nell’esprimersi e spesso la chiave di lettura dei loro simboli era, ed è ancora, piuttosto oscura anche perché, forse a ragione della scarsa frequentazione della letteratura, spesso confondevano i simboli con le allegorie.

Il Simbolismo si presenta come il primo tentativo di riportare, secondo tradizione, nell’opera d’arte dei contenuti da dover trasmettere preesistenti all’opera stessa e, insieme, di comunicarli senza doverne fare necessariamente la descrizione, tentativo effettuato prima ancora che si fosse presa coscienza della “rivoluzione” degli Impressionisti.

Del tutto nuova ci appare anche l’Art Noveau, che apparentemente rivendica la manualità e l’unicità dell’opera d’arte nei confronti dell’oggetto industriale,47 ma che non vuole sottrarsi al principale dettame estetico cui obbedisce l’industria, la moda, che serve a condizionare il gusto degli acquirenti. L’arte e l’industria producono le stesse cose, la differenza è l’esclusività del prodotto artistico, più ancora che la qualità. Il problema è ancora oggi vivo e già dalla fine del secolo scorso si era creata tutta una serie di prodotti, da quello di grande serie sino a quello della “grande” arte passando attraverso una scala di prodotti via via sempre più artigianali.

È questo un bell’esempio di condizionamento del fruitore di un’opera d’arte, i cui criteri di gusto e la cui capacità di lettura dell’opera dipendono in massima parte dall’abitudine ad una particolare forma espressiva. Quello che la pubblicità o la consuetudine propongono come “normale” non è più messo in discussione ed accettato senza problemi.

Alcuni dei teorici della critica iconologica48 hanno sostenuto che il Simbolismo si contrappone all’Impressionismo ed al successivo Espressionismo, comprendendo nel termine sia i Fauves che l’Espressionismo propriamente detto.  Il motivo sarebbe che sia l’Impressionismo che l’Espressionismo sono movimenti che si impegnano nella realtà, ma con un movimento dall’esterno all’interno della coscienza il primo e dall’interno all’esterno il secondo, che verrebbe così ad essere espressione di quella volontà d’arte di cui parla Riegl. I Simbolisti avrebbero avuto il difetto di cercare verità al di fuori della realtà, in un mondo spirituale. Ma costoro interpretano questo rapporto verso la realtà con occhio marxista, condizionato dalla concezione di un uomo sempre “impegnato” moralmente49 nella società e, sinceramente, ci sembra proprio che gli Impressionisti di grandi impegni non ne abbiano mai presi, almeno come gruppo.

Ricordiamo, sempre a proposito del Simbolismo, che vivere una vita spirituale non è necessariamente avere una fede, perché si tratta di una dimensione della psiche in cui si proietta l’uomo e che dall’uomo stesso è creata, al di la delle credenze religiose50. L’interpretazione marxista è più storica che iconologica in senso stretto e sostitutiva, nell’Europa Occidentale, del “Realismo Socialista” sovietico. Non bisogna dimenticare che in Francia ed Italia erano i più grandi partiti comunisti del mondo dopo quelli sovietico e cinese51.

Né il Simbolismo né l’Art Noveau seppero sfruttare adeguatamente le possibilità che apriva l’Impressionismo, se non altro da un punto di vista tecnico. Lo fecero invece il Pointillisme francese ed il Divisionismo italiano, che ebbero come maggiori esponenti Seurat e Segantini. Il primo portò all’estremo la tecnica della separazione dei colori, già implicita negli Impressionisti, ma anche lui non volle abbandonare una ricerca descrittiva, anche se sintetizzante, della realtà mentre il secondo cercò, con la nuova tecnica, di rendere le suggestioni di una natura vista in senso simbolista e quasi spirituale.

La tecnica, al di là della capacità dei due artisti menzionati, si poteva adattare benissimo a qualunque discorso, dal più moderno al più classico e scontato, un po’ come accadde alla scuola di Fidia che, a parte il maestro, poteva adattarsi a qualunque concezione dell’uomo o degli dei si volesse esprimere. Anche allora, come per i Divisionisti, quello che il pubblico recepiva prima di tutto era l’effetto “speciale” che dava l’immagine quando si scomponeva o ricomponeva a seconda della distanza di visione; una struttura che variava secondo il punto di osservazione era stata un tentativo riuscito solo in alcune delle migliori opere del Barocco italiano e del Rococò tedesco, anche in quei casi per mezzo della luce.

Invitiamo il lettore a fare questo esperimento: isolare una zona colorata uniformemente o quasi in un quadro divisionista ed ingrandirla, otterrà un quadro astratto degli anni cinquanta; l’esperimento riesce anche con alcuni pittori manieristi…

Riprendiamo ora le domande fatte all’inizio di questo capitolo per tornare poi, alla fine, a quella iniziale del libro: è possibile costruire una storia dell’arte come storia delle categorie di lettura delle opere d’arte? Domanda difficile perché, secondo la nostra teoria, nell’arte moderna è l’opera stessa a fornire le categorie per essere letta.

Rispondendo alla prima di queste domande (chi impressiona chi?), la realtà, otticamente intesa, “impressiona” prima la retina e poi il sentire, l’animo se si vuole, dell’artista; un sentire puramente artistico ovviamente. Rispondendo alla seconda (chi esprime cosa?) bisogna rilevare che quando l’artista si pone il problema di “esprimere” il proprio sentire allora, partendo dall’interno di se stesso per estrinsecarsi, non può non esprimere tutto quello che è in lui tornando ad una pittura che non si limita più solamente a ciò che appartiene alla categoria del visivo; non rappresenta il proprio sentimento, sarebbe un tardo-romantico altrimenti, ma in qualche modo lo tira fuori, lo esprime.

Il processo può essere anche duplice, ricevere dall’esterno e rimandare dall’interno, e infatti è in questo senso la prima reazione all’Impressionismo nacque dall’Impressionismo stesso, avvertibile a tratti nei fondatori del movimento ma dichiarata in artisti che avevano problemi di adattamento all’ambiente ed alla società, come Tolouse-Lautrec.

Altri artisti comunemente inseriti in questa prima fase dopo l’Impressionismo come Cézanne, Gauguin e van Gogh, benché abbiano agito quando ancora gli Impressionisti non erano totalmente affermati, appartengono ad una fase ideologicamente successiva.52

Il discorso è semplice, tanta indifferenza attribuita agli Impressionisti nei riguardi della realtà alla fine dei conti non è del tutto vera. Si guardi alla differenza tra i Bevitori di Assenzio di Degas, con i suoi colori sporcati di grigio, e gli Innamorati di Manet, luminoso ed allegro senza neppure il supporto di colori troppo vivaci, e nei colori si riflette la differenza che c’è tra lo sguardo spento della donna in Degas e quello vivace e dolce del ragazzo in Manet. Il discorso è valido quando questi compone utilizzando forme e posizioni classiche, citando i pittori del Rinascimento e giustapponendo i personaggi messi in pose tradizionali: l’innovazione è tutta nel colore.

In altri, come Tolouse-Lautrec, questa partecipazione quasi sentimentale (solo quasi) diviene più forte, e la differenza tra l’ambiente riprodotto nei quadri e quello dei manifesti, ad esempio del Moulin Rouge, è la differenza tra la pubblicità e la coscienza.

Da qualunque punto si esamini la faccenda, quella realtà che non interessava più rappresentare torna a proporsi come problema e come termine di riferimento. L’opera d’arte non vive più relazionata a qualcosa  di rappresentato ma deve comunque correlarsi alla coscienza (al sentire, se suona meglio) dell’artista e dello spettatore, anzi, nei confronti di quest’ultimo assume un valore autoctono, visto che da essa non si può risalire all’artista, ma solamente al suo stile ed alla sua tecnica personali e raramente alla sua psiche o ai suoi sentimenti. Anticipando il discorso, provatevi a conoscere il carattere di un pittore da un quadro cubista, analitico o sintetico a scelta!

Da questo momento in poi il concetto di una “arte astratta” diviene concreto, e ci si perdoni il bisticcio di parole. L’importante è sapere da che cosa l’arte sia “astratta”, letteralmente “separata dopo essere stata tirata fuori”, secondo l’accezione originaria del termine. Rimandiamo la prima questione che sorge: è l’arte come operatività ad essere astratta o l’opera che da questa operatività concretamente è nata? Dato che un’opera d’arte astratta in se è fisicamente concreta, astratta dovrebbe essere solo l’arte e forse l’atto dell’operare artisticamente, ma non l’opera che ne consegue. Non essendoci ancora una risposta questo rinvio è senza termine.

Per questi motivi la lettura dei quadri del Post-Impressionismo è estremamente controversa, almeno quanto quella degli Impressionisti stessi. Cézanne dipinge paesaggi o quello che sente dentro di se? Razionalizza una rappresentazione o la idealizza? Questo pittore voleva conoscere quello che dipingeva al punto di passeggiare per la campagna facendosi spiegare da un amico la natura della vegetazione e dei terreni, ma il grande pubblico non è in grado di saperlo dai suoi quadri, e neppure noi, se non ce lo dicevano. Chi apprezza Cézanne lo apprezza per la capacità di esprimere per figure di colore geometrizzate delle figure naturali, la cui reale forma non è totalmente riconoscibile. Molti, non addentro la materia, non lo amano e si chiedono il perché del suo procedere, ma non si chiedono certo il perché dei colori della propria cravatta o del proprio foulard, che non sono né più né meno significanti. In altre parole in Cézanne è già del tutto evidente il concetto da noi espresso che con l’Impressionismo è l’opera d’arte stessa a portare in se le proprie categorie di lettura; se queste categorie non sono recepite, qualunque ne sia il motivo, la lettura non è più possibile e, di conseguenza, non è neppure possibile un giudizio.

In Cézanne si mette in risalto la differenza tra denotazione e connotazione: la connotazione è l’essenza della rappresentazione; la denotazione è caratteristica dell’espressione ed esprime direttamente l’essere; entrambe sono fondamentalmente indipendenti dalla somiglianza. Cézanne ancora connota, anche se a modo suo, Van Gogh denota.

Il tempo e lo spazio non sono più rispondenti a criteri convenzionalmente determinati e quanto diciamo è ancora più evidente in Van Gogh, la cui capacità espressiva ha la forza di coinvolgere lo spettatore agli stessi livelli dei maestri del passato. La fama di cui gode questo pittore è talmente universale che ci permettiamo solamente di far notare questo: Van Gogh sapeva perfettamente cosa dipingeva e come e l’apparente velocità con cui realizzava le proprie opere era conseguente ad una precedente, profonda meditazione delle stesse. Le leggende su questo autore sono state originate dalla storia della sua malattia, ma la sua arte è lucida, anche quando è autobiografica.

La capacità comunicativa di un quadro può essere tale da renderne immediato il recepimento, ma questo non vuol dire che si debba parlare di istinto né dello spettatore né, soprattutto, nell’autore. Van Gogh va oltre l’istinto: l’emozione psicologica è tradotta in emozione del colore attuando il passaggio immediato dalla visione all’espressione proprio con l’uso del colore, secondo le teorie già espresse da Fiedler.

È l’uso del colore che è nuovo. Prima dell’invenzione dei colori in tubetto i pittori tendevano a farne ed usarne il meno possibile, per risparmiare tempo e fatica, cercando di variarne più la diluizione che la qualità; in Italia il fenomeno fu favorito dal valore teorico che si dava alla luce, specialmente si pensi a Piero della Francesca o, in senso opposto, a Leonardo; ma con gli Impressionisti tutti i colori divennero possibili sia tecnicamente che compositivamente.

Van Gogh fu il primo grande artista che profittò di queste possibilità e caricò direttamente sul colore le proprie esigenze espressive. Così egli usò direttamente i colori spremendoli dal tubetto se gli sembrava opportuno e nei suoi quadri la pasta colorata è tridimensionalmente evidente quanto il valore cromatico che porta, tutto il contrario di Rubens, tanto per citare un altro olandese.

Il suo ruolo artistico è di generare l’opera, come per i romantici, e comunicare attraverso di essa al pubblico il proprio sentire interiore, ma la tecnica usata, non descrittiva o rappresentativa, tende a identificarsi con il sentire stesso.

Il segno, il colore stessi coincidono con il sentire; non è ciò che è descritto a conformarsi al sentimento (come nel paesaggio romantico ad esempio), ma l’opera, mediante la quale si descrive, a farlo. I suoi quadri possono comunicare perché già contengono in se stessi, anche materialmente, il pensiero dell’io e la personalità che le ha generate.

Facciamo, comunque qualche precisazione per dimostrare, almeno parzialmente, che si tratta di un agire volontario. La lettura delle opere di Van Gogh è stata sempre, e giustamente, connessa alle vicende della sua vita e della sua malattia, ma pochi hanno messo adeguatamente in risalto alcuni dati che, invece, andrebbero esaminati con maggiore attenzione per valutare adeguatamente la formazione culturale dell’artista con la sua opera: si badi bene, la formazione culturale in generale, non quella puramente tecnico-artistica.

Da questo punto di vista, più vasto, Van Gogh va considerato come una persona di buona famiglia, dotato di una cultura superiore, con alle spalle studi di lettere, di filosofia e di teologia, che si diede prima al commercio e poi alla produzione di quadri; questo esclude la sensazione apparente che l’artista fosse indotto e “istintivo”.

Il mercato dell’arte, in un paese in cui mancavano i tradizionali grandi committenti (principi, chiesa) era un’attività usuale per le persone di cultura, mentre la sensibilità di un’indole particolarmente portata alla visione pittorica determinò il passaggio da commerciante a produttore, se così si può dire.

Questa precisazione è necessaria per capire come questo pittore, non a torto considerato il padre della pittura moderna, non solo agisse pienamente cosciente di quanto faceva, ma fosse in grado di farlo perché era dotato di quella cultura superiore che, nel momento in cui la realtà del quadro diveniva effettuale e non rappresentativa, rendeva possibile al meglio il trasferimento del pensiero dalla coscienza dell’artista all’opera.

Le fasi di questo trasferimento erano già codificate dalla tradizione: studio del soggetto, memorizzazione, elaborazione interiore dell’intelletto, gesto che si traduce in segno e colore... ecc. sino ad arrivare al fruitore. È proprio quando la materia si ferma sulla tela che il procedimento si spezza, ma non tra fruitore e immagine, bensì tra l’artista e la sua stessa creazione. Non un’interruzione affettiva o sentimentale, ovviamente, ma logica. L’opera non rappresenta più, come già per gli impressionisti, ma vive da sola: dopo che segno e colore si sono conformati all’interiorità dell’artista. Si noti, ad esempio, come nei ritratti e negli autoritratti, le pennellate esterne ed interne al viso siano estremamente simili nel modo di essere date e nella forma; altrove il sentimento, l’interiorità del soggetto, non si estende al paesaggio rappresentato ma al quadro stesso come entità fisica di superficie colorata e sulla superficie acquistano uno spessore mai visto prima.

 

 

Le Avanguardie storiche

 

Nell’arte contemporanea due strutture, quella della comunicazione nello spazio o rinascimentale e quella della comunicazione nello spirito o medioevale, che dir si voglia, si separano di nuovo e con esse si separano le logiche che queste due strutture presuppongono. La comunicazione prospettica rimane predominante nelle immagini fotografiche, televisive e cinematografiche, anche in virtù del fatto che tutte le ottiche di ripresa costruiscono proiezioni prospettiche brunelleschiane sul piano della pellicola o sui sensori elettronici, ma è indubbio che la prospettiva non sia che uno dei mezzi utilizzati dall’artista per costruire immagini, e non il più importante.53 Un esempio notevole ne è la pittura di Gauguin.

Se si abbandona la prospettiva e si abbandona la volontà di rappresentare rimangono sempre dei contenuti fisici, armonici ed organizzati, che debbano essere trasmessi e una logica interna dell’immagine deve comunque esistere. In questi due ultimi casi o, perfino, nella loro contemporaneità, rimane come oggetto dell’immagine e dell’opera d’arte la sua stessa fisicità.

Spiegare ed interpretare le varie correnti artistiche contemporanee ed i vari movimenti d’avanguardia nati dall’Impressionismo in poi è certamente assai più facile se essi vengano considerati l’uno separatamente dall’altro piuttosto che se si tenti di darne un quadro complessivo, specie volendo trovare, tra un movimento e l’altro, una consequenzialità logica.

In effetti spesso si tratta di punti di vista e ciò che, partendo da alcune premesse non può essere spiegato, trova la propria giustificazione, talora ovvia, cambiando anche di poco angolazione.

Con le avanguardie storiche poniamo subito la distinzione tra movimenti artistico-culturali e scuole. Il pubblico dà più valore al secondo termine che permette di identificare l’artista ma, obiettivamente, è il primo che si deve utilizzare in questo caso perché non c’è nessun fenomeno di artisti che imparino o prendano ispirazione da un altro (che questi lo voglia o no è indifferente). Un movimento culturale inoltre si estende ben oltre le sole arti visive.

La chiave di lettura delle avanguardie del ‘900 come movimenti di reazione all’Impressionismo e di ritorno ad una realtà perduta è valida, ma non spiega i fenomeni di “ritorno” che caratterizzano molti artisti e che non possono essere tutti interpretati come una forma di nostalgia culturale; del resto non si può neppure vedere tutto in termini di lettura del reale (fisico, geografico, etnologico, politico, psichico...) o in termini ottici e visivi distinguendo tra figurativismo e non figurativismo.

Tra i primi a porsi il problema di una nuova visione della realtà sono i Cubisti, che sono anche i primi a essere coscienti della nuova funzione che spetta all’opera d’arte ma mantengono totalmente il ruolo dell’artista come creatore e interlocutore con il pubblico, mediante l’operazione culturale della creazione dell’opera.

Nel Cubismo la geometria è applicata direttamente agli oggetti come e più che in Cézanne, che la applicava alla visione ed alla luce. Anche la Prospettiva era (ed è) una struttura geometrica applicata alla visione, ma aveva il valore di una convenzione universalmente accettata, la differenza era che nel Cubismo ogni quadro portava la propria struttura autonoma come, al suo interno, ogni oggetto rappresentato a sua volta; si pensi, ad esempio, alla geniale trovata di Braque di far vedere contemporaneamente sia l’interno che l’esterno dello stesso vaso, e con due o più differenti illuminazioni!. Sono operazioni come quelle dei Cubisti che ci fanno affermare che nell’arte contemporanea ogni opera d’arte porta in se le proprie categorie di lettura. Per lo stesso motivo, visto che ogni volta la visione della realtà cambia, e con essa la sua interpretazione, i Cubisti mantengono intatta la capacità creativa dell’artista.54

È una realtà totale, che si estende ad una visione estesa anche al tempo, e quando ci mostra un oggetto in modo da farne vedere contemporaneamente tutti gli aspetti possibili prospetticamente, questi corrispondono insieme a differenti momenti di luce e differenti momenti temporali. Una costruzione ancora più intellettuale della prospettiva degli Umanisti che separava nettamente il mondo degli intenditori da quello degli incompetenti. Si è usato il termine intenditori perché gli acquirenti di questi quadri tali erano, per cultura ed interessi, pur senza essere necessariamente degli intellettuali55 a loro volta.

Più “rivoluzionario” fu certamente il Futurismo che nacque in Italia come reazione allo stato di apparente arretratezza della cultura italiana all’inizio del XX secolo. In realtà l’arte italiana era tecnicamente aggiornatissima ed aveva mantenuto la sua capacità di cercare un contenuto da esprimere. Gli esiti migliori erano venuti dall’applicare ai modi espressivi del Divisionismo dei contenuti di carattere simbolico, allora di moda in tutta Europa. Quasi tutti i migliori artisti del Futurismo venivano da questa esperienza. Quella che in realtà era arretrata culturalmente era una parte dell’Èlite al potere, in particolare modo la Corte con l’Aristocrazia e l’Alta Borghesia che attorno ad essa gravitavano. In un certo senso avvenne in Italia, in piccola parte, per merito dei governi Giolitti, quello che in Gran Bretagna avveniva contemporaneamente per opera di Giorgio V e il potere reale passava di mano, e questo fatto favorì anche il nascere di nuove idee.

Il Futurismo56 italiano, come dice il nome stesso, non accettava più compromessi con il passato che era totalmente ripudiato in tutto ciò che rallentasse il progresso. La violenza con cui i Futuristi, da Parigi, fecero conoscere le proprie idee diede al movimento una diffusione enorme, specie nell’Europa orientale.

Dal punto di vista che più ci interessa, quello delle arti figurative, i Futuristi fusero le tecniche apprese dal Divisionismo con quelle recenti di analisi dell’immagine dei Cubisti, ma badando sempre ad ottenere un effetto dinamico. Celebri sono i voli di uccello e le macchine in corsa in cui viene evidenziata anche la struttura aerodinamica del movimento stesso. Ma i Futuristi andarono oltre, con quadri in cui oltre il movimento anche le forze dinamiche che lo generano sono evidenziati ed altri in cui sono i movimenti e le dinamiche interiori della psiche ad essere l’interesse principale dell’autore. Citiamo Studio per un volo di rondine di Balla per il movimento fisico e la Risata di Boccioni per l’espressione di un movimento della psiche, visto nel suo estendersi all’ambito umano circostante.

La vera novità dell’azione futurista fu nell’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, delle nuove tecniche di stampa, del cinema e nel modo in cui questi mezzi venivano applicati per trasmettere i messaggi culturali del movimento. Si pensi allo scandalo che fecero rappresentazioni in cui il sipario rimaneva alzato ad appena 70 centimetri da terra e tutta la scena si svolgeva senza parole, mentre il pubblico vedeva solamente le gambe degli attori che si relazionavano tra di loro cambiando posizione. Oggi che la regia dei films polizieschi ci ha abituato a vedere i piedi degli assassini che si avvicinano minacciosi, e non altro, per creare un’adeguata atmosfera di suspence e di terrore (pensiamo ad Hitchoct) non dovremmo farci tanto caso; non dovremmo, perché a teatro non ci siamo ancora abituati.

Insomma, le digressioni dei Futuristi nel campo della moda, della pubblicità, del disegno industriale non erano casuali ma inerenti all’essenza stessa del Movimento.

La loro era una volontà forte, disposta, per raggiungere i suoi scopi, anche ad impegnarsi politicamente. In fondo, questa loro volontà di rinnovare il vecchio mondo borghese era più forte di quella di fare arte. Questo spiega l’alleanza dei Futuristi italiani con il Fascismo della prima fase e di quelli russi con il Comunismo, anche se poi, appena preso il potere, sia Mussolini che Lenin li misero subito da parte, riempiendoli di cariche ed onori, ma da parte.

Contro la stessa Borghesia si scagliarono, durante la Prima Guerra Mondiale, i Dadà,57 movimento che nacque in Svizzera tra artisti di nazioni tra loro nemiche, che non volevano né guerre né rivoluzioni almeno quanto le avevano volute i Futuristi.

Il meccanismo del Dadaismo è semplice, per distruggere il vecchio linguaggio della Borghesia e della vecchia arte ne proponevano un contrario esatto: ad esempio, se un ferro da stiro scorre, si applicano su di esso dei chiodi sempre di ferro, ma che hanno la funzione opposta di bloccare; oppure, se ci si siede su di una bicicletta per muoversi, si mette una ruota di bicicletta su di uno sgabello, sul quale ci si siede per stare fermi… e così via. Mettiamo anche in risalto che, in fondo, si divertivano, come Duchamp con i suoi ready-made, gli orinatoi-fontana e simili e, contemporaneamente, prendevano in giro il povero borghese

L’effetto fu altrettanto forte di quello delle più eclatanti azioni futuriste, subito dopo la guerra e tra gli intellettuali, perché non riteniamo verosimile che queste cose interessassero i venti milioni di persone che si ammazzavano sui vari fronti e chi era impegnato dalla guerra, cioè tutta l’Europa e tutto il Nord America.

Con il Dadà diviene dichiarato quello che era già evidente, il vero problema era creare un nuovo linguaggio per la nuova arte.

Dal punto di vista delle categorie di lettura necessarie per leggere le nuove opere, però, non c’era nulla di nuovo, bastava invertire le vecchie perché un nuovo linguaggio non vuol dire necessariamente un nuovo modo di scrivere o di leggere. Bisogna ammettere che la grande sperimentazione che Cubisti, Futuristi e Dadaisti fecero di tecniche, materiali, strutture compositive allargò enormemente le possibilità espressive dell’arte e della comunicazione in genere, tanto da lasciare indietro il grosso del pubblico e da scavare un solco che non si colmerà mai più in seguito.

Ancora oggi quello che risulta più difficile è convincere il fruitore ad assumere una posizione autonoma ed attiva nei confronti dell’opera d’arte, ammesso che poi qualcuno lo voglia davvero ma, dal Cubismo in poi, se non è l’opera d’arte stessa ad incidere sul fruitore, ogni contatto è spesso impossibile. Insomma, siamo sempre ad una concezione dell’arte piuttosto elitaria perché in realtà le categorie di lettura di un’opera d’arte non sono poi tanto diverse dal passato, sono cambiate le opere d’arte, ma è estremamente difficile capirlo perché è proprio quello che deve essere trasmesso che è difficile da capire. Per fare un paragone è come se si usassero sempre le stesse lettere e le stesse parole dell’alfabeto, ma per dire cose diverse. Le nuove concezioni spaziali erano rielaborazioni intellettuali delle antiche.

Migliore fu la comprensione delle nuove istanze artistiche per quanto riguarda l’Espressionismo nelle sue diverse accezioni, da quello nordico ai Fauves; tutte forme espressive nelle quali si continuò a sperimentare un uso simbolico del colore con intenti per lo più morali o volti a chiarire la posizione dell’uomo nel mondo ed a dare una risposta ai suoi problemi esistenziali.

In questo furore sperimentale e sperimentativo l’idea di un’arte astratta58 attecchì piuttosto presto e si sviluppò con relativa rapidità tra il 1920 ed il 1935. La questione da porsi è: astratta da che? Dalla Natura è la prima risposta che viene alla mente, e se per natura si intendono non solo quella fisica ma anche quella sentimentale e caratteriale dell’uomo è anche la risposta che si avvicina maggiormente a quella giusta. Ciò da cui non può astrarsi un’opera d’arte sono le strutture mentali, razionali o meno che siano, dell’artista e del fruitore.

Un’arte astratta dall’artista, ovviamente, non è possibile perché da questi è generata e neppure dal fruitore, che con essa entra in contatto. La fisicità stessa dell’opera d’arte implica una concretezza reale ineliminabile che entro certi limiti contraddice l’astrattezza stessa. In questo caso si hanno alcune tra le forme più intellettuali dell’espressione artistica del XX secolo (cosa può leggere il pubblico in Kandiskij, Klee, Soldati o Mondrian?). Ne consegue che ciò da cui si astrae l’opera d’arte è comunque al di fuori della stessa e della sua genesi, è quello che prima era il contenuto rappresentativo, che ancora costituiva la ragion d’essere delle prima avanguardie. Nei famosi studi di alberi di Mondrian il processo è evidente. Entro certi limiti questo aspetto dell’Astrattismo può essere considerato un ritorno all’ordine razionale, al contrario di quello di Kandinskij, che cerca nella spontaneità dell’intelletto la creazione dei suoi campi visivi o, se vogliamo, traduce in segni spontanei collocati in campi visivi liberi il proprio pensiero. Kandinskij è il primo che tenta di liberare la personalità dell’artista riportandola ai suoi principi vitali di base. Significativo è il rapporto che si può istituire tra colori e sentimenti, come già avveniva nella cultura dei neri americani (I am blue, I am pink etc.) che si stava trasferendo nel Jazz.59

Mondrian azzera la natura, e in entrambi si va verso un pensiero astratto sia dalla personalità dell’artista che dagli influssi esterni, ambientali o naturali.

Certamente le categorie utilizzabili non sono tali in senso logico ed appartengono a due sistemi recettivi diversi: uno istintivo, come la sensibilità agli accoppiamenti di colori o all’andamento delle linee ed uno che si rifà alla citazione di forme razionali insite nel modo di essere del nostro stesso pensiero. Questi due sistemi sono di volta in volta evocati dall’opera d’arte, alternativamente o insieme in diverse misure. Dell’artista non si sa più nulla, come di un eventuale committente.

Ci riferiamo, naturalmente, ad opere astratte pure, come una delle Composizioni Numerate di Mondrian. Nuovi modi di vedere la realtà venivano frattanto messi a punto in ambito Dadà da Man Ray, compreso il corpo umano; ci piace ricordare le foto di sua moglie, in cui con la sola luce sottolineava le forme. Frattanto Duchamp provocava il pubblico imponendo gli oggetti più disparati come oggetti d’arte solamente perché portavano la sua firma.

Questa affermazione di superiorità intellettuale è il vero senso di queste operazioni culturali che ancora oggi sono fortemente rigettate dalla maggioranza dei visitatori di musei.

La crisi seguente la Prima Guerra Mondiale, oltre le logiche nostalgie del passato, portò anche ad una maggiore attenzione ai problemi psicologici dell’individuo che si sentiva sbalestrato dai cambiamenti che erano già avvenuti prima della guerra ma si esplicitarono violentemente dopo.

Il Surrealismo fu la dimensione di questa indagine all’interno del proprio Io,60 corrispondente all’Esistenzialismo di Sartre in Filosofia, dimensione totalmente psicologica e relazionabile alla società escludendo ogni tensione trascendente o trascendentale. I limiti veri della pittura surrealista sono nell’incomunicabilità intrinseca di opere che spesso si rifanno a dati psicologici di cui il fruitore è ignorante. Il contenuto onirico-simbolico di un’opera di Magritte come La Condizione Umana, estrinsecato attraverso una sola immagine può essere realmente comunicabile? Cosa aveva sognato l’autore? o meglio, cosa proiettava di se nel mondo del sogno? Così l’atmosfera suggestiva dell’opera d’arte può avere un significato del tutto diverso per l’autore ed il fruitore. Anche se questo, palesemente, è considerato ininfluente, cosa ne è dell’opera d’arte come linguaggio? Qualcosa, evidentemente, è comunicabile e queste domande, che sono ancora più valide per altre espressioni artistiche contemporanee, nel caso del Surrealismo divengono ineliminabili alla luce della considerazione che le immagini sono riconducibili, visivamente, ad oggetti fisici ben identificabili generando nel pubblico l’erronea sensazione di una leggibilità più facile. In realtà non è il linguaggio artistico a non essere compreso, mancano proprio categorie di lettura adeguate!

Per questa apparente migliore leggibilità si parla spesso di un “ritorno all’ordine” in Europa dopo gli eccessi dei Futuristi e dei Dadà. Di ritorno all’ordine si parla anche a proposito della Metafisica italiana,61 che conobbe uno straordinario successo con De Chirico e Savinio nell’Alta Borghesia europea. Questa corrente va vista in parallelo alle teorie di Jaspers e di Sartre62 ed alla dimensione storica e culturale del proprio Esistenzialismo.63

Il successo di De Chirico fu dovuto al fatto che riportava nei suoi quadri la cultura che egli e la classe sociale cui apparteneva avevano acquisita dentro di se, trasmessa di generazione in generazione. Il risultato era la possibilità di avere delle categorie di lettura dell’opera d’arte comprensibili perché riferibili ad una propria dimensione interiore e visibili direttamente nell’opera stessa. I Paesi in cui sussisteva una classe sociale elevata attaccata alle proprie tradizioni furono quelli dove De Chirico si affermò maggiormente: l’Italia e l’Inghilterra,64 mentre in Germania i governi social-democratici prima ed il Nazismo poi spazzavano via quello che rimaneva degli Junkers, per non parlare di quello che accadeva nell’Europa orientale.

Queste correnti artistiche si svilupparono tra le due guerre mondiali65 e generarono nel pubblico l’idea che tutto fosse lecito in arte e, nello stesso tempo, si formò negli artisti e nei critici l’idea che se non si inventava qualcosa di nuovo si rimanesse esclusi da qualunque processo culturale. Per il pubblico era sempre più difficile inquadrare ed analizzare le opere d’arte e, fondamentalmente, mancavano le categorie logiche che ne permettevano la lettura. La semplicità compositiva di un quadro di Mondrian non poteva essere messa in corrispondenza con Piero della Francesca, anche se le regole erano le stesse: bilanciamento dei colori che, fusi, avrebbero dato un grigio medio; maggiore o minore estensione delle aree colorate secondo l’intensità del colore; una rigida struttura prospettica che divide il quadro in parti proporzionali. Esattamente come nella Flagellazione di Cristo di Urbino.

 

 

DOPO LA GUERRA

 

Dopo la II Guerra Mondiale per il grande pubblico l’arte fu divisa tra “Figurativo” e “Non Figurativo”; per la critica si sottolineò l’ingresso in forze degli artisti nord-americani nel mercato mondiale.

Un notevole cambiamento rispetto alla prima metà del secolo fu l’abbandono del concetto che l’arte moderna fosse una ”arte degenerata”, cosa comprensibile: dopo tanti cambiamenti l’arte era l’ultimo dei problemi. L’espressione di arte degenerata meriterebbe una certa attenzione; notiamo che il concetto fu usato sia negli Stati Uniti che nella Germania nazista ed il problema è: degenerata è l’arte o l’artista? Ed ancora, come può essere degenerata l’arte? Degenerata rispetto a che cosa? O si è artisti o non lo si è, per cui la degenerazione non riguarda la capacità o meno dell’artista ad essere tale, ma il concetto stesso di arte che egli esprime.

Tutto questo ci riporta alla considerazione che il concetto di arte, in fondo, è anche un concetto morale. La pubblicità abbina ancora, come gli antichi Greci, il buono e l’utile al bello senza che, obiettivamente, ce ne sia ragione; così una bella donna viene usata per pubblicizzare, per esempio, un trattore, oggetto con pochissime ambizioni estetiche ma molto utile. Nella mente del fattore, evidentemente, le due cose si abbinano.

Quanti pochi progressi in 2500 anni!

Nel 1945 il fossato che divideva la nuova arte da quella classica era stato superato e l’era dello sperimentalismo avrebbe dovuto essere superata, ma non era così; quello che rimaneva della generazione precedente era proprio il desiderio di trovare nuove strade, continuando a confondere il raggiungimento di risultati intellettualmente validi con la scoperta di nuovi modi di meravigliare, se non di aggredire, il pubblico. Lo sconvolgimento di valori comportamentali tradizionali che il mondo occidentale subì con la fine della guerra favorì la diffusione dei nuovi modi espressivi, che si inserirono nel gusto comune, magari senza essere compresi, ma almeno senza essere rifiutati visceralmente.

In Europa Occidentale il progresso artistico subì una forte accellerazione mentre in quella orientale lo stabilizzarsi dei regimi del Socialismo Reale, o Comunismo, portò ad una sorta di immobilizzazione per parecchi anni sulle posizioni del Realismo Socialista.

Un esempio non figurativo possono essere le stesse proposte poetiche più recenti, che sono difficilmente comprensibili a chi non sia in grado di gestire autonomamente e interiormente, nel corso della lettura, quelle stesse strutture che il linguaggio attribuisce tradizionalmente alla scrittura, a partire dall’apparentemente semplice problema della punteggiatura. Come in una poesia relazioni e interrelazioni divengono portatrici di significati molteplici e a vari livelli, secondo che il lettore passi dallo strato delle assonanze a quello dei significati propri, simbolici o solamente evocati dalla parola, così in un’opera di Espressionismo Astratto si passa dalla portanza del gesto a quella del segno gestato. Si consenta la licenza “poetica” di inventarsi un termine: è un segno che mostra la sua origine dal gesto ma non vuole riferire il gesto come proprio contenuto. Mentre il Gestuale propriamente detto è sempre qualcosa che rimane confinato nel gesto stesso rinunciando alle strutture tradizionali compositive per arrivare a significati sempre più interiori all’opera stessa. Si ricordi sempre che perfino il solo modo di tracciare una linea (o una parola) è connesso ai propri tempi e al modo di essere di autore e fruitore.

Negli Stati Uniti d’America la fine di ogni rifiuto pregiudiziale nei confronti dell’arte contemporanea diede origine ad una stagione estremamente feconda di produzione e ricerca, mentre in Europa la Francia rimaneva fedele ai mostri sacri creati dalla sua classe intellettuale; solo in Italia, riprendendo un’attività libera dopo la fine del Fascismo,66 gli artisti ripresero anche quello sperimentalismo a tutto campo che era stato proprio del Futurismo prima di essere inglobato dal Fascismo, fatto che aveva evitato giudizi ufficiali di condanna da parte del potere, come arte degenerata, dell’arte contemporanea, se non altro perché i censori del Regime non erano in grado di distinguere un Futurista da un Astrattista o da un Cubista.

Entro certi limiti, e con piena coscienza di far dispiacere all’autocentralismo francese, l’Italia era il paese maggiormente all’avanguardia assieme agli Stati Uniti. Di fatto, per l’opera di collezionisti antiveggenti che avevano cominciato a collezionare anche artisti americani, New York divenne la città più importante per il mercato dell’arte contemporanea.67

Fondendo le radici primitive dell’arte e riproponendole attraverso un’esperienza moderna, gli artisti americani proponevano una Pittura Biomorfica, anticlassica, che si sganciava dalle tecniche tradizionali e classiche, al contrario di quanto avessero fatto i Surrealisti. Nasceva quella corrente di Espressionismo Astratto di cui l’Action-painting di Jackson Pollock è l’espressione più significativa.68

Le preoccupazioni principali degli artisti americani dell’epoca erano due: differenziarsi da quelli europei e, contemporaneamente, di uscire dalla condizione di artisti degenerati che l’opinione pubblica americana dava loro.

La prima, potente, personalità di questa corrente artistica è Arshile Gorky (pseudonimo di Vosdanig Adoian), un armeno immigrato negli Stati Uniti. La situazione di sradicato che questo artista aveva nei confronti della tradizione culturale americana lo portò ad una eccezionale libertà concettuale ed operativa. Le sue opere non possono, perciò, essere compiute ma mostrano il loro essere momentaneo di accadimento che si compie mentre guardiamo.

I colori scolano sulla tela, non sono stati fermati, e l’artista comunica direttamente le sue emozioni ed il suo sentire che cambiano rapidamente, con una tecnica che tutto fa fuorché stabilire segni, limiti, colori precisi. Il risultato è fissato per sempre sulla superficie del quadro e questo gli dà valore normativo ed assoluto d’arte, ma quello che è stato fissato è proprio il continuo fluire della fantasia dell’artista, l’incostanza del suo animo, l’indeterminazione della sua visione. L’opera è divenuta totalmente autonoma, perché quello che rimane su di essa non è già più quello che è rimasto nell’artista; essa non si rifà ad alcun canone predeterminato ed il fruitore la vede concretamente come un istante, un momento di accadimento che si svolge davanti ai suoi occhi.

Una morte immatura fermò la sua ricerca personale, ma il movimento continuò ancora più radicale, a cominciare da Jackson Pollock. Non sappiamo se sia vero che Pollock fosse finanziato in qualche modo dalla CIA ma certo, se si voleva contrastare l’influenza che gli artisti europei, tutti di sinistra, rifugiatisi negli USA69 avevano su quelli locali (compreso Walt Disney), non ci fu scelta migliore qualitativamente e che meglio interpretasse lo spirito d’azione e di ricerca quasi ansioso che caratterizza dal XVIII secolo il popolo americano.

Pollock fonde l’agire dell’artista e l’opera, la fisicità di questa e lo spazio ideale creato dal colore, riporta la pittura, l’artista e lo spazio ad una unicità integrale.70 Lo spazio prospettico e razionale non ha più alcuna funzione e realmente si torna ad un’arte in cui forma e contenuto si fondono. I maggiori rapporti storici degli espressionisti astratti, tecnicamente, a noi sembra che debbano essere istituiti con l’Impressionismo, dato il ruolo prevalente del colore.

Questa coincidenza tra forma e contenuto riavvicina l’arte a quella antica ma con la fondamentale differenza che i contenuti non sono acquisiti e stabilizzati nella società, proprio per il loro farsi “in diretta” nell’opera d’arte; torniamo, così, ad insistere sulla necessità che l’opera d’arte comunichi da se stessa le proprie categorie di lettura. L’Action-painting si presenta come il limite estremo di sviluppo dell’arte occidentale sul piano ideologico, resta da vedere se sia possibile andare oltre.71

Piena coscienza del fenomeno è in Barnett Newmann che scriveva già nel 1948: “Noi stiamo creando immagini la cui realtà è evidente in se stessa; prive di puntelli o grucce che evochino… L’immagine che produciamo ha in se stessa l’evidenza della rivelazione reale e concreta, che può essere capita da chiunque voglia guardarla senza i nostalgici occhiali della storia”.72 Citiamo direttamente questo artista perché dimostra due cose:

1- la piena coscienza del proprio operare, indice chiaro che non si tratta di improvvisazioni istintive;

2- il rapporto tra fruitore ed opera d’arte non ha più bisogno di mediatori.

Quando c’è, l’istintività dell’agire artistico è sincera ma parte da una posizione intellettuale volontaria, è l’artista che decide di essere istintivo; a sua volta l’evidenza dell’opera di cui parla Newmann è tale solo per un pubblico che possieda i mezzi mentali e culturali per vederla. L’unica cosa richiesta (sembra ovvio solo dopo che venga detto) è un atto di volontà cosciente da parte di quest’ultimo, così come era stato necessario all’artista al momento di agire.

Ma si può essere volenterosi e disincantati quanto si vuole, ma un rapporto con l’opera d’arte, che comunichi almeno se stessa, è possibile solamente se quest’ultima è in grado di trasmettere i propri criteri di lettura.

Questa capacità implica la fine della separazione tra forma e contenuto e della distinzione tra giudizio estetico – formale e giudizio logico - morale: l’opera si propone nella sua totalità e non richiede più criteri di giudizio e categorie di lettura precedenti a se stessa nel pubblico. Queste potrebbero essere formate solo sull’antecedente e non avrebbero senso in relazione ad opere d’arte che si propongono sempre in fieri.

Del tutto diverso è quello che accade in Italia, dove gli artisti fanno esattamente il contrario di quanto accade negli Stati Uniti e ne sono il complemento logico, come se qualcuno avesse concepito il disegno di un’arte totale non concentrata più in un solo artista (come in Michelangelo nel ‘500 ad esempio) ma in più personalità e più luoghi. In Italia nell’opera d’arte tutto è analizzato e rappresentato dopo essere stato isolato e fissato. Non un’arte mentre accade ma spesso il suo ricordo intellettuale. L’agire più forte nel paese del primo dei vincitori73 ed il meditare più profondo in quello più tragicamente sconfitto, specie se si pensa alla guerra civile.

Il “ricordo” dei gesti, purificato ed assoluto, diviene il protagonista dei quadri di Fontana, dove si concretizza nelle famose tele tagliate. Un gesto che ha inciso fortemente una superficie pura, tradizionalmente dedicata all’arte come le tele da pittura ad olio, il segno gestato di cui avevamo parlato. Il segno così indicato è totale e chiuso in se, non apre alcuna possibilità di andare oltre, ed è per questo, per evitare che i suoi “tagli” divenissero finestre per il fruitore che Fontana dietro non mette nulla, lasciando che il nero escluda ogni profondità dai suoi Concetti Spaziali, come sono i titoli di questi quadri. Naturalmente in molte altre opere e con altre tecniche Fontana portò avanti la sua indagine sul concetto di spazio, ma per il pubblico era, ed è tuttora, difficile capire cosa possa significare un taglio su di una tela; non è vero, però, che l’atteggiamento più diffuso sia di rifiuto. Per chiarire meglio il concetto ricordiamo di aver fatto notare come già Michelangelo vedesse nella superficie dei muri nella Sagrestia di San Lorenzo del Brunelleschi un limite teorico, che separava lo spazio del fruitore da quello al di là (nel caso specifico tra la vita e la morte): uno spazio di cui si aveva un “concetto” puramente teorico.

La materia in sé trovò, in Italia, il suo poeta in Burri, che dalle teorie dell’Arte Povera, intrise spesso di istanze sociali, trovò il modo di sintetizzare la propria esperienza umana con materiali non nobili o tradizionalmente dedicati all’arte. Il ricordo dei durissimi anni passati in campo di concentramento fu determinante e le bruciature, la vernice rosso-sangue, le lacerazioni delle tele di sacco ripetono esattamente quelle del suo animo. Che questa interpretazione si avvicini un poco al vero lo dimostra la sua ricerca successiva, volta a ritrovare in materiali comuni come le plastiche le preziosità della luce e di forme più armoniche, ritrasformando la materia povera in materia nobile.

Se il lettore lo consente,74 ci serviremo di un altro artista italiano, Capogrossi, per introdurre la terza componente dell’arte classica italiana: il segno. Le ricerche di Capogrossi portarono all’estremo la capacità espressiva, anche semiologica, di alcuni ideogrammi o, meglio, pseudo-ideogrammi perché non c’è una lingua particolare cui si riferiscano, tra cui le famose “forchettine”, e ritornano alla concezione pura di un’arte come linguaggio.

Si badi: il ricordo dell’agire artistico (Fontana), l’innalzamento della materia all’ideale (Burri), il valore intrinseco dei segni e della struttura (Capogrossi), siano sempre esattamente nel pieno di un discorso umanistico; così come all’Umanesimo abbiamo riportato il Cubismo con la sua razionalità, il Futurismo con la sua concezione della storia e la Metafisica con la sua cultura intesa come formazione dello spirito. È come se di Piero della Francesca non rimanesse più la struttura, come era stato nel Mondrian degli anni Trenta ma l’iter creativo, il percorso che porta all’opera finita: per fare un quadro erano e sono indispensabili la capacità dell’artista di agire (Fontana), la materia pittorica (Burri) ed una concezione intellettuale della rappresentazione significante (Capogrossi).

A queste forme espressive intellettuali si possono contrapporre, almeno in un primo momento, le forme espressive artistiche più istintive, sia che esprimano l’interiorità che l’esteriorità dell’artista: il Surrealismo in alcuni suoi aspetti, l’Espressionismo astratto di Pollock, l’Action-painting, la Pop-art e le varie forme di performance e di istallazione sino alla de-ideologizzazione della Trans-avanguardia e del Post-moderno. Dalla parte della tradizione classica sono anche l’Astrattismo e le forme più pure di Minimal-art, Optical-art e l’arte Concettuale75, anche se il concettuale di quest’ultima è sempre a livelli bassi (concettualmente parlando, è ovvio): si tratta, per lo più, di terminologia e definizioni, non certo di problemi filosofici ad alto livello, come del resto per quasi tutte le forme espressive di questo secolo, indipendentemente dalla corrente o dalla scuola di appartenenza. La sedia di Joseph Kosuth è un esempio lampante di concettuale che esprime concetti banali,

La concezione di un’opera d’arte che si rivela mentre accade e contemporaneamente, aggiungiamo noi, trasmette direttamente se stessa come unità globale assieme alle proprie categorie di lettura, avrebbe potuto avere infinite possibilità di sviluppo, ben al di la di quanto realizzato dagli artisti dell’Action-painting americana, ma non fu così, perché gli artisti americani si fecero prendere dalla smania di cercare sempre nuove strade sperimentali e, non appena raggiunti dei risultati concreti, non si curarono più di svilupparne le possibilità lasciando la propria rierca agli inizi.

Questo difetto è caratteristico di tutte le avanguardie artistiche di questo secolo, ammesso che lo si possa chiamare difetto, perché la libertà e la creatività dell’individuo ne sono sempre state esaltate. Il risultato fu l’avvento della Pop-art che consolidò la posizione di prestigio statunitense nell’arte contemporanea.

La Pop-art nord-americana si differenzia dalle altre correnti artistiche del secolo, in particolare dal Dadà, da cui formalmente deriva, per la mancanza di una volontà aggressiva nei confronti del pubblico, il che non vuol dire, naturalmente, che gli volesse compiacere più di tanto, solo non lo aggrediva.

Pensiamo un attimo a Andy Warhol: il mezzo dell’iterazione è un mezzo popolare “stupido” per sovradimensionare un’idea, similare alla tecnica di Lichtenstein di ingrandire a dismisura un retino d’immagine sovra-sottolineando i contorni.

Wharol da ordine e struttura al prodotto industriale dal punto di vista del consumatore applicando ad esso la capacità esemplificativa e normativa delle operazioni artistiche, perché da quello del produttore esso “è” in se razionale, strutturato ed ordinato come tutta la produzione industriale. Quasi a complemento ideologico di Wharol Raushemberg recupera oggetti “soli” ai quali il pubblico possa attribuire un’estensione della personalità, con particolare riguardo alla società americana ed alle sue abitudini.

In tutte queste operazioni c’è una acriticità morale evidente, perché si interessano al recupero ed alla rielaborazione della realtà, di un particolare aspetto della realtà, non al suo giudizio. Eppure non possiamo fare a meno di constatare che trasportare il quotidiano in una sfera superiore e separata dall’immediato, anche se apparentemente l’artista lo nega, non può non essere normativo e significante, se non bello, e quindi arte.

Significativo è l’atteggiamento di Raushemberg, che ignora il giudizio del pubblico quando viene accusato di non fare arte, mentre Wharol lo asseconda sostenendo proprio questa seconda ipotesi ed autoattribuendosi una spontaneità finta; è chiaro che è il giudizio della critica a rimettere in sesto la situazione attribuendo ad entrambi la qualifica (ambita?) di artista e con una sicura prevalenza di Raushemberg da parte nostra.

La Pop-art nel suo complesso compiaceva al Capitalismo americano nel momento in cui iniziò quell’espansione nel Mondo che in trenta anni portò alla caduta del Comunismo.

Un altro fenomeno ha caratterizzato l’arte della seconda metà del XX secolo, l’assurgere ad opera d’arte del comportamento degli artisti. Le origini vanno cercate (c’era bisogno di dirlo?) nel Teatro Futurista e nei comportamenti provocatori nei confronti del pubblico dei Futuristi e, successivamente, dei Dadaisti; la differenza è che quelle performance erano solo provocazioni e non pretendevano altro, mentre dopo il 1950 gli artisti hanno creduto di dare a se stessi un valore intellettuale al quale manca, però, la caratteristica principale dell’arte: la normatività. Non manca invece, spesso, il consenso del pubblico più intellettuale che si sente gratificato almeno quanto l’artista ed i critici nel proprio ruolo.

Forse quanto diciamo può sembrare un po’ severo, ma di quante performances non c’è più traccia? Del resto se si riesce a ritrasmettere i significati, che possono essere tutto, si è anche molto vicini ad altre forme artistiche di questo secolo, come il Cinema e la Televisione. Le possibilità di una performance sono enormi ed appena sfruttate.

Diverso è il discorso relativamente alle installazioni, che sono azioni ambientali non architettoniche, non vivibili, cioè, come spazio da parte del pubblico. Questi, infatti, può fruirne guardandole ma non parceciparne come spazio se non in maniera molto limitata.

Anche la performance è una forma d’arte in fieri come l’Action-painting, senza neppure il tentativo di una memorizzazione o di un blocco ad un punto preciso. Le documentazioni fotografiche e filmate sono cronache di questi avvenimenti ma non ne trasmettono l’essenza perché manca la partecipazione diretta del pubblico, sono descrizioni di opere e non opere.

Tra le istallazioni e le performances si colloca la Land-art, che è l’espressione della megalomania dell’arte contemporanea ed una delle dimensioni estreme verso cui si sviluppa la ricerca culturale.

Proprio l’estremismo è forse il più caratteristico degli aspetti dell’arte della seconda metà di questo secolo: si cercano forme pure? è facile arrivare a forme talmente semplificate da non essere ulteriormente riducibili come nella Minimal Art; esempio ne sono i solidi uniformemente colorati di Ronald Bladen che rinunciano (o meglio credono) perfino ad interagire con la luce dell’ambiente e si relazionano essenzialmente con se stessi. Si vuole un effetto di luce? l’Optical Art fornirà la scusa per moltiplicare gli esercizi di composizione appresi nei corsi di base di disegno e che vengono poi spacciati per grandi capolavori. Ed è questo l’ultimo aspetto che volevamo sottolineare, la crescente incapacità tecnica degli artisti contemporanei che sono spesso sinceramente convinti di fare qualcosa di creativo ricopiando quello che da sempre viene fatto fare agli studenti quattordicenni del primo anno delle scuole d’arte.

I criteri di lettura di opere di questo tipo sono limitati almeno quanto le opere stesse, in fondo si tratta di leggere qualcosa che potrebbe equivalere alla lettura di sillabe estrapolate dalla poesia, mai composta, della quale avrebbero costituito la base.

La mancanza di tecnica o la sua semplificazione si sono spesso tradotti in disprezzo per la stessa, come nella Transvaguardia76 Italiana, l’invenzione di Benito Oliva che tanto successo ha ottenuto anche in campo internazionale; un’arte che mostra dei contenuti,77 ma ad un livello elementare come il modo di esprimerli, a parte Mimmo Paladino, ma che trova proprio in questa elementarietà il punto di contatto con il pubblico dalla cultura approssimativa più che scarsa, confusa e, soprattutto, totalmente astorica. Così il recupero del passato avviene attraverso operazioni casuali, post-moderne, in cui la citazione del passato ne sostituisce la meditazione. A questo punto citiamo noi stessi, che in strutture materiche autoportanti ed autosignificanti inseriamo citazioni esplicite di veri pittori del passato; non è arte ma un’operazione culturale di citazione dell’arte, la cui normatività deriva dall’inclusione in cornici caratteristiche, concepite per quadri figurativi, di dimensioni standardizzate.

La transvanguardia, come molte altre forme d’arte contemporanea, che abbiano o no una sigla commerciale non importa, è il punto più significativo della de-storicizzazione dell’arte contemporanea, che in questo si allinea a determinati aspetti del consumismo. Anche le varie forme di Post-moderno si pongono verso il passato in modo da privarlo non dei contenuti, anche estetici, ma della sua forza significante ed esemplificativa. Post-moderno è uno strano neologismo e per spiegarlo ricordiamo che il moderno, in cultura, esiste solo se c’è un passato; se aboliamo il passato aboliamo anche il concetto di moderno e tutto ciò che rimane è solo una serie temporale.

I residui di quello che rimane dello scontro ideologico degli anni cinquanta e sessanta hanno lasciato questa traccia di disprezzo verso le radici culturali passate, viste sempre come una remora al progresso o alla rivoluzione o alla creazione di nuovi mercati o… quello che sia.

Eppure il fatto stesso di proporre le opere d’arte in musei, gallerie, luoghi dedicati o adattati allo scopo ed in tempi particolari dà alle opere (od azioni artistiche che siano) quel valore normativo indispensabile a loro per vivere, assieme ad un pubblico che ne riconosca l’esistenza.

Un artista che operi senza nulla di tutto ciò non esiste, perché nel momento in cui comunica la propria opera, la sua esistenza sarebbe codificata. Provate a fare un disegno anzi, un segno, senza dirlo e senza farlo vedere, esso non esiste; mostratelo a qualcuno ed avrà una dimensione esistenziale; mostratelo ad un critico d’arte o ad un esperto e sarà preso in considerazione come opera d’arte (il che non vuol dire che lo sia, beninteso); mostratelo in una galleria e sarà opera d’arte, magari giudicata brutta o insignificante, ma opera d’arte.

Un caso ultimo da considerare sono quelle espressioni che sono i Murales, segni, disegni e scritte più o meno spontanee (ma anche no) fatte per strada, su qualsiasi superficie. Essi sostituiscono le forme d’arte popolare antiche e come quelle risentono e derivano dall’arte dotta. La loro normatività è relativa alla posizione che assume chi li guarda: massima per l’autore minima per chi non ne recepisce che la rottura di valori sociali quali possono essere il decoro e la pulizia; eppure è proprio quest’ultimo caso ad evidenziare la massima significanza di un murale.

Si ritorna, così, a quello che sembra il termine più costante come presenza: il pubblico. [Proposta: visto che oggi tutto si fa per il pubblico, perché non tornare ad ignorarlo ed a fare arte?]

Una cosa è certa, la fine delle avanguardie. Nell’ultimo quarto di secolo l’arte contemporanea ha avuto un cambiamento in fondo abbastanza logico, ma inaspettato per il grosso pubblico che non si è reso conto di quanto accadeva: la storicizzazione delle avanguardie. Una storicizzazione che è arrivata prima che le avanguardie stesse fossero in qualche modo capite e “digerite” dalle masse.

Il momento di svolta è da cercare probabilmente nella Pop-art americana e nel suo porsi non conflittuale nei riguardi del mondo dei consumi. Qualcuno, come il critico Klaus Honnef78 ha preso la morte di Andy Warhol come data convenzionale per questa svolta. La conflittualità tra artisti e borghesia non si era risolta e finiva nel comune assorbirsi nell’ambito del consumismo.

Postmoderno e Postavanguardia sono termini nei quali si riassume la situazione attuale, che non ha più teorie né punti di riferimento. Molti critici non ammettono l’abbandono del concetto di avanguardia ed il conseguente ritorno prepotente di quello di moda che sembrava essersi progressivamente eclissato dopo la Rivoluzione Francese, relegato a manifestazioni secondarie come il costume, per arrivare ad una totale apparente scomparsa (dal mondo artistico, beninteso) tra il 1910 ed il 1915, ma la maggior parte si dà da fare proprio per riconciliare l’arte e la moda.

Concludendo, notiamo che la precoce storicizzazione delle avanguardie corrisponde al desiderio di fare un’arte astorica, come nel Medioevo, ma che questo nonsignifica necessariamente anche la fine della conoscenza del passato; ciò che viene abbandonato è il valore morale che si da a questo passato e la conseguente sensazione di dipendenza da esso.

 

 

CONCLUSIONI E PROPOSTE

 

Cerchiamo ora di fare un esame teorico di quanto esposto e vediamo se ne è possibile trarre almeno qualche regola di visione generale, sempre partendo dal principio che le categorie di lettura di un’opera d’arte le trasmette, oggi, l’opera stessa; lo scopo in fondo è dimostrare la validità di questo assunto i cui postulati sono, tuttavia, subordinati al possesso delle regole tradizionali.

Si tratta di una forma di Neo-nominalismo della comunicazione in cui la definizione dell’oggetto è entrocontenuta in ciò che viene comunicato più che nell’oggetto stesso. L’arte contemporanea in particolare si ha quando l’oggetto artistico contiene in se le proprie categorie di lettura in modo stabilmente finito, divenendo un elemento di riferimento, di normatività e (auto-)proporzione.

Naturalmente l’oggetto artistico è tale solo se può essere comunicato. Nella comunicazione artistica le categorie di lettura possono essere variate da vari fattori esterni o intrinsechi (i soggetti, l’oggetto o contenuto, le modalità, i mezzi tecnici) che ne variano la percezione. Queste variazioni sono, a loro volta, una scelta dell’autore o del fruitore o di qualcun’altro o casuali: facciamo l’esempio delle variazioni di velocità di una registrazione musicale, che possono essere introdotte in qualunque punto del processo di registrazione-riproduzione anche da un semplice tecnico determinando variazioni sia interpretative che fisiche.

Ricordiamo che, una volta, queste categorie di lettura, normative e proporzionali (nelle intenzioni), erano cercate esternamente all’oggetto dell’arte, che così non veniva comunicata attivamente ma più spesso “intuita”. In realtà il processo era lo stesso, ma non c’era coscienza della variabilità della lettura perché le categorie di questa lettura erano considerate invariabili.

Gli studi di storia dell’arte contemporanea (anche letteraria) distinguono due livelli di critica, uno volto alla struttura dei significati, uno alla struttura in se; non è detto che i due livelli debbano coincidere (come in Aristotele) e la struttura in sè può costituire un significato autonomo. La cosa deriva dalla de-ideologizzazione dell’arte. Come accade per i valori economici, che una volta erano moralmente secondari agli altri, ma muovevano nella realtà tutto, sotto la spinta dell’egoismo umano; ora che sono proposti come moralmente accettabili, se non preminenti, gli individui si accorgono che sono secondari al proprio sentire interiore.79

Si consideri ora questo: prima dell’Impressionismo la critica artistica considerava, nel porsi di fronte all’opera d’arte, una serie di componenti quali il soggetto, l’artista, l’opera in se (forma e contenuti); spesso tuttora, e propriamente, si analizzava la produzione artistica contemporanea esaminando in successione tali elementi (in senso logico, non cronologico).

Quello che si vuole ora proporre è una visione dell’arte che tenga presenti i processi di passaggio tra quei momenti cui sopra si è accennato e che sembrano tra loro staccati e come indipendenti, visione che non incide comunque in maniera determinante sul valore estetico di un’opera e non è in contrasto con altre forme di critica.

Gli Impressionisti, tanto per fare subito un esempio scontato, non cessarono di vedere la realtà qual’era ma modificarono e spesso annullarono il momento di passaggio dalla realtà-soggetto all’artista, primo di una serie che può essere così determinata in via provvisoria: soggetto - artista - materia fisica dell’ opera - fruitore della medesima.

È facile notare come non si parli di forma esteticamente determinata che è ciò cui si dà, e si deve dare, la massima importanza per poter esprimere un giudizio estetico: guardando ad un’opera d’arte tale giudizio è ciò che realmente conta, tenendo contemporaneamente presente il fatto che anche i contenuti di questa forma hanno spesso un proprio valore autonomo ed altrettanto importante ed escludendo la necessità di un’equazione bello = arte.

Si provi, invece, ad ignorare il valore estetico, ad esempio, di un quadro ed a considerarne i contenuti come un mezzo o un tramite per poter attuare il passaggio materia-fruitore piuttosto che, come è uso, uno degli scopi esistenziali o sostanziali del quadro medesimo: ecco che già potremmo giustificare anche soggetti poco significativi ma che attirino molto l’attenzione; il che naturalmente non toglie che, troppo spesso, cose di tal fatta siano, con termine napoletano, fetenzìe.

Tutti e quattro i termini sopra considerati, soggetto, artista, materia, fruitore sono, in fondo, realtà tra loro separate, preesistenti al proprio incontro e che fatalmente possono annullarsi in questo loro scontrarsi; quel “quid” non meglio determinato che è il bello le unisce e le costringe a coesistere, almeno così sembra ai più.

Tornando ad esaminare la serie di passaggi dall’uno all’altro dei quattro termini considerati si può affermare che certamente non si tratta di “critica d’arte” nel senso di un esame delle opere connesso in qualche modo ad un giudizio estetico; tanto meno si può partire da ciò per poter esprimere un qualsiasi apprezzamento sulla persona o sulla personalità dell’artista.

Come ci si può soffermare, in uno studio preliminare, sul tipo di pennelli usato da Tiepolo, così si può cercare di vedere se la materia fisica di un quadro di Mondrian viva nel quadro o ne sia annullata dalla immagine o se, nello stesso quadro, chi lo guarda “entri” in qualche modo (o ne sia escluso).

Tutto ciò è critica, sempre che si voglia dare al termine un valore di giudizio estetico ed anche nel caso che si intenda “la fusione dialettica di tutti gli elementi contingenti con il valore eterno dell’insieme” (Venturi) poiché quest’ultimo non è assolutamente considerato; a parte il fatto che in questo secondo caso sarebbe forse più giusto parlare di “comprensione” piuttosto che di critica.

A questo punto, poiché certamente chi legge ha le idee poco chiare, piuttosto che continuare in una serie di affermazioni quanto meno opinabili, sarà bene passare ad esaminare il problema da un altro punto di vista.

Una linea di sviluppo dell’estetica nel XX secolo non può essere più tracciata seguendo la falsariga dello sviluppo del pensiero filosofico; il problema è quello delle categorie di lettura dell’opera d’arte, più questa diviene autonoma e più si complica, perché, se è vero che queste categorie possono essere comunicate dell’opera stessa, rimane il fatto che queste debbano, prima o poi, essere recepite dal fruitore. Inoltre, una volta in possesso di queste categorie, cosa rimane da leggere? Abbiamo visto che contenuti e capacità di lettura dei medesimi sono inscindibili.

Un possibile schema di questo sviluppo può essere composto ricorrendo ai concetti di tempo di Bergson ed a quello di spazio dei teorici della pura visibilità. La visione dello spazio può essere descrittiva o denotativa, la concezione del tempo può essere lineare e misurabile o interiore, della coscienza.

Come abbiamo detto possiamo parlare di categorie dell’opera d’arte in quanto tale a partire dall’Impressionismo nel senso che queste categorie debbano essere trasmesse dall’opera stessa; ciò non esclude che l’opera non trasmetta contenuti oltre queste categorie, né che perda del tutto una sua rappresentatività dello spazio o del tempo. Lo spazio non è prospettico, ci sia lecito ripeterlo, e si rifà ai concetti della pura visibilità ed il tempo è il tempo Bergsoniano della coscienza.

Le principali di queste categorie, giova ripeterlo, sono quelle che Kant riportò all’interno della coscienza dell’uomo: lo Spazio ed il Tempo. L’arte contemporanea oscilla tra un tempo della coscienza ed un tempo lineare; tra uno spazio rivissuto dalla coscienza dell’artista (la teoria della pura visibilità) ed uno spazio prospettico accettato come assoluto.

In altri termini l’arte piuttosto che abdicare la propria funzione rappresentativa e, quindi, conoscitiva (si può rappresentare solo ciò che si conosce) ha seguito l’evoluzione della filosofia passando dalla logica aristotelica a quella kantiana.

I contenuti, che l’Impressionismo trascurava, riacquistano valore, ad esempio, nell’estetica di Croce e nel Realismo Socialista, anche se alla fine il concetto che l’arte sia raggiunta quando esprime valori universali attraverso la personalità dell’artista riavvicina notevolmente Croce a Bergson.

La linea che recupera i contenuti e la realtà con particolare attenzione al tempo comprende i Cubisti (tempo della scienza) ed i Futuristi (tempo della società). Il tempo interiore della coscienza si ritrova nel Surrealismo e quello interiore della Cultura nella Metafisica.

In tutti questi casi lo spazio è funzione della visione dell’artista, sfuggendo ad ogni regola così, quando la sua funzione diviene importante o, in altre parole, quando l’opera d’arte dovrebbe rappresentarlo, non essendo più capace di farlo per mancanza di regole, si ricorre alla Performance, che è tempo che scorre mentre l’opera si fa e con in più lo spazio reale, fisico ed immediato. Anche nelle Istallazioni lo spazio è reale e fisico, ma l’opera d’arte, anzi, l’azione che fa l’opera, è fissata nel tempo senza limiti ( senza pretendere che sia eterno).

A questo punto un pensiero deferente deve essere fatto all’Action-painting unica forma d’arte in fieri fissata per l’eternità.

Tra tempo della coscienza e tempo della scienza e tra spazio prospettico e spazio della pura visibilità si sono poi generate tutte le possibili combinazioni.

Riassumendo:

 

Per quanto riguarda la realtà abbiamo identificato quattro passaggi corrispondenti a quattro realtà:

- Realtà naturale (sociale - psicologica)

- Realtà artistica

- Realtà dell’opera (o nell’opera)

- Realtà del Fruitore.

 

Per quanto riguarda le categorie per leggere (o capire) l’opera d’arte queste hanno il loro riferimento:

1) nell’oggetto direttamente;

2) nella rappresentazione di un oggetto che a sua volta è simbolo o punto di riferimento per rappresentare un “altro dall’opera”;

3) nell’espressione di un oggetto che non essendo “altro dall’opera” è l’opera in se.

 

Queste categorie sono:

a) il tempo:     - lineare o antico;

                        - della coscienza o relativo o moderno;

b) lo spazio:    - prospettico;

                        - della pura visibilità.

 

Rimane da determinare cosa sia da considerare opera d’arte o, che è lo stesso, cosa differenzi un oggetto o uno scritto come opera d’arte da ciò che non lo è. Un punto di partenza per una risposta può essere una valutazione del grado di normatività dell’opera ed eventualmente la sua capacità comunicativa piuttosto che una valutazione estetica.

Facciamo un esempio relativo a chi deve esprimere un giudizio in proposito. Tre sono i soggetti interessati: l’artista, il critico ed il pubblico; tutti e tre sono fruitori dell’opera. L’opera segue un percorso logico: parte dall’artista, viene valutata da un critico, giunge al pubblico. Precisiamo subito che anche se il critico non ci fosse le cose non cambiano, perché noi parliano di critica come del momento determinante il gusto collettivo e le scelte del pubblico, lavoro che è indipendente dalla persona. Continuiamo nel nostro esempio: abbiamo avuto il Dadà voluto dai critici per un pubblico dotto; la Pop-art per un pubblico ignorante e il Concettuale per un pubblico formato proprio da artisti e critici.

Come si vede abbiamo trattato ancora dei quattro punti di cui parlavamo poco sopra: soggetto - artista - materia fisica dell’ opera - fruitore della medesima.

Rimane il problema del rapporto tra arte e libertà.

Una storia dell’arte come storia delle categorie, finisce per essere una storia dell’arte di valori con cui queste categorie si possono identificare? Nell’antichità soprattutto ma anche in seguito forse si.

Per i greci l’immagine non tanto comunica quanto si identifica con i significati che esprime e l’uomo si identifica a sua volta con questi stessi significati, una speculazione teorica sull’immagine stessa, pertanto, è fondamentalmente inutile.

Il riferimento di quest’arte è sempre ciò che gli uomini sono quando proiettano se stessi in una dimensione non fisica, per adesione o repulsione.

Forse non siamo lontani dal vero se vediamo in questa continua ricerca l’eterno tentativo dell’uomo di superare il confine della morte per proiettarsi fuori dei limiti del tempo, dimensione che solo la religione, altrimenti, può dare. Attingere all’eterno con la fede o creando qualcosa di eterno, se non nel tempo, perché tutto ha fine, almeno nei valori. I miti più antichi, che si rifanno ad ideali passati di moda e non più attuali questo solo hanno ancora di valido, il concetto stesso dell’esistenza di valori che trascendono ogni limitatezza dell’uomo. Per questo ogni forma esistenziale limitata in se stessa non è forse neppure umana.

Così, se siamo profondamente convinti che l’arte sia trasmissione di pensiero con modalità sue proprie, ma sempre, fondamentalmente, trasmissione di pensiero, siamo anche convinti che ogni forma di espressione artistica debba poter essere spiegata e trasmessa, sia cioé, significante. Anzi, si potrebbe andare oltre sostenendo che la qualità del pensiero espresso attraverso le opere d’arte figurative è diversa e inegualiabile da altre forme espressive; non superiore, ma spesso capace di risultati non ottenibili in altro modo. È per approfondire le conseguenze di queste ultime due affermazioni che siamo arrivati ad esse attraverso un breve excursus storico.

Le conclusioni che traiamo alla fine di questo, in pratica, erano già state enunciate ma vorremmo aggiungerne una: l’arte è stata sempre trasposizione di pensiero dal piano del reale a quello dell’ideale o, in altri termini, da quello dell’uomo a quello dello spirito e comunque dal relativo all’assoluto; piani di pensiero in cui, sempre si superano le dimensioni limitate della natura e della conoscenza che di questa si può raggiungere per arrivare all’Immutabile ed all’Eterno, o almeno, a sfiorarlo, fuori dello spazio e del tempo. Abbiamo, forse, recuperato un poco della vecchia Metafisica, non si dimentichi che i problemi che questa ha posto in questi ultimi secoli non hanno mai avuto una risposta. In altri termini non si vede né una fine né una finalità del pensiero e, con esso, della necessità di comunicarlo anche con l’arte e se questa non è definibile razionalmente non per questo non è razionale, siamo noi a non essere capaci di farlo.

Di certo alla creazione artistica, intesa come conoscenza e pensiero, oltre alla forma si deve unire il concetto di una indispensabile volontà [creatrice], che che tale volontà si senta libera e, visto che la libertà esiste nel momento che si autoproclama, si eviti anche di confonderla con la necessità.

Sappiamo bene che queste conclusioni finali costituiscono la parte più discutibile dell’opera, perché la maggior parte dei soggetti interessati non ama problematizzarsi ma vivere ed agire semplicemente, ma è proprio questa volontà d’azione che valuta positivamente solo se stessa che conferma quanto abbiamo appena detto; chi non fa nulla, non è.

L’arte attualmente è comunque tale solo nei luoghi in cui viene legittimata come tale, anche commercialmente, anche su Internet, e non è un caso che chi detenga il potere cerchi di riassorbire il fenomeno portando questi luoghi dell’arte nel campo economico della redditività nel quale, a guardar bene, già era da secoli.

Abbiamo proposto una storia dell’arte che giungeva a definire l’arte del Novecento come quella in cui l’opera fosse in grado di comunicare le proprie categorie di lettura direttamente al fruitore, senza bisogno di un sistema convenzionale preesistente; tutto questo almeno in teoria.

Se questo è vero, anche in parte, ogni opera d’arte è tale solo se è riconosciuta anche dal singolo o basta che sia definita tale in qualche modo? La collocazione in uno spazio, anche virtuale, a ciò dedicato basta a fare si che l’opera sia tale realmente?

Questa definizione di spazio dedicato ci ricorda la concezione dello spazio nelle rappresentazioni medioevali,ma in quel caso erano i singoli elementi di un racconto unitario ad usufruire ciascuno di un proprio spazio, ora invece è l’intera opera in quanto tale a possederne uno o ad esserne posseduta.

I luoghi dedicati all’arte sono essi stessi fuori del tempo per definizione ed assolvono in parte quella funzione di proiezione oltre se stessi (sia come singoli che come collettività) cui facciamo riferimento per tentare una definizione di arte, di creatività e di esere umano. Una definizione che coinvolge anche molti concetti dell’economia che la confermano, invece di negarla come apparentemente sembrerebbe, perché l’economia di oggi, “postmoderna”, è tutta virtuale e fa riferimento a concetti e principi quasi sacri, almeno per gli economisti, quali il profitto80; ma sono concetti e quindi pensiero.

Ciò spiega la crescente importanza di musei e di esposizioni, luoghi dove l’arte è praticamente imbalsamata, proprio nell’era in cui l’artista ha la massima libetà espressiva e la possibilità di inventare tecniche e stili senza condizionamenti.

In Occidente, più ancora in Europa ed in Italia in particolare, un notevole limite a questa libertà è derivato dalla volontà politica di controllare gli intellettuali da parte di politicanti intellettualmente vecchi, controllo attuato con il monopolio delle reti di distribuzione dei libri e dei media in generale per cui, alla fine, ogni artista può fare quello che vuole, ma nessuno lo sa oltre una ristretta cerchia81. Dobbiamo riconoscere che negli Stati Uniti d’America la situazione è notevolmente migliore, a parte le idee che possono costituire, in qualche modo, un pericolo proprio per la libertà nazionale, ma pretendere di più sarebbe davvero troppo.

Il problema che poniamo alla fine di questo libro è: prevarrà un’arte intimistica, capace di essere solo per il singolo fruitore o un’arte totalmente colletiva, tale per nessun altro motivo che l’essere dichiarata tale, non importa da chi. Non possiamo rispondere con certezza ma notiamo che la collocazione in luoghi dedicati corrisponde a quel desiderio di normalizzazione e di normatività per cui sin dal tempo più antico l’arte è stata considerata tale, esemplificativa.

Normatività, che deriva da un riconoscimento sociale;

espressività, che è propria dell’opera in se, come capacità verso terzi;

creatività, che è una funzione della libertà.

Per ora sono i tre termini su cui possiamo soffermarci nello studio del passato, saranno ancora validi nel futuro?

Oggi la libertà dell'artista è totale e spesso le sue opere d'arte vivono una vita totalmente indipendente da chi le ha create (ci sia lecito usare questo termine tradizionale). Quello che ci chiediamo è se questa libertà non voglia anche una liberazione dal passato.

Precisando il problema potremmo chiederci se la cultura del passato sia parte indispensabile del nostro linguaggio artistico solo se viene mantenuta la coscienza e la conoscenza che viene dal passato stesso e della sequenza storica che porta dal passato al futuro, passando ovviamente per il presente, cioé attraverso di noi. Personalmente siamo convinti che il possesso nella nostra coscienza di questo passato e la problematizzazione conseguente del futuro sia, comunque, una dimensione ulteriore che può aggiungersi al nostro essere generando, come ogni forma di conoscenza, una superiorità di fatto nel possessore, che vive una dimensione temporale complessa ed estesa oltre se stesso.

Dobbiamo ammettere, tuttavia, che nel momento in cui, come oggi, il tempo acquista possibili dimensioni al di sopra ed al di sotto della soglia di percezione individuale, e quindi "sovrumane", l'individuo possa vivere in queste diverse dimensioni, che sono accentuate dalla possibilità di agire analogamente sulla percezione spaziale. In questo caso non si vede perché raggiungere risultati analoghi partendo dal passato, con gran dispendio di fatica nello studio. Questo sovra-sotto dimensionamento della soglia di percezione temporale è permesso ormai usualmente dai mezzi tecnici di ausilio alla comunicazione attuali.

Forse il vero problema è che comunque esiste chi estende il proprio essere e la propria percezione attivamente e chi può farlo solo in dipendenza da altri. C'è chi crea la propria realtà virtuale e la sovrappone come e quando vuole alla realtà vera (o creduta tale) per capacità acquisita e chi può solo dipendere da mezzi tecnici esterni e manipolati, spesso al di fuori della nostra coscienza, da altri.

Alla fine, però, il risultato non cambierebbe ed una cultura individuale non totalmente storicizzata è altrettanto valida di quella tradizionale, anche perché i problemi non mutano se se ne indagano a fondo le origini. Cinico? Certo! Perché no? Di fatto alcuni problemi universali possono benissimo essere affrontati in modo atemporale e, nel campo dell'arte, è spesso l'arte stessa a portarli fuori dal tempo. Così la Venere  di Prassitele, che tanto scandalizzò ai suoi tempi, divenne un possibile modello di bellezza femminile (ed ancora lo è) e su di esso si è svolta la discussione per secoli anzi, per millenni, e ancora continua; in altri termini su di essa si è formato un linguaggio inteso nel senso lato del termine.

Il nostro gusto è, per definizione, atemporale poiché esso è quello che è al momento, così come è stato formato dalla condizione storica in cui si vive. Questa condizione, se è necessario, può essere posseduta e compresa meglio logicamente col mezzo dell'indagine storica, ma può benissimo non essere cosciente di sé e, soprattutto, non è in grado di fornirci indicazioni per un giudizio. Facciamo l'esempio banale che non possiamo più sapere se l'opera di Michelangelo sia bella o brutta, perché sulla sua arte si basa il concetto stesso di bello che noi utilizziamo e, conseguentemente, il nostro gusto del bello; questo gusto, ovviamente, non è solo quello degli storici dell'arte o dei critici o delle persone di cultura in genere, ma di tutti.

Quando de Chirico (citiamo lui per tutti gli esponenti della Metafisica) cercò di esprimere l'uomo interiore, al di là delle apparenze, meta-fisico, non fece altro che sottolineare questa impossibilità di giudizio su di un modo di essere ormai connaturato alla nostra psiche; il che è ovvio, poiché nessuno può essere diverso da come si sia formato e sia stato formato. Ripetiamo: l'acquisizione di una dimensione storica è sempre una possibilità in più che si ha di allargare la propria dimensione esistenziale.

Il fatto principale da dover tenere presente è che si tratta pur sempre di una dimensione virtuale, immediatamente percepibile sotto alcuni aspetti, ma condizionante una volta che divenga posseduta. Un po' come i ricordi ed i sentimenti del passato, che ancora possono darci le stesse sensazioni di una volta perché fanno ormai parte di noi.

Certo, lo studio del passato ed i ricordi artificiali che esso comporta è molto più "virtuale" che effettuale. Ma, possiamo notare, non avevamo detto che quello che oggi si sovrappone alla realtà virtuale è creato con un linguaggio sempre più capace di questo e che ormai estende le sue capacità espressive a tutti i sensi?

Abbiamo parlato di categorie di lettura assimilabili alle categorie della conoscenza per poter interpretare meglio questo linguaggio, adesso è anche il caso di chiarirne meglio il concetto, visto che un linguaggio è una convenzione per comunicare.

In altre parole queste categorie non sono utilizzate individualmente ma tra soggetti comunicanti e la conoscenza è tanto più tale quanto più è trasmissibile. Queste categorie non sono interne ad un individuo isolato ma comuni ad una pluralità, all'interno della quale gestiscono la comunicazione o, se si vuole, il passaggio di conoscenza.

L'innovazione che noi proponiamo e che deriviamo dall'osservazione del mondo dell'arte consiste nel sostenere che l'oggetto della conoscenza trasmette, e porta con se in questo atto di trasmissione, le categorie stesse per farsi conoscere. In altre parole la gestione delle categorie della conoscenza (sempre loro!) diviene dinamica, gestita sia da chi trasmette che da chi riceve la conoscenza dell'oggetto da conoscere, con la perdita di qualunque apriorità noumenica.

Il modo espressivo di queste categorie è nel soggetto trasmittente ma può essere ricevuto diversamente dal soggetto ricevente che, in quanto tale, è per definizione logicamente (e fisicamente, non dimentichiamolo) separato dal primo. Tempo e spazio sono quelli della comunicazione, virtuali o reali che siano o in misura variabile entrambe le cose. Ciò corrisponde alle categorie di lettura dell'opera d'arte portate dall'opera stessa, come già abbiamo ipotizzato in un'altra opera.

È proprio nella variabilità del tempo e dello spazio che consiste la novità. L'opera d'arte può variare la percezione del tempo e dello spazio nel fruitore o, a scelta dell'artista, lasciarli liberi di crearli dentro o fuori di se. Questa possibilità è propria della maggior parte dei media contemporanei ed offre infinite possibilità a chi sappia gestirli. È interessante notare che questo si riflette anche sulla fruizione di opere "consolidate" del passato. Sappiamo che Behetoven era estremamente preciso nella misurazione del tempo nella musica, lasciando, nelle intenzioni, ben poca fantasia agli esecutori, eppure in questo secolo la è stata eseguita sempre più in fretta, sino adimezzarne la durata rispetto alle prime esecuzioni come accadeva a Toscanini.

Siamo sempre più abituati ad utilizzare il tempo in fretta, portando al suo culmine un processo iniziato nel Settecento in Inghilterra, con la Rivoluzione Industriale, quando per la prima volta nella storia dell'Umanità il costo del lavoro superò il costo dei materiali escludendo, naturalmente, l'arte ed i manufatti affini. Il limite era nell'uomo e non nelle macchine ed era l'uomo a dover essere "ottimizzato" e sfruttato. Cinquanta anni fa la cinematografia cinese, che si rivolgeva a masse ancora poco abituate all'immagine come in occidente, realizzava scene di una lunghezza che ogni spettatore europeo o americano avrebbe giudicato eccessiva e noiosa perché lo spettatore non era abituato a seguire avvenimenti virtuali collegandone le varie parti e con salti mentali di tempo e di spazio. Oggi in meno di due generazioni non è più così e le differenze sono nulle ed a tutti indistintamente manca la pazienza di guardare a lungo le immagini anche da parte di chi ha cultura.

Per quanto riguarda la gestione dello spazio, poi, l'affermazione della prospettiva brunelleschiana con punto di vista e punto di fuga centrali è totale, ed ovunque si usino obiettivi fotografici o cinematografici per proiettare immagini su di un piano (pellicola chimica o sensore elettronico) questi obiettivi sono calcolati per dare una prospettiva di questo genere, tanto che le rare eccezioni (i fish-eye per esempio) sembrano "strane".

La parte difficile è dimostrare come sia possibile che una categoria della conoscenza, sia pure in forma critica, sia posseduta da due soggetti conoscenti in modo dinamico, portata dall'uno all'altro da ciò stesso che essi debbano conoscere.

Precisiamo allora che ciò che "porta" la categoria della conoscenza non è tanto l'oggetto da conoscere quanto il linguaggio utilizzato per la comunicazione; anzi, visto che ci siamo, precisiamo che non si tratta tanto del linguaggio usato, che è una convenzione, quanto proprio del mezzo fisico utilizzato. In un'opera d'arte, ad esempio, si può usare un linguaggio totalmente convenzionale quanto uno inventato da zero e tutte le possibili combinazioni in ogni percentuale, passando da forme di comunicazione estremamente facili da ricevere quanto complesse, e non è detto che le più convenzionali siano tra le prime!

In altre parole parole questa dinamicità reciproca delle categorie della conoscenza tra più soggetti varia secondo il variare dei mezzi utilizzati non più "soggettivi" ma obiettivamente mutabili, solo che in questo modo la realtà conosciuta non è certa, ma virtuale! Proprio perché non corrisponde più esattamente a qualcosa di preciso e sicuro. Ovviamente quello che avviene nella comunicazione tra individui è possibile anche nel singolo; chiunque può parlare con lo stesso e formulare i propri pensieri in forma di comunicazione, anche virtuale.

 

 

E come cieca ignoranza ci conduce.

 

 

 

 

NOTEALLATERZAPARTE

 

1 La diffusione degli otto tomi delle Antichità di Ercolano fu lenta ma già nel 1763 il Galiani attesta la mutazione nel gusto artistico parigino. Vedi per tutto il problema: Fiske Kimball, The reception of the art of Herculaneum in France, studies presented to David Moore on his 70 birthday, 1956.

2 In questo caso “Neoclassico” e non “Neoclassicismo”.

3 Diamo qui gli estremi dell’edizione attraverso la quale le idee di Winckelmann si diffusero in Italia presso il grande pubblico nella loro forma definitiva: Winckelmann Ioan Ioachim, Storia delle arti del disegno presso gli antichi di Giovanni Winckelmann tradotta dal tedesco e in questa edizione corretta e annotata dall’abate Carlo Fe, Roma, Pagliarini, 1783–84.

4 Milizia Francesco, Opere complete di Francesco Milizia riguardanti le belle arti, Bologna, Cardinali, 1826-27.

5 Lodoli Carlo, Elementi dell’Architettura Lodoliana o sia l’Arte del Fabbricare con solidità scientifica e con eleganza non capricciosa, Roma, Pagliarini, 1736.

6 Burke Iohn Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee intorno al sublime ed al bello con un discorso sopra il gusto e diverse altre aggiunte, Milano, P. Sonzogno, 1804.

7 Spalletti Giuseppe, Saggio sopra la bellezza, a cura di Giulio Natali in Opuscoli Filosofici, testi e documenti inediti e rari, V, Firenze, Olschki, 1933.

8 Notiamo a questo proposito che il committente fu Luigi XVI, che evidentemente cercava di prevenire i tempi rendendo compatta la Nazione attorno a sé.

9 Se poi sia veramente suo o no che importa? La principessa si lamentava col marito per la facilità con cui questi mostrava la scultura ad estranei, che così la vedevano nuda, dunque si tratta di un vero ritratto.

10 Ma comunque abbastanza “preparato” all’abbraccio, cosa che si vede girando attorno al gruppo ed osservando i particolari… Anche la mano sul seno afferra fortemente, entrando nella carne.

11 Era anche un poco matto, così almeno si ricorda nella famiglia di chi scrive, e come tale certamente era considerato un nobile che invece di vivere di rendita lavorava, sia pure per l’arte.

12 Lanzi Luigi, Storia Pittorica d’Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso alla fine del XVII secolo, Bassano, G. Remondini, 1809.

13 Vico Giovan Battista, Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovani i principi d’altro diritto naturale delle genti, Napoli,1831. Citiamo anche l’opera che diede a Vico il suo giusto posto tra i pensatori europei. Jules Michelet, Principes de la philosophie de l’histoire traduits de la “Scienza nuova” de G.B. Vico et pré cé dès d’un discours sur le système et la vie de l’Auteur par Jules Michelet, Bruxelles, L. Mauman, 1895. Ci sembra oziosa la discussione sull’attribuzione a Vico del merito di aver fondato l’Idealismo prima di Kant, anche se in altre epoche di nazionalismo spinto si tentò di dimostrare che quest’ultimo non conoscesse affatto l’opera di Vico o, al contrario, che Kant sia stato ispirato più di quanto la scarsa fama di Vico farebbe supporre, ci limitiamo a rilevare che all’epoca Napoli era inserita bene nel circuito intellettuale del nascente Illuminismo, con frequenti contatti con Parigi, città con la quale condivideva la dinastia regnante dei Borboni.

14 Baumgarten Alexander Gottlieb, Aesthetica, Frankfurt a.d.Oder 1750

15 Il termine arte abbandona il significato originario che indica una capacità di azione, in genere materiale, per acquistare definitivamente l’attuale; si distinguono così meglio, in Italiano, i termini artigiano ed artista.

16 è stato notato che questo motivo fu trovato per primo da Giuseppe Spalletti, ma sinceramente le opere di questi non ebbero mai la diffusione di quelle di Shelling. Vedi. Spalletti Giuseppe, Saggio sopra la bellezza, a cura di Giulio Natali, in Opuscoli Filosofici, testi e documenti inediti e rari, V, Firenze, Olschki, 1933.

17 Schlegel August Wilhelm, Leçons sur l’histoire et la théorie des beaux arts, Paris, Pichon et Didier, 1830.

18 Rio Alexis François, Leonardo da Vinci e la sua scuola, prima traduzione italiana a cura di G. De Castro, Milano, Brasca, 1856.

19 Ruskin John, Lectures on Art, London, Gallew, 1904.

20 Rumohr von Karl Friedrich, Zur Geschichte und Theorie der Formschneidekunst, Leipzig, 1837.

21 Selvatico Pietro, Gli ammaestramenti delle Arti del Disegno nelle Accademie e nelle Officine, Venezia, 1859.

22 Non ricordiamo perfettamente tutta la storia ma non ci sembra determinante.

23 E anche questo di nascosto.

24 E, a nostro giudizio, anche se apparentemente non razionalizzabili.

25 Ma il Naturalismo letterario francese arrivò in Italia con quindici anni di ritardo, perché gli intellettuali italiani erano tutti presi dal problema dell’unità nazionale, come buona parte dei Tedeschi, del resto.

26 Veristi in Italia.

27 In Italia ancora oggi.

28 Si pensi anche al successivo caso di Ezra Pound.

29 Ricordiamo i più conosciuti: visione lineare e visione pittorica, visione in superficie e visione in profondità, forma chiusa e forma aperta, molteplicità e unità, chiarezza assoluta e chiarezza relativa. Woelfflin H. Rinascimento e Barocco, traduzione italiana a cura di L.Filippi, Firenze, Vallecchi, 1928.

30 Fiedler Konrad, L’attività artistica. Tre saggi di estetica e teoria della “pura visibilità” tradotti da Carlo Sgorlon con prefazione di Carlo L. Ragghianti, Vicenza 1963.

31 Hildebrand von Adolf, Adolf von Hildebrand Briefwechsel mit Conrad Fiedler von Günther Sachsmann mit Sechzehn Tafeln, Dresden s.d.

32 Riegl Alois, Problemi di Stile. Fondamenti di una Storia dell’Arte Ornamentale, Feltrinelli, Milano 1963. Vedi anche Panofsky Erwin, Der Begriff des Kunstwollen. Idea. Contributo alla Storia dell’Estetica, La Nuova Italia, Torino 1952.

33 Wickhoff Franz, Die Wiener Genesis, Vienna 1895.

34 Schmarsow August, Beiträge zur Aesthetik der bildenden Künste, Lipsia 1866.

35 Focillon Henry, La Vie des Formes, Paris 1934.

36 Pater Walter, The Renaissance: Studies in Art and Poetry, Oxford 1877.

37 Fry Roger, Visione e Disegno [1920] a cura di Electra Cannata, Milano 1947.

38 De Sanctis Francesco, Saggi Critici, Napoli 1869.

39 Croce Benedetto, Estetica in nuce, Bari 1946. Si tratta di un saggio molto breve ma ha il pregio di riassumere quello che il grande ma verbosissimo filosofo ha detto per sessanta anni ripetendosi sempre. Si perdonerà l’insistenza su questo filosofo, ma ha pesato come un mattone sulla cultura italiana sino quasi a tre quarti di questo secolo.

40 Si tratta dei particolari, anche poco importanti, che si ripetono permettendo spesso di identificare gli artisti. Vedi: Morelli Giovanni, Studi di Critica d’Arte sulla Pittura Italiana, Napoli 1890: Si tenga presente che nei suoi scritti in lingua tedesca il Morelli si firmò spesso con pseudonimi quali Ivan Lermolieff o Schwarze.

41 Baratono e Calogero in Italia. Vedi: Baratono Antonio, Il mondo sensibile, introduzione all’estetica, Milano 1934, e Calogero Giovanni, Estetica, Semantica, Istorica, Torino 1947.

42 Gentile Giovanni, La filosofia dell’arte, Firenze 1937. Notare che Gentile preferisce dire “filosofia dell’arte” piuttosto che estetica probabilmente per non lasciare dubbi sulla natura dialettica del processo creativo.

43 Grassi Luigi, Costruzione della critica d’arte, Roma 1954. Opera ingiustamente poco frequentata dagli studiosi.

44 Scherziamo, ma è vero, perché ancora una bellezza sensuale è vista inconsciamente come peccaminosa.

45 Bergson Henri-Louis, Essai sur les données immédiates de la conscience, Parigi 1889. Si tratta della tesi per il dottorato nella quale sono impliciti tutti gli sviluppi successivi ; vedi anche L’évolution créatrice, Parigi 1907.

46 Ancora più facile è che si confondano del tutto anche logicamente.

47 Che sin da allora tendeva a diventare seriale.

48 G.C. Argan, op. cit.

49 Concezione della vita condivisa con il Cattolicesimo.

50 In questa dimensione l’uomo può essere altro da se e superiore a se stesso, fuori dallo spazio e dal tempo.

51 Anche dal punto di vista economico.

52 Ideologie artistiche, non politiche, è bene precisarlo.

53 Con la debita eccezione della progettazione architettonica. Anche i disegni animati vanno considerati a parte.

54 Rinunciamo ad una reale definizione della creatività.

55 Questo termine era già di moda da tempo.

56 Il Futurismo è un esempio di movimento culturale che viene spesso confuso con il concetto di scuola pittorica.

57 Risparmiamo al lettore la storia del nome.

58 Dal participio passato del verbo latino abstrahere, tirare via. Termine usato dai filosofi per indicare un concetto estrapolato e separato del tutto dal ragionamento che lo ha originato o, più riduttivamente, casi ipotizzabili ma non possibili realisticamente.

59 Ma Kandinskij non conosceva tutto ciò.

60 Preferiamo i termini filosofici a quelli della psicologia (Ego in questo caso) che ci sembrano riduttivi a scuole specifiche.

61 Le somiglianze con il Surrealismo sono solo apparenti.

62 Sartre era comunista e Jaspers nazista; il tema andrebbe approfondito.

63 Anche l’Idealismo di Gentile si rifà alla dimesione storica dell’uomo, e questo spiega il successo di De Chirico sotto il Fascismo, ma si tratta di una dimensione collettiva e dello Stato, non individuale, tanto è vero che Lenin citò proprio Gentile nella prima edizione dell’Enciclopedia ufficiale dell’Unione Sovietica.

64 Qui Inghilterra e non Gran Bretagna.

65 Sarebbe meglio dire nell’intervallo di un’unica guerra.

66 Come abbiamo visto solo la Metafisica ed alcuni aspetti dell’architettura razionalistica si erano mantenuti adeguatamente aggiornati.

67 Rosemberg Harold,Tenth Street” A geography of Modern Art, in Art News Annual, New York 1959.

68 Vedi l’articolo di Greenberg Clement su Horizon, New York 1945.

69 Certamente non pensarono mai di rifugiarsi nell’Unione Sovietica!

70 Per tutti questi problemi una ottima sintesi si trova in Volpi Marisa, Arte dopo il 1945 – USA, collana diretta da G.C. Argan, Roma 1957.

71 Questa materia che si trasforma davanti a chi guarda ci ricorda le sculture di Bernini, in particolare Apollo e Dafne.

72 Newmann Barnett, Tiger’s Eye, vol. I, New York 1948.

73 Il vero vincitore.

74 Non può fare altro!

75 Fondamentalmente una forma di nominalismo moderna.

76 Bonito Oliva, Avanguardia transavanguardia, Milano 1982.

77 Per tutto il problema vedi Klaus Honnef, L’arte contemporanea, edizione italiana, Bendikt Taschen, Köln, 1990.

78 Op. Cit.

79 Ricordiamo Jaspers.

80 Da distinguere dalla ricchezza.

81 Per questo, per non pagare pedaggi politici, rinunciammo alla nostra cattedra nelle Accademie di Belle Arti.

 

 

 

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FINIS