SECONDA PARTE

Dal Duecento al Settecento

 

Per noi moderni il periodo che va dal XII al XIV secolo è quello che meglio rappresenta tutto il Medioevo. Agli usi, ai costumi, alle architetture ed all’arte di questi secoli, ed in particolar modo al Trecento, ci rifacciamo mentalmente quando immaginiamo l’Europa che precede la scoperta dell’America. Il fatto è facilmente spiegabile vista l’estrema scarsezza di dati e reperti per i secoli precedenti, minore, e di gran lunga, rispetto alla stessa antichità romana. Tutti i tentativi fatti in quest’ultimo mezzo secolo di uscire da moduli interpretativi ereditati e stratificati nella nostra cultura si riferiscono a quest’ultimo secolo; anche perché nel secolo scorso, quando gli studi medioevali ebbero un nuovo impulso sull’onda del Romanticismo, per il mezzo millennio precedente non si avevano dati sicuri e di intere regioni non si conoscevano i destini politici, i governanti e, talora, chi fossero e che lingua parlassero gli abitanti. Tuttora gli errori nelle datazioni oscillano tranquillamente anche di un lustro il che, paragonato a quanto si sa e si può fare per questi ultimi cinque secoli, sembra quasi assurdo.

Comunque sia, il modello di Medioevo che viene attualmente utilizzato si riferisce a usi, modi e costumi del periodo indicato, quando lo studioso non deve più ricorrere all’Archeologia per studiare l’arte ed avere documenti per la Storia politica ed inizia la vera Storia dell’Arte.

 

 

IL GOTICO

 

Alla fine del XII secolo la struttura sociale dell’Europa Occidentale, basata sul Feudalesimo, sembrava tanto solida da sembrare inamovibile ma una nuova attenzione alla cultura da parte dei nobili (che comunque ne avevano bisogno per gestire meglio il potere) come in Provenza e la nascita di una borghesia cominciarono a modificare la consistenza stessa della committenza che riassorbì, in parte, i portati più popolari perché le nuove classi sociali superiori erano più vicine al popolo e spesso ne provenivano come nell’Italia settentrionale.

Nell’ipotesi iniziale avevamo indicato che in questi secoli l’opera d’arte non identifica del tutto i propri contenuti in un unicum con le categorie utilizzate per comprenderla, rimandando a dopo l’esame di qualche esempio concreto ed ulteriori considerazioni, cercheremo subito la base ideologica o di pensiero alla quale potremmo connetterci.

Il primo nome che viene alla mente è quello di San Tommaso d’Aquino che non a caso nacque dalle parti di Montecassino,1 vicino a quel monastero nel quale si era ricostruita una prima scuola di pittura e nel quale non si erano mai interrotti gli studi umanistici. La sua teoria della conoscenza domina la speculazione filosofica fino ad oltre metà del ‘400.

In San Tommaso trova fine la metafisica antica, in lui non c’è problema della conoscenza ma solo teoria della conoscenza2 che parte dall’evidenza, per ciò stesso indimostrabile, dell’essere, essendo il suo sistema incentrato sull’essere e in particolare sull’essere in se, Dio. Poiché ciò richiede un metodo che vada dagli esseri particolari, i primi ad evidenziarsi ad un osservatore, all’essere supremo e non viceversa3 deve necessariamente occuparsi anzitutto della conoscenza del creato in particolare.4

L’arte, così, rimanendo essenzialmente un mezzo didattico può “raccontare” questa realtà particolare, anche fisica e si apre la strada a quella capacità di agire sul reale che nella società comunale arriverà gradatamente alla presa di coscienza (artistica) di Giotto ed ad una piena fiducia nei propri mezzi sia intellettuali che materiali.

La soluzione del problema degli universali in San Tommaso, in cui l’intelletto è giudicato capace di identificare i caratteri comuni alle singole essenze particolari, permise agli spiriti più liberi di accedere ad una conoscenza razionalmente valida attraverso l’osservazione. Mancava una teoria che razionalizzasse questo osservare; questa doveva essere in grado di rappresentare le cose particolari e, insieme, la loro essenza universale. Il realismo moderato di San Tommaso in cui si evidenzia la facoltà dell’intelletto di percepire ciò in cui le cose individuali convengono,5 che è ciò che hanno in comune nella loro essenza, aprì la strada nella direzione giusta. Se si supera il momento della enumerazione e dell’elencazione di ciò che è comune negli oggetti singoli e separati si potrebbe costruire un sistema logico-rappresentativo universale passando da un insieme di singolarità che hanno in comune un qualcosa di universale ad un universale comune in cui queste singolarità siano contenute, più o meno come in un futuro non lontano gli oggetti si collocheranno in una struttura prospettica.

È un passaggio che investe non la posizione dell’osservatore rispetto all’osservato ma il processo logico dell’osservazione, processo che avviene sempre nell’ambito della terminologia aristotelica. Il soggetto, nel percepire le modificazioni che l’oggetto “imprimendosi” fa in lui attraverso i sensi, non solo conosce queste impressioni ma la realtà stessa dell’oggetto, in quanto assieme a questo imprimersi sensibile ne riceve parte dell’essenza universale.6 Anche se San Tommaso non lo dichiara apertamente ne consegue che una forma espressiva come l’arte, concepita apposta per fare impressione sui sensi, per ciò stesso può comunicare e far conoscere.

Prima ancora che nella filosofia inizierà nell’arte la ricerca di una regola universale per la conoscenza. L’inizio sarà la ricerca di una grammatica visiva ma la regola grammaticale diverrà poi metodo di osservazione e, quindi, regola della conoscenza. La ricerca di una norma rappresentativa (la futura prospettiva) sarà la ricerca di una regola per ordinare l’azione dell’intelletto ed a questa azione adeguare la rappresentazione della realtà.

Le nuove forme artistiche, che nell’Italia, anzi, nell’Europa dei Comuni lentamente si formano, nascono in ambienti intellettuali pervasi dal Tomismo; non è e non può essere solo un dato di fatto. L’azione della realtà sui sensi permette di percepirla senza uscire da se; ne consegue che creare una realtà che agisca uniformemente su chiunque sia dotato di intelletto permette la trasmissione della conoscenza. Per effettuare questa costruzione l’intelletto può e deve ordinare la conoscenza secondo regole ben precise. “Dagli studi sull’antichità a quelli sull’uomo” si è detto più volte; è questo il processo dell’Arte e delle Lettere tra il XII ed il XIV secolo. Tutto questo non genera una ricerca di leggi estetiche; l’arte è sempre, fondamentalmente, mimesis naturae ma, come abbiamo visto, la soluzione del problema degli universali di San Tommaso porta a dare consistenza alla capacità di recepire la realtà naturale attraverso i sensi, se non altro perché le formae che ne derivano e con le quali questa realtà è definita solo così possono corrispondere, si scusi la ripetizione, alla realtà effettuale che indicano.

Inoltre, la progressiva crescita delle attività sociali e relazionali dell’uomo occidentale (compresa la guerra), scambi, viaggi, commerci, studi, lavoro, servizi, portano alla necessità di descrivere e comunicare queste relazioni. Informare, raccontare, scrivere sono azioni che richiedono mezzi rappresentativi sempre più potenti ed efficaci sia letterari che visivi, un po’ come le architetture erano divenute  sempre più capaci di esprimere valori sociali e comunitari oltre che utilitaristici; sempre, beninteso, sotto il manto della religione.

Non sembra che in un primo momento la scuola francescana, rappresentata soprattutto da San Bonaventura,7 abbia influito molto sugli sviluppi dell’arte, eppure nel più grande rappresentante del misticismo medioevale si possono trovare i germi di quelle future regole che daranno ordine alla percezione della realtà. Nel rifarsi, attraverso S. Agostino, all’idealismo antico ed a quello platonico in particolare, San Bonaventura identifica nella natura quell’ordine divino che emana da Dio e che ci permette di conoscerne l’opera e, in un momento successivo, chiarisce che questa conoscenza consiste nel riconoscere la proporzionalità che quest’ordine genera. Nel ritrovare attraverso i cinque sensi la similitudine tra la forma e questa proporzionalità si trova il diletto, il piacere del bello.8

Questa “proporzione d’uguaglianza”, puramente spirituale, è appena conoscibile con le tre operazioni dell’apprendimento, del diletto e del giudizio. Quest’ultimo consiste nel riconoscere che la fonte di ogni bellezza è in Dio ma quello che conta è che, per la prima volta, si ponga il problema della formulazione di un giudizio estetico; all’uomo viene riconosciuta la possibilità di raffrontare il bello con la sua origine divina; il giudizio nasce dalla maggiore o minore vicinanza a questa dell’oggetto.9 Anche ciò è un indizio del distaccarsi tra categorie di lettura dell’opera d’arte e contenuti della stessa. In poche pagine di un piccolo libro, l’Itinerarium mentis in Deum, sono già in nuce non solo la prospettiva dell’Umanesimo ma anche i successivi sviluppi neoplatonici della metà del XIV secolo. L’opera di San Bonaventura termina descrivendo l’estasi spirituale in un travolgersi mistico dell’animo e dei sensi già avvicinati a Dio dall’arte: ma non è forse questo misticismo ciò che ancora oggi ci affascina della grande arte di quel secolo e del successivo, il Gotico?

 

Nel sistemare tutta la filosofia medioevale viene data, o meglio, ridata all’uomo la sua autonomia nei confronti del reale da San Tommaso; San Bonaventura riconosce a questo reale caratteri specifici di ordine e proporzionalità in cui si trova la bellezza; i germi dell’umanesimo sono ormai posti con decisione. Riconoscere il reale e le sue regole è l’operazione con cui si può leggere il bello nella natura e nelle opere dell’uomo ma anche giudicarlo dalla sua corrispondenza ad un ordine proporzionale ideale e divino.

Abbiamo già visto che la ricerca di questa proporzionalità era stata alla base dell’architettura romanica, in quella gotica il problema si accentua per il carattere stesso delle costruzioni, nelle quali ogni elemento si regge e si confronta in un sistema che diviene comprensibile solo in un perfetto equilibrio.

Il Gotico vero e proprio, infatti, è tensione lineare e spaziale che non viene generata da una visione totale dello spazio (né vi arriva). È, d’altro canto, espressione di una coscienza collettiva che non trova una visione totale del mondo nel tempo e non compie mai il passagio dal senso di ciò che è in comune ai singoli all’universale ma deve e vuole continuamente trascendere direttamente da se verso l’atemporale e l’eterno: Dio. È una caratteristica dell’arte medioevale l’essere espressione di una volontà collettiva e, contemporaneamente, essere anche una realizzazione collettiva diretta, senza mediatori: in architettura, nei secoli immediatamente precedenti Giotto e per un buon altro secolo almeno le grandi cattedrali prima romaniche e poi gotiche ne sono la dimostrazione più evidente.10

L’architettura della cattedrale risponde a precise istanze culturali collettive, ma il sistema logico che la genera non si identifica con la religione anche se la esprime ed i “contenuti logici” portati sono parzialmente estrapolati fuori dalla struttura architettonica, nelle vetrate che raccontano i principi su cui si basa la società o nella decorazione scultorea, sempre più ricca col tempo sino ad arrivare ad essere preponderante. Queste grandi finestre generano una luce forte e diretta anche se ben regolata dal colore, essa permea tutto e ingloba il fruitore.11 Qui la luce si vive; nella basilica paleocristiana, dove era indiretta e riflessa dai mosaici, non importava che la gente ne capisse i significati simbolici.

Di queste grandi cattedrali, orgoglio anzitutto della terra di Francia, è stato detto tutto il possibile sia riguardo alle tecniche costruttive che ai significati religiosi ed all’effetto stupefacente che facevano e fanno sui fedeli, effetto che si rinnova sempre, anche dopo la prima volta, perché non può esserci adattamento a ciò che è al di sopra dei limiti dell’uomo. La tensione al divino si autodimostra dall’elevazione stessa dell’architettura, forzata sino al limite della paura nel fruitore; eppure in questa stessa arditezza tecnica è da cercare il germe dell’opera futura. Ci spieghiamo meglio: queste grandiose costruzioni esprimono da se, per evidenza, il sentimento religioso che le ha generate e da questo punto di vista corrispondono ancora in parte all’arte dell’Alto Medioevo. In esse il contenuto espresso dall’opera d’arte è anche la categoria principale che le spiegava e ne permetteva la lettura.

Questo naturalmente se ci si limita ai significati propri dell’opera, quelli religiosi, voluti dal committente ecclesiastico e recepiti dai credenti, ma quest’architettura ne esprime altri di significati, da cercare in sistemi di valori diversi, paralleli e connessi alla religione, ma diversi. Il modo stesso di procedere dei lavori, anzi, il modo stesso di concepire questo procedere, ne sono la testimonianza; non può essere senza significato la sfida che i costruttori portano alle leggi della natura, spingendosi sino ai limiti strutturali dei materiali e delle fondazioni.

Il vero perché di queste enormi costruzioni sono esse stesse in quanto espressione vitale della capacità costruttiva dell’uomo; la religione, la società, il prestigio ne sono le giustificazioni originarie ma non le cause. L’idea di progresso, che la concorrenza tra uomini, tra botteghe, tra banchi di cambio, tra città e paesi genera con il continuo crescere dei commerci, implica già in se quella di una crescita, di un avanzare sino ai limiti del possibile e ci sembra che nelle grandi cattedrali gotiche la ricerca del limite sia quanto meno comprimaria alla fede religiosa. In fondo la reale differenza tra lo “spazio” romanico e quello gotico è proprio quì: nel primo la ricerca di una proporzione precisa non permette alcuna espansione ulteriore quando si sia raggiunto l’equilibrio complessivo delle parti e dei volumi; nel secondo si può proseguire all’infinito sia in altezza che in larghezza e profondità, aggiungendo arco ad arco e contrafforte a contrafforte.

Tecnicamente tra architettura romanica e gotica c’è un salto qualitativo fortissimo e l’unico limite di quest’ultima è di carattere psicologico perché in essa tanto si sperde l’individuo quanto si ritrova la comunità. Per questo forse è in Italia, dove il senso antico della misura non si era mai perso che l’uomo tornerà, tra non molto, ad essere egli stesso misura di tutte le cose; in Italia una vera spazialità gotica non si diffuse mai e la tradizione romanica rimase preponderante. Tuttavia, proprio per questo legame con la staticità dell’antico, sarà dal Gotico che si originerà il bisogno di una ricerca strutturale più avanzata nel Quattrocento, sia pure unita alle nuove idee umaniste; il Gotico delle grandi cattedrali è anche il primo esempio di una concezione dinamica dell’architettura e ci ripromettiamo di riprendere questi concetti nell’esaminare la linea di sviluppo che va da Brunelleschi a Michelangelo per arrivare al Barocco ed al Rococò.

Ciò non vuol dire che in Italia non ci sia Gotico, anzi, come linguaggio formale internazionale questo stile si impose portato, come è noto, da ordini religiosi che costituzionalmente erano internazionali, in particolare i Cistercensi, i Francescani ed i Domenicani; già in Francia la prima vera, grande, cattedrale gotica era stata voluta da monaci, a St. Dénis. Questa evoluzione in Italia12 trovò terreno per uno sviluppo rapidissimo nel XIII e nel XIV secolo anche per i grandi mezzi economici disponibili13 e si estese a tutti i campi dell’arte.

Forse è questa grande disponibilità economica la vera origine dell’Umanesimo piuttosto che un nuovo sentimento di quelle capacità creative dell’uomo che erano esaltate più nel Gotico transalpino che nel Romanico italiano. Costruttori che potevano arrivare a creazioni come la Cattedrale di Chartres o Notre Dame de Paris che motivo avrebbero avuto di cimentarsi in qualcosa di più ardito? Certo, la struttura economica più avanzata implicava anche un’adeguata struttura sociale che influiva non tanto sulla forma dell’arte e sullo stile degli artisti quanto sulle esigenze della committenza.

Dal Duecento al Trecento l’arte europea ha come forma artistica di riferimento lo stile gotico e che il committente sia un nobile, un abate, un ricco borghese italiano o francese quello che importa è che l’opera commissionata deve comunicare qualcosa a tutti gli altri e trovare un linguaggio sempre più adeguato. Una delle prime risposte a questa esigenza fu data, in Italia, da Giotto in Pittura e da Dante Alighieri in Poesia. La necessità di raccontare con precisione e spiegare situazioni reali, nata anzitutto in ambito mercantile, portò da un lato ad una nuova forma letteraria, la novella, dall’altro alla ricerca di mezzi espressivi capaci di portare nell’immagine i sentimenti dell’uomo. Proprio questi mezzi cominciò a cercare Cimabue, forse ispirandosi alle sacre rappresentazioni popolari, e rese possibili i futuri sviluppi che diede all’arte il suo grande allievo. Siamo propensi a dare una lettura per così dire “sentimentale” anche di Duccio di Buoninsegna e forse i due maestri, integrandosi, possono abbracciare l’intero arco dell’animo umano.

La stessa intenzione che aveva ispirato i maestri delle vetrate nelle grandi cattedrali d’oltralpe diede un senso anche alla riscoperta dell’antico nella bottega dei Pisano dove, sia quantitativamente che qualitativamente, la decorazione scultorea aveva fatto progressi fortissimi andando ben oltre una funzione esclusivamente accessoria dell’architettura. La volontà di riportare e di riferirsi a dei fatti non si limitava più alla religione, come nei pulpiti delle chiese illustrati da bassorilievi o nei portali delle stesse, ma si estendeva alla vita di tutti i giorni, come nelle fontane comunali. Queste, primo importante servizio pubblico della città medioevale, divenirono in Italia quasi il simbolo dell’ordinato vivere cittadino sostituendo in ciò le grandi vetrate del Nord. Si possono prendere come esempi il pulpito del Duomo di Pisa di Nicolò Pisano, i rilievi di quello di Orvieto del Maitani o la Fontana Maggiore di Perugia di Giovanni Pisano.14 Sono sempre sculture di carattere didascalico ed esemplificativo, ma il discorso nella forma è narrativo.

Pure, da un certo punto di vista, non sapremmo dire se sia stato più importante per l’arte il recupero formale delle radici classiche dell’arte bizantina da parte di Nicola Pisano o quel processo che introdusse, lentamente, il recupero di quello che alla forma mancava, l’uomo. Ad esempio, da Coppo di Marcovaldo a Giunta Pisano e a Cimabue nei Crocefissi si concretizza e si umanizza sempre più la divinità attraverso quello che è il fattore comune più facilmente riscontrabile in tutti gli esseri umani, il dolore. La stessa diffusione che nel Duecento ebbe la diffusione del Crocefisso, sconosciuta all’antichità, indica un sentimento nuovo nel rapporto tra l’Umanità e il suo Creatore. Dio rimane sempre trascendente e se non può essere raggiunto dall’uomo questi, a sua volta, può comunque instaurare un rapporto di tipo sentimentale compartecipando al dolore, anche fisico, di Cristo. Naturalmente anche altri sentimenti di base possono essere espressi, come l’amore materno e citiamo, ad esempio, le Madonne con Bambino di Duccio di Buonisegna.

La ricerca dell’uomo, della sua espressività, del suo essere reale o in altre parole, della sua personalità raggiunse già in Cimabue risultati eccellenti; basti pensare ai volti, purtroppo perduti, degli evangelisti nella volta della Basilica Superiore di Assisi o a quelli della sottostante Crocefissione il cui schema assume tratti estremamente drammatici anche nei gesti. La struttura dell’immagine, e nel caso di quest’ultima opera citata è la sola cosa che abbiamo, non corrisponde più al contenuto ideologico o religioso ma alla necessità di far compartecipare chi guarda alla scena, assegnando così all’immagine una funzione di medium in senso moderno. Forse non esageriamo affermando che la vera rivoluzione dell’arte è in Cimabue, almeno in nuce, anche se fu nel suo grande allievo, Giotto, che si volle vedere il punto di rottura col passato e, dobbiamo ammettere, con buone ragioni.

Contemporaneamente la cultura provenzale influenzava e stimolava la poesia volgare italiana. La Scuola Siciliana prima e quella fiorentina del “Dolce Stil Novo” poi diedero inizio ad una fase altamente creativa in cui le arti figurative, la poesia e la musica avranno uno sviluppo innovativo integrato e contemporaneo.

La teoria della conoscenza di San Tommaso, con l’impressione che nell’intelletto fa la realtà, corrisponde nel Dolce Stil Novo al trasmigrare degli spiritelli dalla persona che genera amore, l’amato, nell’animo dell’amante dove vanno a rifugiarsi. Nell’ambito della razionalità agiscono le facoltà dell’intelletto per conoscere l’oggetto, nell’ambito della poesia sono altre facoltà dell’animo, preparate da un’educazione “gentile”; per essere precisi più che di facoltà di dovrebbe parlare di un modo di essere di tutta la persona cui doveva corrispondere un adeguato stile di vita, la gentilezza.15

La vera novità e il vero progresso della concezione artistica che Dante sviluppa nel corso della Commedìa sono il superamento della concezione puramente tecnico-manuale della pittura, omologata dal poeta alle arti della parola, come già dimostra la sua iniziale educazione al disegno. Un’evoluzione che arriverà a nobilitare i pittori quanto i poeti. Dal volgare del poeta nascerà il volgare italiano e tutta la poesia europea prenderà modi e temi; noi sosteniamo che, fondamentalmente, non sia stato Giotto ad ispirarsi a Dante ma l’inverso, specie dopo la realizzazione del ciclo della Cappella degli Scrovegni.16 Come prova portiamo alcuni dati storici relativi ai movimenti del poeta, che era vicino Padova mentre Giotto finiva la sua opera ed il fatto che da quel momento in poi le citazioni ed i riferimenti alla pittura divengono, nella Commedìa, sempre più frequenti.

Si avrebbero così la nascita contemporanea di due dialetti artistici, uno spirituale ed uno realistico derivanti rispettivamente da portati francesi o italiani ma entrambi appartenenti ad un unico linguaggio, il Gotico.

Lasciamo da parte la spinosa questione dell’identificazione delle prime opere di Giotto e dell’esatta cronologia dei suoi spostamenti ma ci siano consentite almeno due osservazioni: la prima è che le opere giovanili di un artista, anche Giotto quindi, non erano mai firmate perché il responsabile dei contratti in una bottega era sempre il maestro, che suddivideva poi il lavoro tra i suoi aiutanti; la seconda è la costatazione che quando Giotto gestì egli stesso, quale magister, una bottega e ricevette grossi incarichi, a sua volta certamente suddivise il lavoro. Ci sembra ovvio, perciò, che nel ciclo di affreschi rappresentante la Vita di San Francesco ad Assisi egli abbia assunto, vista anche la mole dell’opera, artisti provenienti dalle migliori botteghe, compresi certamente quegli allievi del Cavallini la cui mano si crede di riscontrare, ma senza per questo dover credere che l’autore di tutto il ciclo possa essere il Cavallini in persona, perché è la concezione stessa della funzione della pittura che è diversa tra i due e, con essa, dello spazio pittorico e della sua struttura.

Di fatto, quando Giotto realizzò il ciclo con la Vita di Cristo a Padova la sua concezione spaziale era talmente lontana da quella dei pittori della generazione precedente da giustificare pienamente i giudizi dei contemporanei che ce lo presentano come colui che superò di gran lunga tutti i suoi predecessori. Questi giudizi non insistono solo sull’innovazione tecnica e compositiva introdotta da Giotto ma soprattutto sulla qualità delle sue opere, è questa che viene presa in considerazione per dare una valutazione sull’artista.

Tutto il fermento letterario, musicale, artistico che caratterizza l’Italia a cavallo tra il Duecento ed il Trecento deve essere visto in funzione di una ricerca volta anzitutto a migliorare continuamente la qualità artistica. La fortuna della nuova maniera fu dovuta in buona parte a questa elevatissima qualità così come avvenne per Dante. Probabilmente i cambiamenti sarebbero stati accettati con molta maggiore cautela se i livelli artistici fossero stati inferiori.

Tutto il discorso è connesso a quello, più rilevante per la storia dell’arte e della comunicazione per immagine, della pretesa rivoluzionarietà della sua pittura. Come sentirono i contemporanei la sua maniera?17 Al di la di giudizi di valore (qualitativo) sempre favorevoli, lo videro come un innovatore, un rivoluzionario o solo come uno più bravo, anche se molto, degli altri?

A posteriori qualunque interpretazione è sostenibile con una certa buona dose di ragione, ma le cose sono sempre state diverse per gli occhi di chi le abbia viste in fieri  rispetto a chi le abbia ricevute dopo, già “impacchettate” con una serie di giudizi e di valutazioni aggiunte, esatte magari, ma aggiunte.

L’interpretazione stessa dei fatti storici è, di per se, la prima forma di pensiero ideologico. Abbiamo già visto che Dante ha un’idea abbastanza esatta del valore di Giotto18 e lo accomunò al concetto di un rinnovamento generale delle arti, di cui egli stesso si vedeva come protagonista e la fama di Dante, sappiamo, assunse dimensioni mondiali mentre erano ancora vivi sia lui che Giotto, e la mantiene tuttora.

Il concetto di rivoluzione a quel tempo era sconosciuto, tanto che senza cercare una presunta “reazione” antigiottesca Franco Sacchetti fa dire a Taddeo Gaddi19 che mancavano artisti come Giotto, Cimabue o Buffalmacco, chiunque fosse quest’ultimo, ma si tratta sempre, come si può vedere, di giudizi di valore qualitativo che non riguardano la nuova maniera.

Vediamo le parole del Sacchetti:

 

“... e fra l’altre questione, mosse uno che avea nome l’Orcagna, il quale fu capo maestro dell’oratorio nobile di Nostra Donna d’Orto San Michele: - qual fu il maggior maestro di dipignere che altro, che sia stato da Giotto in fuori? - . Chi dicea, che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo, e chi Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella brigata, disse: - per certo assai valentri dipintori sono stati e che hanno dipinto per forma ch’è impossibile a natura umana poterlo fare; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dì .”

 

Questa discussione è stata presa ad esempio dell’andamento alterno delle fortune di Giotto nel XIV secolo,20 quando la sua superiorità sarebbe stata accettata solo formalmente (ma comunque lo era) anche da quei pittori, come l’Orcagna, che in qualche modo esprimevano una sorta di reazione all’eccessivo materialismo del grande maestro. Osserviamo per inciso che il Sacchetti si preoccupa di spiegare chi fosse l’Orcagna ma non lo fa per Taddeo Gaddi, che con Giotto aveva lavorato, come se la fama di questi non lo rendesse necessario. Crediamo che in questo caso si sia preso come un rifiuto della pittura di Giotto il fatto che sia i contemporanei sia la generazione immediatamente seguente non fossero in grado di rendere espliciti i motivi della sua superiorità; eppure tutte le fonti indicano chiaramente che questa era indiscussa, probabilmente perché evidente anche se non definibile. Ma come lo avrebbero mai fatto se non avevano neppure una teoria della prospettiva? Né potevano, visto che questa fu la conseguenza, sia logica che temporale, e non la causa della “rivoluzione” giottesca. Ma poi, non è forse una caratteristica dell’arte poter comunicare anche se chi riceve la comunicazione non analizza il come ciò avvenga?21 Sinceramente non sappiamo quanto si possa dar fede ad un colloquio che il Sacchetti riporta dopo il 1392 e che avrebbe dovuto aver luogo quasi quaranta anni prima, malgrado le proteste in contrario fatte nel proemio alle Trecentonovelle, ma è certo che pochi anni dopo il Cennini ignorerà del tutto queste posizioni.

Precedentemente, circa nel 1374, un commentatore della Commedìa vissuto a lungo a Firenze, Benvenuto da Imola, aveva ripreso il concetto stesso di Dante che la fama sussiste sino a quando qualcuno non la oscuri proprio a proposito di Giotto commentando le due celebri terzine:

 

   Oh vana gloria de l’umane posse!

com poco verde in su la cima dùra,

se non è giunta da l’etadi grosse!

    Credette Cimabue nella pittura

tener lo campo, e or ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura. ”

 

Scrive in proposito Benvenuto da Imola:

 

Giottus adhuc tenet campum, quia nondum venit alius eo subtilior, cum tamen fecerit aliquando magnos errores in picturis suis, ut audivi a magnis ingeniis. ”22

 

Ma la stessa ammissione di incompetenza che il Commentatore fa appellandosi all’autorità di altri non ben precisati fa piuttosto supporre che prevalesse la volontà di dimostrare la validità dell’assunto dantesco piuttosto che il desiderio di trovare difetti in Giotto. Poiché nessuno ha mai pensato che Giotto fosse perfetto non ci sembra che si possa assumere il passo come prova di una reazione antigiottesca quanto del progresso che, rispetto a Giotto stesso, la pittura aveva fatto in cinquant’anni dopo la sua morte.

Anche il Petrarca, apparentemente così lontano da ogni forma di realismo eccessivo, loda Giotto nel suo testamento del 1370 nel quale è citata una Madonna “cuius pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent.”23 E neanche noi ci meravigliamo che Petrarca badasse piuttosto alla bellezza del dipinto che ad eventuali errori, ma il fatto che gli ignoranti d’arte non si meravigliassero dimostra anche che certe conquiste tecnico-espressive fossero ormai assodate. Da questo punto di vista le correnti spiritualiste (non in senso religioso ma solo artistico) che confluirono nella scuola senese di Simone Martini erano in grado di rappresentazioni realistiche e prospettiche di gran lunga migliori. La frase riprende quella di Quintiliano già citata “Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem”24, e ci ricorda che Petrarca stesso aveva ritrovato, venti anni prima, parte delle Institutiones Oratoriae; ritrovamento consapevole che è forse il primo atto cosciente dell’Umanesimo. Anche se Petrarca parla di ignoranti in senso tecnico relativo alla pittura e Quintiliano in senso generico si converrà che in entrambi i casi è sotteso un vero senso di superiorità nei confronti di costoro. È questa superiorità culturale, la superiorità dell’ingegno (più in Quintiliano) e dello spirito (più in Petrarca) sulla parte istintiva dell’uomo che viene affermata e che portò a correggere in tal senso l’eccessivo realismo dei due capostipiti dell’arte moderna, Dante e Giotto, nella seconda metà del Trecento.

In Giotto la concezione dello spazio non riesce ancora a dominare l’orizzonte umano e somiglia, piuttosto, agli spazi “deputati” delle sacre rappresentazioni: Cimabue si ispirò agli attori e Giotto al palcoscenico ma la rappresentazione per tutto il Trecento rimase tale senza mai assumere il ruolo di riproduzione.

Una delle cose che maggiormente contraddistingue l’opera di Giotto è il suo continuo evolversi e modificarsi nel tempo. Non intendiamo il naturale maturarsi di ogni vero artista con l’età, che porta ad un continuo affinarsi della sensibilità espressiva con la pratica stessa dell’arte, ma un cambiare del senso stesso della propria arte, intesa non solo come sensibilità e capacità inerente a se stessa ma anche come ricerca dell’essenza di se e dei mezzi espressivi più adatti ad esprimerla.

Ricerca di nuovi mezzi espressivi per nuovi contenuti, sembra quasi un automatismo concettuale, ma allora non era certo una cosa scontata al contrario, anzi, del tutto rivoluzionaria,25 tanto che con Giotto, per la prima volta, possiamo parlare di diversi momenti espressivi della sua opera o, come fa qualcuno, di diversi stili.26

Questa evoluzione è una vera ricerca, cosciente dei propri mezzi e dei propri fini, e la conferma viene dallo studio stesso delle opere giottesche. Ad Assisi, nell’episodio in cui San Francesco si spoglia delle vesti paterne, lo spazio è costruito in parte dalle masse delle figure, come già in Cimabue, ed in parte dalle architetture dello sfondo, che sono viste indipendentemente a destra ed a sinistra, dove la scala mal si raccorda all’edificio, forse perché è stata concepita separatamente da questo, cosa assai probabile perché l’organizzazione del lavoro lo suddivideva in “blocchi” indipendenti tra i vari artisti.27

Ben diversa è la gestione dello spazio nella scena della Conferma della Regola, in cui i partecipanti sono sempre divisi in due gruppi, ma l’unitarietà dello spazio è cercata e raggiunta con chiarezza e il valore delle masse è ridimensionato all’interno di questa spazialità. Per tutto il ciclo di Assisi Giotto e i suoi cercano sempre nuove soluzioni mano a mano che si presentano loro nuovi problemi, senza contentarsi mai dei vecchi moduli rappresentativi. I risultati non sono omogenei, nè lo saranno a Padova dove pure lo stile del pittore raggiunge vette espressive raffinatissime ma non superiori, per potenza e capacità di comunicare, a quelle di Assisi. Questa disomogeneità è tuttavia solamente nei risultati ottenuti, non nella direzione in cui andava svolta la ricerca di nuovi spazi, che era chiarissima.

È nel modo di concepire l’azione artistica che è la vera rivoluzione più che nel modo stesso di operare e nei risultati conseguiti. Una tradizione espressiva romanica più forte, che aveva rallentato l’acquisizione dei moduli gotici d’oltralpe favorì la diffusione della scuola giottesca in tutta Italia, con particolare riguardo a Rimini e si può anche affermare che il Gotico italiano, senese in particolare, fino ad oltre metà del ‘400 assorbì da Giotto tutto quanto poteva tranne, forse, gli aspetti più “borghesi”28 della concezione di vita che questi esprimeva.

Giotto si orienta nel corso della propria vita in senso spirituale come Dante nella Commedìa nel Paradisoe questa direzione nell’evolversi della poesia italiana era già in nuce nei portati della pittura stessa di Giotto a Padova, dove la fisicità dei corpi, così faticosamente raggiunta ad Assisi con il continuo perfezionarsi del modellato, si spiritualizza senza ridursi o scomparire con l’affinarsi del chiaroscuro in nuovi rapporti cromatici volti più alla qualità degli accostamenti che alla quantità della luce. È una vera pittura tonale, logica ed implicita in un pittore che va comunque inserito nel grande ambito del gotico, dove la luce era la vera padrona delle architetture.

Quest’ultima affermazione non contraddice quanto abbiamo appena detto circa le origini romaniche degli spazi giotteschi perché è proprio dalla fusione di spazio romanico e luce gotica che nasce tecnicamente la cosiddetta rivoluzione giottesca; senza una luce adeguata non può definirsi, in pittura, alcuno spazio nè, tantomeno, gli oggetti in esso contenuti. Giotto favorì l’introduzione profonda dei portati gotici in un Italia rimasta, forse, un poco indietro, adeguando la concezione romanica dello spazio a quella gotica della luce in una sintesi nuova; il gotico era ormai il linguaggio internazionale e questa operazione acquisì subito valore internazionale, anche se la sua diffusione all’estero fu a sua volta rallentata dalla indubbia forza (e valore artistico) delle scuole d’oltralpe.

Gli spazi a Padova sono più “puri”, anche se spesso ridotti per essere più precisi, se possibile, nella loro definizione; si guardi come esempio l’immagine della donna che fila nel riquadro dell’Annunciazione! Evidentemente la ricerca di un nuovo modo di vedere le cose ha portato Giotto a ritenere indispensabile una rappresentazione spaziale, qualunque sia il soggetto rappresentato. Le nuove regole rappresentative, conosciute sia dal pittore che dal fruitore, sono ormai indispensabili.

Questa purezza dello spazio in parte corrispondeva a quella maggiore semplicità delle chiese francescane che, in qualche modo, prelude ai futuri sviluppi di fine Trecento con la sua unità e compattezza, ma la necessità di conoscere queste nuove regole rappresentative rendeva forse più difficile l’acquisizione dei significati dell’immagine nel momento stesso in cui sembrava aumentarne il realismo. Per spiegare meglio questa apparente contraddizione facciamo un esempio pratico: per secoli il personaggio più importante, in una pittura o in un mosaico, era stato collocato quasi sempre al centro e, facilmente, in una dimensione fisica maggiore, d’ora in poi, dal ciclo di Assisi in poi, ciò non è sempre vero e necessario e per poter comprendere il significato di un affresco servono una serie di dati alla luce dei quali, poi, tutto si chiarifica con maggior precisione che nel passato. Questo perché i criteri per una lettura adeguata dell’immagine non sono più coincidenti con i suoi contenuti.

Per poter fare il pittore ci vuole più studio teorico, più cultura e, sempre, un’applicazione costante nella pratica. I risultati finali divenivano qualitativamente più raffinati. Questa maggiore necessità di studio e di preparazione,29 del resto, era stata una costante nello sviluppo della società europea a partire dal XII secolo e fu favorita in Italia dalla particolare posizione al centro del Mediterraneo che ne faceva il punto ideale per l’interscambio tra culture diverse oltre che, naturalmente, un paese ricco abbastanza da poter finanziare una consistente produzione artistica.

In campo letterario fu Francesco Petrarca a sintetizzare  le nuove esigenze umanistiche, in pittura Simone Martini e, come per Dante e Giotto, anche di Petrarca e Simone si è voluta formare una coppia simbolica. Certamente, è un dato storico, erano amici ma ci sembra che più che nel modo di fare arte si somigliassero nella concezione elevata e spiritualmente superiore di questa. Entrambi ebbero poi bisogno di rifarsi ai due grandi maestri che li avevano rispettivamente preceduti soprattutto nell’uso di quei mezzi espressivi, sia letterari che pittorici, da questi messi a punto, indipendentemente dalle false affermazioni di Petrarca30 o dal fatto che Simone spesso sembri non avere bisogno della prospettiva.

Quando Simone Martini vuole maggiormente idealizzare la rappresentazione e insieme diminuirne il realismo, le immagini si appiattiscono e i colori si attenuano, altrimenti mostra più volte di essere perfettamente in grado di dominare una problematica prospettica meglio, concettualmente, e con più precisione di quanto potesse fare Giotto e non solo lui, ma tutti i pittori della sua generazione. Questo nuovo naturalismo viene così accentuato o attenuato secondo le esigenze e gli intendimenti o, meglio, secondo cosa si intenda per arte. È una concezione rappresentativa che dà luogo a rappresentazioni spaziali sempre più convenzionali, aderenti alle proprie stesse regole, come gli spazi teatrali che ne erano forse all’origine, rimane da vedere se fare arte sia da cercare nell’aderenza a queste convenzioni o meno; di certo per poterla capire e per poter decidere se aderire o meno bisogna conoscerla.

Pensiamo al celebre ritratto a fresco di Guidoriccio da Fogliano nel Palazzo Pubblico di Siena di Simone Martini come se fosse contro uno sfondo teatrale piuttosto che ideale in senso stretto, ecco che subito ci possiamo spiegare la luce non naturale, come in teatro e la prospettiva volutamente finta dei castelli sullo sfondo. Guidoriccio già rappresenta un tipo di uomo che decide del proprio destino verso il quale si dirige con decisione, da vero conquistatore.

Ma Simone stesso, assieme a Lippo Memmi, nell’Annunciazione degli Uffizi a Firenze rappresenta uno spazio ideale, spirituale e atemporale mentre nella pala del Beato Agostino Novello, in Sant’Agostino di Siena, la violenza degli episodi è realisticamente rappresentata nello spazio e nel tempo, sia pure lo spazio ed il tempo propri di un racconto esemplificativo. Lo spazio è il tramite indispensabile al tempo, dentro il quale si può entrare col racconto (la Pala) o uscire come nella famosa Annunciazione.

La cornice gotica, in quest’ultima opera, è una finestra che si apre sulla scena rappresentata ed al di la della quale si trova uno spazio prospettico costruito con le mattonelle del pavimento. I due santi del polittico rimangono chiusi nei loro spazi dedicati a lato, ma l’angelo e la Vergine no: il primo si colloca verso il centro, dove teoricamente dovrebbe stare una colonnina, indicando chiaramente di essere un intruso mentre la Vergine è situata in uno spazio delimitato più regolare ma ne vorrebbe apparentemente evadere; tuttavia ciò non è possibile perché non si può sfuggire al proprio destino preordinato da Dio nel momento in cui ci si rivela. Notiamo anche la perfetta corrispondenza formale tra la rosa degli angeli in alto, il giglio al centro e la cornice. La dispositio di Quintiliano, l’ordinamento delle parti, è perfetta  in relazione ai significati e noi, oggi, parleremmo di una struttura dell’immagine totalmente rispondente ai concetti da esprimere. In realtà il gesto della Vergine è più di umiltà che di paura, ma il significato non cambia e, sempre, ci si deve sottomettere alla Volontà divina.

Esemplificativo è il Polittico Orsini, conservato ad Anversa, dove la drammaticità delle scene con la passione di Cristo sembra quasi contrastare con la personalità spirituale del pittore (eppure è lo stesso) della Maestà del Palazzo Pubblico di Siena. La prospettiva è debole (o incerta?) ma i personaggi sono concreti nel loro dolore, come concreto è nell’Annunciazione l’atteggiamento “umano” della Vergine che si ritrae all’annuncio, presaga delle future sofferenze. Ritroveremo la veste rossa e i capelli biondi nella Maddalena in Masaccio e il ritrarsi della Madonna in Donatello, proprio negli artisti della “rivoluzione” umanistica..

Anche gli affreschi dei Lorenzetti detti del Buono e del Cattivo Governo, sempre nel Palazzo Pubblico di Siena, mostrano la volontà di trasferire la vita reale del comune in uno spazio ed un tempo esemplificativi come in Simone e questo è ciò che fa di tutti questi pittori un’unica scuola assieme alle concordanze stilistiche nell’uso del colore e nell’andamento della linea. Dopo gli ultimi restauri queste concordanze sono divenute evidenti; l’eliminazione di molti strati di colore successivi a quelli originali ha riportato alla luce la primitiva dolcezza del colore diminuendo fortemente quella impressione di eccessivo realismo che tanto aveva fatto discutere la critica.

Diversi sono i sentimenti rappresentati ma relativi sempre al tranquillo svolgersi della vita di un comune italiano dell’epoca. Teoricamente, certo, perché la storia ci dice che i periodi di pace furono pochi, ma questo non vuol dire che almeno nelle aspirazioni questa non fosse la vita di Siena. Simone Martini ne rappresentava gli aspetti estremi, ora quelli culturali e spirituali ora quelli drammatici e i Lorenzetti quelli mediati e più facilmente accettabili dal popolo. Questa maggiore aderenza a certi aspetti del reale si può vedere anche nella maggiore cura che Ambrogio Lorenzetti pone nell’indagine della rappresentazione spaziale tanto che la pavimentazione rappresentata nell’Annunciazione conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena è considerata la prima vera prospettiva in senso moderno.

Mano a mano che ci si avvicinava alla fine del secolo, le nuove esigenze erano ormai acquisite definitivamente; l’antico era la guida di ogni artista e di ogni letterato mentre Giotto veniva “storicizzato” e visto come iniziatore mentre la discussione sulla sua arte si placava. Cennino Cennini31 proprio sulla fine del XIV secolo scriveva che Giotto “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno”. La frase è troppo celebre perché abbia bisogno di essere commentata. Cennini rappresentava la terza generazione di pittori che si erano formati alla bottega di Giotto, era infatti discepolo di Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo, a sua volta collaboratore del grande maestro per ventiquattro anni. In lui Giotto è soprattutto il grande innovatore, colui che ha iniziato la maniera moderna; per i pittori citati dal Sacchetti, lo stesso Taddeo Gaddi, l’Orcagna ecc. Giotto era il maestro ancora insuperato. Il giudizio di Cennino Cennini è rivolto a precisare la posizione di Giotto in una visione storica, quello riportato dal Sacchetti è puramente di merito.

Contemporaneamente o subito dopo (ca. 1400) il nipote di Giovanni Villani, Filippo,32 chiama Giotto “arte et ingenio preferendus”33 agli antichi pittori, valutando così non solo la sua bravura ma la sua capacità inventiva ed innovativa. Ormai si era alle soglie dell’umanesimo, la portata delle “invenzioni” era ormai chiara. Non era solo la riproduzione di una realtà che costituiva la novità giottesca ma come questa venisse prima pensata che riprodotta.

I giudizi su Giotto in un primo momento erano volti ad esaltarne la qualità artistica e la capacità di esprimere sentimenti nuovi ma dalla fine del XIV secolo la critica fu in grado di identificare anche il come e il perché di questa qualità, trovando nella ricerca spaziale e nel rapporto nuovo con la natura la vera ragione della fortuna giottesca. La “rivoluzione” di Giotto fu recepita come tale solo a partire dalla critica di Cennino Cennini che ne apprezzò a pieno il valore e tale rimane anche per noi. Come notazione finale notiamo che con Cennino Cennini nasce anche la “critica” in senso moderno e termini come invenzione e maniera entrano nell’uso comune nell’accezione che sarà propria dei secoli seguenti e che ci pongono subito un problema: siamo sicuri che le categorie di lettura dell’opera d’arte fossero correlate alla capacità di questa di rappresentare prospetticamente e di riferire in qualche modo il reale?

 

 

LESIGNORIE

 

Questo capitolo è intitolato al modello politico che in Italia si affermò nel XV secolo perché la produzione artistica è da correlare ad una nuova posizione della committenza nei suoi confronti. Non è una novità assoluta, si trattava sempre dei “signori” che ordinavano opere agli artisti, ma relativa al senso che a questa operazione si voleva dare, essenzialmente morale. Una legittimazione del potere, spesso usurpato e detenuto illegalmente, non era sempre possibile e cercare un aggancio con un’attività di carattere così elevato spostava psicologicamente la valutazione di questo potere dal piano dei rapporti di forza a quello dello spirito costituendone, indirettamente, una giustificazione che poteva essere spacciata per la legittimazione di cui si aveva bisogno. I grandi capitani di ventura furono quasi tutti anche uomini di raffinata cultura e protettori delle arti, indipendentemente dal fatto che riuscissero a costituirsi uno stato proprio, cosa che doveva essere certamente nelle loro aspirazioni neppure tanto segrete.

Le forme artistiche in cui si identificò la nuova classe sociale in Italia non furono obbligatoriamente nuove o rivoluzionarie e coincisero in buona parte con le scelte della grande nobiltà transalpina che, a sua volta, si evolveva verso nuovi modi di gestire il potere.

Quando i motivi di prestigio sociale dei committenti, appartenenti soprattutto alla nobiltà maggiore ed all’alto clero, prevalgono, inizia la fase detta del Gotico Internazionale. La decorazione diviene fittissima e tanto ricca da coprire le strutture architettoniche e, in pittura, i colori più ricchi e vivaci si accompagnano a scene eleganti e delicate, in cui spesso anche le figurazioni della Passione di Cristo assumono un’aria delicata, decantata dalle emozioni più forti come si conveniva a classi sociali che valutavano la vita umana solo dal punto di vista del potere. Nell’amore si travalica spesso nell’erotico più raffinato, non nelle pitture naturalmente, che erano esposte al pubblico, ma nella produzione letteraria che, per definizione, era riservata ai pochi dotati di cultura superiore e che si ritenevano anche superiori e svincolati dalla morale comune.

Cultura umanistica e Tardo-gotico convissero a lungo in Italia ed in Europa e, ripetendo le stesse considerazioni fatte per Giotto, la rivoluzionarietà della Prospettiva forse è tale per noi, allora si parlava meglio di “maniera moderna”.

Tentiamo subito una definizione: la prospettiva34 è il momento in cui si passa da un insieme di individualità con qualcosa di universale in comune ad un universale comune e superiore in cui queste individualità si collocano e riconoscono e a cui possono fare riferimento per comunicare, proprio perché è superiore a tutte. Questa affermazione riprende il discorso già accennato commentando la posizione di San Tommaso d’Aquino sulla conoscenza e la sua soluzione del problema degli universali. Quello che vogliamo sottolineare è che, malgrado la conoscenza di Platone non fosse mai stata abbandonata e venisse compiendo continui progressi, per una buona metà del XV secolo gli umanisti ragionarono in termini aristotelici.

La società si sviluppava e con essa la necessità di un linguaggio comune. Le categorie di lettura dell’opera d’arte dovevano necessariamente essere comuni ai produttori (committente e artista) ed ai fruitori mentre i contenuti potevano variare secondo i casi. In altri termini le astrazioni che l’intelletto compie della realtà rendono possibile una rappresentazione di questa a partire da un dato già astratto in se.

Tutti gli storici dell’arte danno per scontato che si tenda, lentamente, a partire dal XII secolo, a costruire lo spazio secondo una struttura propria allo spazio stesso: la Prospettiva appunto. Tale impressione era determinata dal fatto che l’immagine, quale è concepita dall’uomo dell’età di mezzo, ha sì una struttura, ma è una struttura soprattutto logica, tesa a comunicare e funzionale a determinati codici di comunicazione. La Prospettiva invece, da un punto di vista logico, sembrava preesistere all’immagine e, a rigor di logica (prospettica ovviamente), con essa si identificava; rimanendo, eventualmente, da determinare dove preesistesse. La Prospettiva, infatti, non esclude ma, anzi, esalta la capacità comunicativa di una immagine permettendone la perfetta comprensione, visto che usa schemi logici propri sia del soggetto che dell’oggetto che del mezzo di trasmissione dell’immagine.

La maggiore comprensibilità era relativa al mondo fisico rappresentato, la natura, ma almeno per questo non c’era più bisogno di chi spiegasse l’immagine o i tituli; anche le relazioni interne all’immagine tra le diverse cose rappresentate finiscono per essere più chiare anche se sono di carattere simbolico o allegorico, favorite in questo dalla precisa collocazione dei termini permessa dalla Prospettiva.

Naturalmente questa era la convinzione dell’epoca che, nella novità della scoperta, identificava spazio e struttura più o meno come i filosofi tendevano a identificare res e nomina che le definivano. La Prospettiva, in altri termini, è propria sia del riproduttore che del riprodotto che del mezzo di riproduzione dell’immagine; una struttura logica che interessa, ad esempio, sia il pittore che chi guarda il quadro perché nasce nella mente del primo nel momento dell’ideazione dell’opera e si trasmette, evidente portata nell’opera realizzata, al secondo. Entrambi la considerano propria ed essenziale all’opera d’arte, identificandola anche con gli altri contenuti e significati che questa è delegata a trasmettere e che vanno oltre o sopra la rappresentazione della natura, come se essi stessi non l’avessero mai pensata ma solo irresponsabilmente constatata.

La Prospettiva sembra quasi essere una qualità della natura fisica che viene rappresentata come le altre o, tutt’al più, una qualità della sensazione, sempre da rappresentare e sempre capace di essere colta dall’artista, passasse nell’opera d’arte e arrivare al fruitore.

È bene chiarire ulteriormente il concetto, dato che gli umanisti tesero ad identificare le due strutture dell’immagine. Una, quella antica, è funzionale unicamente a trasmettere dei significati e si può servire di qualunque chiave di lettura come di qualunque sistema di simboli od allegorie; questo è possibile perché questi significati non sono, o possono non essere, rappresentativi di una realtà e in particolare di una realtà naturale e fisica. L’altra, la struttura prospettica dello spazio dell’immagine (o nell’immagine), per contro, ha proprio come funzione il rappresentare anzi, per essere precisi, il dare ordine alla rappresentazione.

A partire dal ‘400 le due strutture si sono identificate e, nell’immagine, comunicare o trasmettere e rappresentare sono stati considerati un’unica operazione. In effetti, tranne alcuni casi particolari, gli artisti dovevano fare sempre un’opera di sintesi con cui adattare i contenuti da dover rappresentare ad una struttura spaziale prospettica naturale.

Alcune delle categorie della composizione di Quintiliano, l’autore rilanciato da Petrarca, potrebbero essere applicate anche alla composizione delle arti visive, si potrebbe obiettare che si tratta di categorie nate per l’oratoria ma è una caratteristica dell’Umanesimo dare a tutta la conoscenza una forma letteraria e se noi, oggi, valutiamo maggiormente quello che fu creato nelle arti figurative, allora erano le forme letterarie della cultura a prevalere e l’uomo di cultura per eccellenza era il letterato di corte. Questo pregiudizio, che ha fortissimi motivi d’esistenza, è fondamentalmente valido ancora oggi in Italia. Quello che che a noi, in questa sede, interessa di più non è l’esame delle diverse relazioni tra arte gotica ed Umanesimo o tra arte popolare ed arte dotta, ma come si sviluppasse e si imponesse il nuovo modo di vedere le cose in arte e come si diffondesse la capacità di lettura delle nuove opere.

Ci furono, è logico, artisti che in maggiore o minore misura fecero da tramite tra vecchio e nuovo. Per nuovo, giova precisarlo ancora, non intendiamo l’uso della prospettiva come mezzo tecnico, che si era andato affermando per tutto il corso del Trecento: è proprio la prospettiva in sé che acquista un valore autonomo anzi, è “il” valore di riferimento dell’arte. Bisogna tenere ben presente che sino al XVII secolo tra scienza ed arte non c’è contraddizione e che la funzione principale dell’arte è di ritrarre il naturale, cioè di darne la scienza. La ricerca dell’ideare e poi dell’inventare saranno conquiste raggiunte lentamente.

Non cambia solo il modo in cui l’occhio vede, cambia la mente di chi vede o meglio (e insieme) cambia il posto da cui si vede, la posizione stessa dell’osservatore. È stato scritto che l’uomo si colloca al centro dell’Universo e in questa prima fase dell’Arte Moderna può essere considerata un’affermazione abbastanza precisa, anche se nella rappresentazione prospettica il centro potrebbe essere benissimo nel punto di fuga. Quello che conta è che tutto lo spazio sia misurabile e rapportabile a delle proporzioni recepibili dalla mente dell’uomo. Il modo di vedere il mondo  è anche, così, il modo di comprensione e conoscenza dello stesso; quattro secoli più tardi, quando i fisici progettarono i primi obiettivi fotografici, fecero in modo che proiettassero su di un quadro un’immagine brunelleschiana e se osserviamo una chiesa del primo umanesimo, magari proprio San Lorenzo a Firenze del Brunelleschi, attraverso una fotografia presa dalla porta di ingresso ci “ritorna indietro” la proiezione prospettica centrale del disegno originario.35 Il disegno è proprio la stesura dell’inventio, la fase dell’ideazione dell’opera se non proprio, come sostengono alcuni,36 quella del progetto in senso contemporaneo.

Poniamo un problema precisando quanto già osservato:

1 - se la prospettiva è nella natura bisogna stabilire cosa sia e quali siano i rapporti con le cose della natura;

2 -  se è nella mente di chi osserva bisogna stabilire se sia o no un vero linguaggio o solamente una tecnica di osservazione e lavoro finalizzata alla ripoduzione.

Solo in questo secondo caso resterebbe verificata l’ipotesi che avevamo formulato all’inizio: che a partire da quest’epoca le categorie di lettura dell’opera d’arte sono relative all’opera stessa e possedute sia dall’artista e/o dal committente che dal fruitore, tra queste, naturalmente, la Prospettiva.

Prima di tentare una qualsiasi risposta è opportuno ribattere il concetto che all’epoca il problema non era posto assolutamente in questi termini e che le nostre osservazioni non stanno seguendo in questo momento alcun metodo storico propriamente detto; le facciamo perché nel nostro secolo, senza che alcuno sottolineasse la contraddizione, la prospettiva da un lato non è più considerata essenziale all’immagine artistica mentre dall’altro si continua a studiare ed usare comunemente come mezzo indispensabile per poter comunicare. Rispondendo al primo quesito posto possiamo notare che la prospettiva era anche l’ordine dato da Dio al Mondo e che l’uomo poteva, con un’azione logica, riconoscere quest’ordine nel quale egli si collocava, protagonista della propria stessa storia; un ordine logico e razionale, perfettamente adatto alla conoscenza ed alla sua trasmissione o, volendo, la trasposizione in chiave di immagine della logica aristotelica.

Rispondendo al secondo quesito, ricorreremo alla problematica che si pone la psicologia dell’età evolutiva riguardo la formazione del linguaggio: non si può distinguere del tutto il pensiero del linguaggio che lo esprime. La prospettiva, intesa come linguaggio visivo o ad esso connessa, verrebbe ad essere un modo di pensare o meglio, di essere del pensiero stesso, cosciente e logico; il liguaggio razionale dell’arte, con regole e costrutti precisi, ripetibili ed analizzabili. Questo spiega perché risulti tuttora indispensabile e perché sia nata ben prima che il Neoplatonismo tornasse in auge.

Un linguaggio visivo è molto di più, ma una struttura di base propria di questo linguaggio, che si possa apprendere e studiare indipendentemente da qualunque contenuto si debba trasmettere, lo rende universale; un po’ come lo studio della grammatica e della sintassi di una lingua si può fare indifferentemente (sino ad un certo punto) su di una fattura commerciale o su di un testo di filosofia.

Tutto questo discorso ha ovviamente poco a che vedere col modo di ragionare degli artisti all’inizio del ‘400; per loro la prospettiva era finalizzata anzitutto alla mimesi della natura. È la “regula legitima”, il metodo giusto, che Brunelleschi mise a punto e che Leon Battista Alberti ci riferisce nel trattato sulla pittura37 dedicato proprio a Brunelleschi. Alcuni, Panofsky in particolare,38 hanno fatto corrispondere i termini citati da Alberti come qualità della pittura a quelli del De Oratore di Quintiliano per cui all’inventio corrisponderebbe la dispositione, la disposizione degli oggetti rappresentati, alla dispositio la compositione39 e soprattutto la circonscritione, il disegno che ne delimitava i contorni, ed all’elocutio la receptione dei lumi, che comprendeva tutto ciò che si riferiva a luci, ombre, colori; se la cosa può sembrare eccessiva ricordiamo che l’Alberti fu anche letterato e che nelle sue Lettere Familiari  fece una proposta concreta di volgare non letterario in prosa che ancora mancava, al contrario di quello in versi.

Meno incisivo, a nostro parere, in quest’autore il ricordo di Platone, tanto sottolineato da tutta la scuola iconologica, Panofsky in testa,  che verrebbe dalla proposta di scegliere, nella natura, le cose più belle secondo la propria idea. La preoccupazione principale dell’Alberti è il metodo di imitazione della natura, la bellezza aggiunta dal pittore, rispetto a questo, è un surplus. Quanto ancora fosse attaccato alle idee medioevali viene, ad esempio, dall’esame del trattato dell’architettura in cui ancora propone la mutuazione di proporzioni dell’edificio dalla musica, come nelle cattedrali gotiche. È dall’imitazione dell’antico che l’Alberti finì per divenire il caposcuola di tutta l’architettura seguente, quell’antico che egli non voleva copiare ma utilizzare come esempio per nuove grandi cose. Il “modulo”40 quadrato di S. Andrea a Mantova è l’ennesima elaborazione dei moduli geometrici gotici, quelli che probabilmente egli aveva studiato da giovane come metodo progettuale, ma portato ad una misura finita e regolata, perfettamente identificabile, dall’osservazione della romanità.

È questa continuità con la generazione precedente che non è stata valutata a fondo da alcuni, tesi a percepire ancora vivo quel senso di innovazione profonda che l’Alberti sente e che, prima che nella tecnica, va cercato nella concezione dell’uomo. Il Ghiberti, suo contemporaneo, nei suoi Commentari41 sottolineò ancora di più questo legame, e si badi che li scrisse nel 1450, quando nelle storie dell’arte (per lo più italiane a onor del vero) l’affermazione dell’Umanesimo è data per scontata.

Ricollegare anche gli artisti più all’avanguardia con il passato è sempre lecito perché il sovrapporsi delle nuove istanze rimase a lungo parallelo allo sviluppo del Tardogotico nella stessa Firenze; anche i tre Commentari del Ghiberti sembrano oscillare indecisi tra vecchio e nuovo. La conciliazione tra i vari momenti avviene avendo occhio al tipo di problematica posto da Lorenzo, che nel rapporto tra arte antica ed arte moderna ritrova il concetto di proporzione ed accenna, come già aveva fatto il Cennini parlando di Giotto, allo stacco temporale tra antichità e modernità. D’altro canto la visione artistica viene fusa con la visione fisica della realtà ed i problemi di ottica sono, in lui, soprattutto problemi tecnico-pratici, ma dobbiamo convenire che quest’equivoco si mantenne ancora per secoli per essere poi accantonato in epoca contemporanea senza essere risolto.

Molto interessanti anche i suoi giudizi estetici ed alcune intuizioni che rimasero isolate e quasi uniche anche nei secoli successivi, pur tenendo conto che si tratta di giudizi dettati da un gusto ancora molto legato al Gotico. Per quanto riguarda i primi Ghiberti fu quasi un precursore delle successive forme di analisi stilistica e nel valutare il rapporto tra sentire dell’autore ed opera.42 Delle seconde ricordiamo la valutazione tattile dei valori plastici della scultura espressa in particolare parlando di alcune opere antiche la cui bellezza poteva essere meglio toccata che vista.

Non vogliamo riaprire vecchie polemiche sull’Umanesimo ma sottolineare che se è vero che la prospettiva divenne presto una delle categorie di lettura delle opere d’arte ad essa vanno ne vanno affiancate altre, la somma di tutte queste dava una misura  di verisimiglianza o di naturalezza che non era solamente un criterio di trasmissibilità di contenuti ma anche, anzi, soprattuto un criterio di giudizio estetico. Alcune le indica già l’Alberti stesso e sono indicazioni di stile e di gusto: di stile perché indicano un modus operandi preciso ma anche di gusto perché si riferiscono a preferenze personali dell’Alberti. Citiamo la concordanza dei colori, senza contrasti chiaroscurali ed in una luce aperta e diffusa e, per quanto riguarda la figura umana, la corrispondenza tra gesti, atteggiamenti ed i sentimenti interiori. Importante è anche l’adeguatezza delle parti all’argomento trattato o historia.43 Questo rapporto tra argomento e forma espressiva era già stato teorizzato dagli antichi teorici della retorica; ricordiamo, oltre al già citato Quintiliano, Cicerone. Anche in questo, dunque, nulla di nuovo del tutto. Il concetto fondamentale albertiano è che la pittura sia il risultato “artificiale”44 di una capacità artistica dell’autore, qualcosa di diverso, quindi, dalla pura rappresentazione di qualcosa.

La prospettiva, in questo contesto, è solamente uno degli elementi da considerare per valutare un’immagine anche se il rigore geometrico della sua applicazione ne fa il più difficile da padroneggiare, almeno in apparenza. In realtà il problema più importante ci sembra essere piuttosto quello del rapporto tra l’uomo e la storia, tra il sentimento e l’azione. Ciò si accorda meglio con la concezione di un uomo al centro dell’Universo perché dà la prevalenza a problemi esistenziali piuttosto che a rigidi fatti tecnici.

Se da un punto di vista45 ideologico il trattato sulla pittura è il più importante non dobbiamo dimenticare che l’Alberti fu soprattutto architetto e che nelle sue opere attuò concretamente le proprie idee. Nella chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano, attuò l’operazione di riportare in un edificio moderno le forme e i moduli degli antichi romani, ma è in Sant’Andrea a Mantova che diede forma compiuta ed organica ad un suo progetto, visto che a Rimini dovette limitarsi a rivestire dall’esterno la preesistente fabbrica gotica. I contatti con la vecchia architettura medioevale italiana sono evidenti nella ripresa degli archi a tutto sesto dal romanico e nell’uso di un modulo geometrico e dei suoi multipli e sottomultipli, in questo caso il quadrato, derivato dal gotico del Nord. La novità consisteva essenzialmente nel nuovo valore che si dava alle proporzioni, recepibili dal fruitore e quindi più “umane” e nel ricordo diretto dell’antichità al quale si rifaceva l’architettura.

Questa differente concezione dell’architettura era anche una differente concezione dell’uomo in modo palese per tutti e soprattutto direttamente vivibile dal fruitore; in questo modo i valori umanistici divenivano progressivamente sempre più vicini al popolo anche se questi poco poteva sapere di antichità classiche e si spiega anche come di fatto potesse procedere l’imposizione di nuovi modi di vita da parte della classe al potere.

Il Tempio Malatestiano46 prese il nome dal signore di Rimini che lo volle, Sigismondo Malatesta e l’ordine religioso che lo permise fu quello Francescano, in contrasto con il vescovo, ordine cui già si doveva a Firenze la prima biblioteca umanistica. Più significativi ancora i nuovi palazzi costruiti nelle principali città che nel “regolare” l’aspetto urbanistico di strade e piazze davano anche la misura delle nuove regole del vivere civile, col loro aspetto prospettico metà naturale e metà urbano ottenuto con il sapiente uso del bugnato e, soprattutto, finalmente aperti attraverso la regolarità ed il numero inconsueto delle finestre ad una vita che rifuggiva dal concetto di forza militare per impore il potere, come nei palazzi fortificati del medioevo recente. Un concetto di società civile che istaurava nuovi rapporti, sempre di forza, ma derivanti dal potere economico e sorretti da un grande prestigio culturale. Comunque, di sicuro, chi era al potere non ci rinunciò.

Come momenti di passaggio citiamo il Palazzo Spannocchi di Giuliano da Majano e il Palazzo Strozzi di Benedetto da Majano a Firenze per i palazzi di città ed il Palazzo Ducale di Urbino di Luciano Laurana per i castelli. Per quanto riguarda le nuove concezioni urbanistiche, naturale estensione dei concetti già espressi, per quasi tutto il secolo si riscontrano singole idee, ma poche realizzazioni organiche. Infatti la Cupola del Brunelleschi, come i principali palazzi e logge fiorentine, non determinarono alcun mutamento nel tessuto trecentesco della città, rispetto alla quale costituiscono delle intrusioni; e la stessa cosa vale per le altre città d’Italia.47 Se ci si pensa bene queste affermazioni forse sembreranno un po’ meno eretiche: Pienza, uno degli esempi più citati di pre-urbanesimo,  non è un modello urbanistico in senso stretto in quanto tutto il piccolo paese fu letteralmente fuso con il palazzo dei principi da Bernardo Rossellino.

Unica vera parte urbana costruita secondo i nuovi canoni, a nostro parere, fu la serie di “addizioni” a Ferrara che si sono sovrapposte in più di cento anni abbracciando un arco che va dal pre-umanesimo nel 1386 (addizione di Niccolò II) al pieno Umanesimo del 1451 (addizione di Borso) a quella Rinascimentale del 1492 (addizione di Ercole I). I nuovi quartieri erano parzialmente al di là del porto-canale sul quale si fermavano i traffici fluviali; oggi la trasformazione nel viale della Stazione ha fatto perdere un po’ il senso di stacco che doveva esserci tra il vecchio centro medioevale e le moderne costruzioni simbolo della nuova prosperità cittadina.

Una nota va aggiunta per evidenziare che l’architettura non proseguiva più solo per mezzo dell’esperienza, perché ormai l’insegnamento dell’algebra era radicato negli studi superiori da più di due generazioni e non ci sembra neppure il caso di dover insistere sull’importanza e l’utilità di simili mezzi di calcolo, solo che si pensi che fino ad oltre metà Trecento la più piccola proporzione era un grave problema matamatico. Meno condizionati dal calcolo erano i pittori, che usavano prevalentemente la geometria descrittiva senza dover uscire dalle due dimensioni del quadro e senza problemi di materiali e di strutture portanti; si pensi invece alle difficoltà che incontrò Brunelleschi per mettere in opera la sua famosa cupola! A proposito di questa vorremmo sottolineare non tanto la brillantezza delle soluzioni adottate ma il fatto che ci fosse una commissione d’appalto in grado di capirne perfettamente il valore e la portata sia da un punto di vista tecnico che economico (il risparmio era enorme rispetto alle tecniche tradizionali). Brunelleschi fu il vero autore della cupola e le corporazioni medioevali d’ora in poi si ridussero ad associazioni professionali. Con lui una nuova classe di architetti e tecnici si stava formando in grado di risolvere i problemi, “inventando” la soluzione migliore; perché meravigliarci se anche il potere politico passava in nuove mani, più preparate a gestirlo in modo migliore da un punto di vista economico e produttivo?48

Il pittore che più di ogni altro si occupò di prospettiva, Paolo Uccello, tanto da sembrare occupato solamente a trovare nuove regole per realizzarla secondo quanto dice Vasari49, in realtà si pose forse più degli altri il problema della sua storicizzazione, arrivando ad affermare l’indifferenza verso la Storia nell’ambito di un qualsiasi sistema prospettico nel quale le azioni umane si collochino quali che esse siano. In altre parole:

1) dato un sistema prospettico ci si può collocare qualsiasi fatto; oppure, al contrario;

2) si può creare una prospettiva particolare per un fatto determinato.

Ad esempio del primo punto citiamo le due versioni della Battaglia di San Romano, quella del Louvre o quella degli Uffizi a scelta, nelle quali sullo sfondo alcune persone vanno a caccia di lepri, del tutto indifferenti al massacro in primo piano che dovrebbe costituire il fatto principale narrato, indifferenza sottolineata dall’adattamento di forme e colori alla prospettiva stessa. Questa scena ci ricorda il concetto di homo ludens espresso da Huizinga50 e ci propone un tema di meditazione: non sarà che l’uomo dell’Umanesimo, alla fine, continui a giuocare un giuoco con altre regole? Sia come sia, è sempre un riallacciarsi al passato del modo di pensare di questo arditissimo maestro di prospettive. Come esempio del secondo punto si può ricordare il San Giorgio che Uccide il Drago degli Uffizi con la celebre prospettiva divergente  (in apparenza) che crea quasi due spazi dedicati al santo ed alla bestia. Notiamo ancora che il concetto di uno “spazio dedicato” sembra assai simile a quello del teatro medioevale, come medioevale era il soggetto cavalleresco rappresentato, ormai superato in un’epoca in cui, almeno in Italia, le Signorie avevano posto termine per sempre a quello che era rimasto del Feudalesimo e della Cavalleria.

Questo rapporto uomo - storia viene così ad avere tre aspetti distinti anche se intimamente interdipendenti, li citiamo nell’ordine di importanza che probabilmente avrebbero avuto allora:

 

1 - la posizione dell’uomo nella storia della salvezza, nella quale il progetto divino ha il suo fulcro nella resurrezione di Cristo;

2 - il problema della continuità tra moderno ed antico, nel quale si percepisce la frattura di un evo di mezzo, frattura che da un punto di vista religioso ovviamente non esiste;

3 - la valutazione che si dava della forza innovativa, se non rivoluzionaria, dell’Umanesimo rispetto al Gotico.

 

Ricordiamo per inciso che il termine Gotico non era comunemente usato se non per indicare un tipo di scrittura e solo in seguito fu esteso a tutta l’arte del XIII e XIV secolo per divenire, ancora più tardi, un’indicazione di stile. Come si può vedere, se  un artista (o un uomo di cultura qualunque) affrontava nelle sue opere una di queste tematiche non avrebbe potuto risolverla senza le altre due. Subito diverse furono le interpretazioni che dell’antico (e del conseguente valore del moderno) diedero i due tra i maggiori artisti della prima metà del secolo, Brunelleschi e Donatello, che pure ebbero modo di formarsi sulle stesse fonti.51

Il giudizio (un po’ velenoso per verità) che Brunelleschi diede del Crocefisso di Donatello, accusato di aver messo in croce un contadino,  è estremamente indicativo in proposito. Giustamente è stato osservato52 che Donatello vedeva nei Fiorentini a lui contemporanei i veri discendenti dei Romani antichi. Il problema era stato ereditato dai secoli precedenti e riguardava la vecchia disputa su chi fosse la “seconda” città, ovvero la città più importante d’Italia; la prima era sempre, per motivi ideali, Roma. La traccia di campanilismo53 che forse ancora era presente nella proposta artistica di Donatello è, oltretutto, confermata nel tono del proemio dell’Alberti al proprio trattato. Per noi quello che conta è l’affermazione decisa dell’immanenza della storia nel mondo e nel conseguente ristabilimento di una effettiva continuità con l’antico. Lo spazio misurato e perfettamente proporzionato di Brunelleschi implicava che l’uomo ci si potesse collocare con perfetta armonia; l’attualità dell’ideale Donatelliano no.

Esaminiamo per un momento il problema delle proporzioni di Cristo e vediamo il perché della crititica brunelleschiana; abbiamo trovato almeno quattro motivi per giustificarla:

 

1 - Cristo è generato direttamente da Dio;

2 - Cristo è il prototipo di tutti gli uomini;

3 - Cristo è nobile, discende da re per parte di madre;

4 - Cristo è nell’antico.

 

Per tutte queste ragioni egli non può essere rappresentato che come perfettamente proporzionato, stavamo per scrivere bello, ma l’uso di questo termine ci avrebbe spostato in avanti di almeno novanta anni. L’ultima ragione, come si può ben vedere, non è di carattere religioso, ma dobbiamo tenere presente che la riscoperta dell’antico implicò anche la riscoperta del paganesimo. Nel suo Crocefisso Donatello calò l’antico e il divino assieme nell’attuale e nell’umano, con un passaggio contemporaneamente temporale, fisico ed antropologico, focalizzando l’operazione nella sua Firenze ma senza indicare chiaramente in che modo ciò fosse possibile anzi, facendone un problema dichiaratamente non risolvibile. Che la posizione dell’uomo in Donatello sia incerta o dubbiosa certamente è dovuto ad un particolare  sentire dell’autore, ma anche in parte al fatto che se i modelli ai quali ci si riferisce vengono in qualche modo resi concreti o attuali per ciò stesso possono essere anche discussi in maniera maggiore che rispetto ad una loro proiezione in un passato in cui siano idealizzati e visti come immutabili.

Questa incertezza nella posizione dell’uomo possiamo vederla in quasi tutte le opere di Donatello, dalla Cantoria del Duomo di Firenze, in cui la struttura, data dalle colonnine, è rigida ma esterna alla scena (apparentemente senza regole) di danza, all’Annunciazione di Santa Croce, dove il cubo prospettico costringe letteralmente al proprio interno la Vergine che invano tenta di fuggire dall’intrusione dell’angelo. Più ancora questo si può vedere nei bassorilievi di Padova, dove le prospettive sono precise e proporzionate, brunelleschiane, perfettamente tracciate da sottili solchi e rilievi del bronzo, ma dove, anche, i personaggi si muovono spesso quasi scompostamente senza ordine e senza accordo con la struttura prospettica. Per la verità il movimento ha sempre un’origine: Dio, o un gesto o un’ispirazione divina; è l’uomo che fatica ad adattarsi a ciò che è perfetto a causa della propria limitatezza.

Proprio questo è il punto: sin dall’origine l’Umanesimo pone come fondamentale il rapporto dialettico tra uomo e Dio, tra libertà e predestinazione. In altri artisti non appare alcuna contraddizione, come in Guido di Pietro, il Beato Angelico. Il fatto che fosse un religioso, un domenicano, giustifica già la scelta che aderisse all’Umanesimo cercando di dare ai  suoi portati un senso religioso. Sarebbe interessante sapere come coniugasse tanta attività artistica con gli impegni della sua condizione. Di certo fare il pittore non era considerata un’attività manuale disdicevole per un domenicano se ad un certo punto divenne abate, nominato da quel Papa Niccolò V che gli aveva commissionato la cappella che ancora porta il suo nome, nomina dovuta proprio ai suoi meriti artistici, visto che fu fatta appena ebbe finito il lavoro negli appartamenti papali. Anche questo è chiaro indice della nuova considerazione in cui si teneva l’arte. La soluzione proposta dall’Angelico è la più semplice in apparenza: tra verità di fede e verità artistica non può esserci contraddizione, perché la verità è una ed evidente alla ragione. Evidente non vuol dire che possa essere spiegata nelle sua essenza profonda, ma piuttosto che può essere vista e comunicata con certezza, cosa che in pittura, con la possibilità offerte dalla prospettiva, era divenuta facile. Anche il fatto che in un primo periodo la sua opera sia da inserire in ambito tardogotico, oscillante tra il misticismo di Pietro di Giovanni, Lorenzo Monaco (anche lui un religioso) e Gentile di Niccolò, Gentile da Fabriano, ci sembra indicativo che l’adesione ai modi di Masaccio avvenne in seguito ad una scelta cosciente.

Nella Deposizione al Museo di San Marco in Firenze convergono molti elementi:

 

- tre personaggi che discutono o contemplano razionalmente il fatto storico, riecheggiando i committenti dell’Adorazione dei Magi di Masaccio e saranno ripresi nella Flagellazione di Urbino di Piero della Francesca;

- la prospettiva precisa sottolineata dalla costruzione spaziale data dalla croce e dalle scale che aveva un antecedente ancora più antico in Ambrogio Lorenzetti;

- il sentimento spirituale di disperazione delle donne che piangono è un ricordo di Lorenzo Monaco nell’interpretazione del soggetto;

- lo stile, specie nel colore, rimarrà sempre ispirato a Gentile da Fabriano;

- uno sfondo lontano, in cui al sentimento delle donne corrisponde la città, Gerusalemme, luogo dell’uomo e delle sua civilitas ed in cui, dietro la razionalità degli uomini, è la natura.54

 

Tutto ciò in una splendida cornice quasi a trifora per tripartire la scena, di per sé esempio di un Gotico Fiorito che certamente doveva fare una gran “presa” sul pubblico. Questa cornice non interessa la reale struttura interna dell’immagine ma ne rimane separata; del resto se in prospettiva si parla di “finestra” visiva in questo caso abbiamo una finestra simile alle tante, la maggioranza, che si trovavano nei palazzi (signorili) di città e non una squadrata con cornice, più moderna ma poco diffusa; la prospettiva riguarda quello che è al di là della finestra, non la sua forma. Internamente all’immagine il vero elemento unificatore è la luce, diffusa, quasi meridiana, che tutto fa vedere con chiarezza all’occhio ed alla mente, chiarezza che in uno spirito profondamente religioso diviene trascendenza, come trascendente è l’essenza della verità. Che il tentativo di Beato Angelico fosse ben riuscito lo dimostrò la chiamata a Roma da parte di papa Niccolò V che gli affidò la decorazione della sua cappella privata, imponendo così, dall’alto della sua autorità, l’Umanesimo in un ambiente ancora fortemente conservatore.

Questa luce, questa spiritualità, unite all’artificio tecnico di abbassare il punto di fuga per dare più risalto ai personaggi, si concretizza, ancora più pura, nella pittura di Piero della Francesca, che sfronderà definitivamente ogni residuo del passato dalla propria arte. Il punto di partenza è sempre Masaccio ma quelle grida di dolore lacerante che troviamo nel gesto della Maddalena nella Crocefissione di Santa Maria Novella sono ulteriormente razionalizzate per raggiungere un rapporto uomo - storia quasi assoluto, in cui la centralità dell’uomo e di Dio coincidono (es: Il Tributo in San Francesco ad Arezzo). Se tutto coincide tutto è geometrico ed alla geometria possono essere sempre ricondotte le infinite forme naturali. È questa la tesi di fondo dei suoi trattati De Prospectiva Pingendi e De Quinque Corporibus Naturalibus.55 E non solo la luce è meridiana e diffusa, ma anche le proporzioni sono espresse nelle loro forme più meditate: nella già citata Flagellazione di Urbino forme geometriche (il cilindro), forme architettoniche (la colonna) e l’uomo (il corpo di Cristo) coincidono e con le proporzioni dei corpi anche i colori hanno una loro proporzionalità interiore; i tre personaggi in primo piano sono di due colori primari, il Rosso ed il Blu, e il terzo della loro somma, il Porpora. L’affermazione del nuovo modo di vedere era totale e le nuove categorie di lettura dell’immagine ormai escludevano di fatto le vecchie.

Normalmente si contrappone a Piero della Francesca Filippo Lippi, mettento in antitesi uno “spazio teorico” ad uno “spazio empirico”; ci sembra forse eccessivo. Filippo Lippi fu solo più attento a quei parametri di naturalezza e dolcezza nei gesti e nelle espressioni che Leon Battista Alberti aveva indicato come indispensabili per poter ottenere una pittura equilibrata e gradevole. Certo, si rimane sempre affascinati dinanzi alle vette assolute del pensiero umano, in qualunque campo siano raggiunte, ma la scienza della comunicazione non è fatta solo di pensiero filosofico: Filippo Lippi si legge, nei significati di fondo, ancora oggi con chiarezza mentre la nostra lontananza dalla religione e dal pensiero più dotto dell’epoca, soprattutto nelle sue forme più astruse, ci rende talora difficile una corretta interpretazione di molte delle opere di Piero. Non a caso anche Filippo Lippi era un religioso, un carmelitano, ed anche lui offriva una visione della verità il più vicina possibile al sentimento popolare. Se ci ricordiamo che anche Paolo Uccello aveva un minimo status di religioso, dato che era terziario francescano, ed esaminiamo i soggetti dell’arte della prima metà del XV secolo ci accorgiamo anche che tanta contraddizione tra fede religiosa ed Umanesimo in questo primo periodo non c’è; dobbiamo dedurne che il passaggio alla cultura più “pagana” del Rinascimento implicò anche un cambiamento di base nel pensiero, implicito nel concetto stesso di Umanesimo, ma non espresso subito in modo palese.

La fede di questi pittori era ciò che li univa a tutto il popolo e ci permette di dire che la loro fu un’arte per molti aspetti popolare. La grande partecipazione che le varie fonti attestano da parte del popolo per le vicende artistiche della propria città indica chiaramente che arte ed artisti corrispondevano ancora, essenzialmente, ai contenuti di ciò in cui il popolo credeva. Non ci riferiamo alla sola città di Firenze ma, in varia misura ed in diversi modi, a tutta l’Europa.

I contenuti dell’arte sono ancora, in buona parte, i valori generali della società e le differenze tra le espressioni artistiche delle varie regioni europee non corrispondono altro che ai differenti modi di sviluppo della società tra una regione e l’altra, noi qui ci siamo occupati di quella che conosciamo meglio e speriamo che altri proseguano il lavoro per il resto d’Europa. Sembra che ancora i contenuti dell’opera d’arte debbano coincidere con la forma stessa dell’opera come era stato per molti secol ma non è così. Si segua questo ragionamento: la veduta prospettica diviene rapidamente l’unica possibile per descrivere il reale perciò si finisce per far coincidere la veduta prospettica con il reale; invertendo i termini ciò che è rappresentato prospetticamente lo viene sempre come se fosse reale per cui se i contenuti sono relativi a delle espressioni religiose popolari sono visti e vissuti come reali. Ma è la forma a prevalere sui contenuti, indispensabile per poterli comunicare e rappresentare.

 

IL RINASCIMENTO

 

Alla metà del XV secolo tutte le possibilità tecniche offerte dall’arte sono state esplorate ed ogni centro di un minimo di importanza del Centro e del Nord Italia offre una sua particolare scuola pittorica. La prospettiva è ormai universalmente accettata ed utilizzata come il mezzo rappresentativo per eccellenza. La differenza col passato, anche se non percepita chiaramente né allora né, spesso, oggi è che la rappresentazione può essere modificata e, perciò, può essere modificato anche il reale. Inoltre, ciò che è percepito lo è nella prospettiva e nelle altre tecniche (colore, chiaroscuro, disegno, espressione ecc.) collaterali mentre si fa sempre più evidente il rischio che i significati allegorici o simbolici dell’immagine non vengano più ricevuti attraverso i modi della rappresentazione ma attraverso dei puri ragionamenti, generando due livelli di lettura. Uno immediatamente e fisicamente recepibile ed uno più intellettuale, ai quali corrispondono diverse interpretazioni dei contenuti. Questi a loro volta hanno origine da portati differenti: quello propriamente religioso ed uno più laico e libero da dogmi.; Si tratta di quell’aspetto pagano che ad un certo punto sembrò entrare in contrasto con la coscienza cristiana.

Questo paganesimo trova la sua origine nell’antichità stessa. Abbiamo, sin quasi dall’inizio del secolo, due diverse interpretazioni dell’antico, due tendenze a dare maggiore o minore forza allo spazio prospettico, due modi di interpretare la posizione dell’uomo nel mondo. Sembra proprio che l’ambiguità sia una caratteristica del nuovo secolo; forse non sarà mai più sanata, non la contraddizione tra essere (o come si dovrebbe essere) e il non riuscire ad essere, ma tra due modi di essere entrambi validi e possibili. Quello che manca, in fondo, è una chiara idea del rapporto tra l’uomo e la sua posizione fisico - storica perché più questa posizione è precisa più si tende ad immobilizzare la storia, come in Piero della Francesca, mentre le interpretazioni più vitali, come quelle di Paolo Uccello e del Beato Angelico non sanno dare risposta o si fermano dinanzi all’insondabile mistero dei misteri di fede. Poiché la soluzione non può essere  che trovata con la ricerca essa stessa teorizzerà movimento, ricerca, dinamicità anzitutto nel pensiero, come è logico. Così si passò da Aristotele a Platone, dall’uso della logica come mezzo descrittivo (e solo in un secondo momento di conoscenza) all’uso dell’intuizione come mezzo conoscitivo. Il problema che si pone è se e da quale delle due concezioni dell’antico nasca il Neoplatonismo della seconda metà del XV secolo; una relazione certamente non univoca o assoluta.

Forse dire nasca è un termine inesatto; il Neoplatonismo è solo una ripresa di quelle idee platoniche che mai avevano ceduto del tutto il campo al Tomismo e ad un certo punto furono ravvivate dalla migliore conoscenza del Greco antico che si andava diffondendo in Italia come naturale esigenza della cultura. La prima cattedra di Greco fu costituita a Pavia già verso la fine del Trecento prima che arrivasse in Occidente una certa quantità di testi originali dell’antica letteratura greca dopo la caduta di Costantinopoli, come si studia nei testi di storia. Non vogliamo negare l’importanza di questi arrivi, ma ci sembra piuttosto che ai nuovi indirizzi filosofici corrisponda un cambiamento nel rapporto a tre: Natura - Uomo - Dio.56 L’uomo è sempre al centro della natura e la conosce, ma la sua posizione diviene dinamica e attiva da contemplativa che era. Non più conoscere e valutare le proporzioni e i rapporti reciproci, ma attivarli e crearli o, per essere più esatti, trovarli.

Ad un agostiniano, Egidio da Viterbo, può essere fatta risalire una parte consistente delle prime teorie neoplatoniche e in particolare modo quanto riguarda il concetto che a pochi dovesse essere concesso conoscere la rivelazione divina e che questa andasse avvolta di un velo poetico, mistico e simbolico, di non facile accesso per evitare contaminazioni.57 Egidio ispirò due poeti contemporanei, Sannazzaro e Poliziano58 e proprio a quest’ultimo fece riferimento a sua volta Sandro Botticelli. Egidio da Viterbo aveva espresso un concetto della vecchia cultura medioevale, quello dell’inadeguatezza del volgo ad accedere alla piena verità a causa dell’ignoranza, ed uno moderno, quello della coincidenza tra vero e bello, moderno almeno quanto il rifiorire del Neoplatonismo. Il primo di questi era ripreso pari pari ed esplicitamente da Dionigi l’Aeropagita al quale per tutto il Medioevo si erano ispirati gli artisti, o meglio, i loro committenti, nella teoria che la luce delle architetture, dei mosaici, dei gioielli, dell’arte in genere, simboleggiasse la luce divina. Il secondo concetto era fondamentalmente nuovo, anche se ripreso quasi direttamente da Platone.

Ora che l’immagine aveva raggiunto una notevole precisione e chiarezza nel poter “raccontare” e dimostrare si sentiva il bisogno di istaurare un sistema di simboli che ristabilisse la distanza tra dotti ed ignoranti, distanza che diveniva ogni anno sempre più grande e per coprire la quale non bastava più parlicchiare il latino ed avere letto qualche sacra scrittura ed un’epitome della logica aristotelica. Traspare evidente, dagli scritti dei letterati, un senso di superiorità e di disprezzo verso il volgo, “transito per cibo”, come lo chiamava Leonardo da Vinci, che da solo spiega la volontà di erigere barriere nella comunicazione. Tutto il contrario dell’evidenza della verità del Beato Angelico tanto che il simbolismo, così preciso in lui ed in Piero della Francesca, diviene contorto e volutamente incongruo. Un discepolo di Egidio da Viterbo, Paolo Cortesi, adombrò anche una teoria delle immagini59 in cui si sottolineava il piacere intellettuale che si trovava nelle pitture che richiedessero particolari capacità ermeneutiche: “Se qualcuno conosceva e penetrava profondamente le proprietà delle singole cose, l’essenza e natura particolare di ciascun animale, costui alla fine, messe insieme le congetture di quei simboli, coglieva il senso segreto dell’espressione (aenigma sententiae).”60

Il più noto tra questi pensatori, Pico della Mirandola, sviluppò pienamente la teoria, già proposta da Egidio da Viterbo e da Cortesi che la verità andasse espressa per “geroglifici”, per simboli misteriosi, mostrando al volgo solo la parte esterna dei misteri di fede, la corteccia, e riservando ai soli intellettuali superiori il senso vero, il midollo. Pico arrivò anche a teorizzare la storia di una rivelazione mistica e misterica, che passava per Orfeo, Pitagora, Platone, Proclo, Plotino, Dionigi l’Aeropagita ecc. per arrivare fino ai suoi tempi; in questo processo si fondevano tra loro e si trovavano corrispondenze di varie teologie di diversa provenienza, forse tutte, tanto che viene da pensare che si trattasse di una sorta di ubriacatura per eccesso di conoscenza e di intellettualismo, non solo di Pico naturalmente ma un po’ di tutti; si parlava di ogni cosa mescolando tutto ma, nel concreto, le conoscenze erano più erudite e presumenti che realmente universali. Un cenno dobbiamo pure dare di Giuda Abramabel, allora meglio conosciuto come Leone Ebreo, che scrisse dei Dialoghi d’Amore,61 un vero trattato di filosofia in versi i quali, anche se editi postumi nel 1535, assai probabilmente dovevano esere a conoscenza di Pico della Mirandola che li aveva ispirati. Abramabel si pose il problema della possibilità da parte di esseri finiti della conoscenza di una verità infinita e sostenne che ciò era possibile perché l’infinito si imprimeva negli intelletti finiti conformandosi, in qualche modo, alla loro stessa natura. In tale modo poteva assegnare all’uomo il ruolo di intermediario tra Dio e Natura per mezzo della conoscenza. Questa idea probabilmente era già diffusa negli ambienti intellettuali fiorentini e napoletani e giustificava una rivelazione che si trasmettesse al di fuori dell’autorità della Chiesa. Sempre a lui si deve il concetto di un circolo cosmico di amore tra Dio ed il creato e nei suoi versi viene sottolineata quell’ansia di perfezione che caratterizzò l’attività dei maggiori artisti.62

Anche la scuola aristotelica italiana, soprattutto a Padova per opera del Pomponazzi,63 si occupò del problema della rivelazione giungendo a due conclusioni: la prima che esistevano due verità distinte, una razionale, della scienza ed una di fede, della Chiesa, che potevano anche essere in contrasto tra di loro e delle quali l’intelletto umano poteva realmente conoscere solo la prima; la seconda è che se il disegno e l’onniscienza di Dio sono eterni, il destino dell’uomo è predestinato. Né Abramabel né Pomponazzi furono perseguitati per le loro idee, lo fu invece Pico della Mirandola, probabilmente perché troppo provocatorio nei comportamenti. Il pensiero scientifico moderno aveva il suo primo teorico e la Riforma che Martin Lutero si apprestava a lanciare aveva una prima base di pensiero (non platonica ma aristotelica!). Il passaggio tra Aristotelismo e Neoplatonismo è meno forte di quanto sembrasse ai fanatici di Platone dell’epoca.

In tanto ribollire di idee sembra arduo arrivare a trovare quali fossero i criteri con i quali di giudicasse un’opera d’arte se, data la concidenza tra arte e verità, la verità  era volutamentemisteriosa e velata dall’arte stessa; in altre parole l’arte era tanto maggiore quanto più copriva i propri reali contenuti, in forma di “geroglifici” come sosteneva il Valeriano.64 Si creava così una doppia verità come quella di Pomponazzi, ma su di un piano diverso ed a questa facciamo riferimento per spiegare i portati dell’arte del primo Rinascimento. La separazione  dal volgo con un senso di superiorità intellettuale aveva la sua origine in Petrarca ma anche nell’atteggiamento secolare dei nobili verso i plebei; la convinzione di dover dare a questi solo la parte più facile della verità di fede risaliva all’Impero Romano; l’eleganza e la raffinatezza assoluta dello stile era ereditata dal tardogotico e la ritroviamo una generazione dopo negli artisti del primo Rinascimento Italiano, i maggiori dei quali furono così una sintesi nuova del pensiero precedente.

Dopo tanto intellettualismo poniamo subito un problema che giutifichi i noiosi discorsi filosofici appena fatti: se il contenuto delle opere più conosciute dell’epoca non è conoscibile con facilità, come è possibile che siano tanto famose senza essere capite? Normalmente, invece, ci si limita a chiedersi quali siano i contenuti di queste opere, non perché siano tanto apprezzate; parliamo di Botticelli Leonardo, Michelangelo, Raffaello, tanto per citare solo i grandissimi. Facciamo qualche altra considerazione: l’arte antica e medioevale era tanto connessa ai valori di base della società che poteva essere moltiplicata tramite copie senza perdere di significato e questi valori erano importanti quanto la bellezza, nella sua forma originale di stile,  e l’originalità della creazione. Nel Cinquecento questo rapporto si articolò e questi valori, rimanendo nascosti, non furono più necessariamente causa di imitazione. I criteri di lettura divennero fortemente differenziati secondo il grado di acculturazione del fruitore e non è da dubitare che i personaggi di maggiore erudizione provassero, nel giudicare certe opere d’arte, quel piacere intellettuale che dava l’esercizio della mente nell’ermeneutica cui faceva riferimento il Cortesi.

Ad esempio, i piani di ricostruzione della Basilica di San Pietro possono trovare la loro base ideologica nella teoria di Egidio da Viterbo che nella Basilica stessa vedeva, con lungo e spesso contorto ragionamento, una manifestazione della potenza divina. Lutero vide la cosa in modo del tutto differente, ma era lui certamente che interpretava sia il sentimento popolare che, dal lato opposto, gli intendimenti dei ricchi banchieri romani. Anche la costruzione della Cappella Sistina è da connettere al desiderio di Papa Sisto IV di farne una dimostrazione del progetto divino della storia della salvezza cui corrisponde quasi esattamente tutto il ciclo degli affreschi. Già la decisione di dargli le dimensioni del tempio di Salomone ci dà una valida indicazione della direzione in cui cercarne i significati.65

Un caso significativo degli esiti di queste problematiche è dato da due dei maggiori artisti mai esistiti, Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci, che furono, per di più, entrambi allievi nella stessa bottega, quella del Verrocchio e che quindi si formarono, sia tecnicamente che ideologicamente, nello stesso modo e pure, nella diversità, mantennero sempre un fondo comune di interessi. Per la verità anche Michelangelo potrebbe essere avvicinato a Botticelli e Leonardo, visto che da giovane, come tutti sanno, fu introdotto nella corte di Lorenzo de’ Medici, dove certamente ebbe modo di formarsi intellettualmente col contatto e l’insegnamento di personaggi come Pico della Mirandola, Ficino, Sannazzaro, Poliziano oltre, naturalmente, lo stesso Lorenzo.

Tornando a Botticelli e Leonardo noteremo che entrambi furono sempre alla ricerca di qualcosa, nell’arte, di stabile e definitivo, che in qualche modo rispecchiasse quell’Idea cui aspiravano come termine ultimo di salvezza e che Leone Ebreo cantava nei suoi versi. In Leonardo questo si manifestò in una forma d’ansia che lo portò a sperimentare continuamente nuove tecniche per raggiungere la perfezione tanto da ottenere, quasi, il risultato contrario, almeno sul piano della durevolezza delle opere. In Botticelli l’ansia intellettuale passò dalla fiducia quasi totale nei mezzi della ragione alla consapevolezza che ogni sforzo, senza un aiuto divino, sarebbe stato inevitabilmente troncato dalla limitatezza dell’uomo, concezione in cui anticipò in parte le problematiche della Riforma Luterana. Ciò si tradusse in due periodi distinti, al primo dei quali appartengono le sue opere più celebri, la Primavera e la Nascita di Venere, in cui il concetto di un Amore che, tramite l’arte, salva le anime elette viene espresso con una serie di allegorie tanto oscure nei contenuti quanto sono armoniche le immagini che le rappresentano.

Per spiegare questo bisogna partire dalla proposta che avevamo fatto precedentemente di invertire i termini della questione: non bisogna chiedersi quali siano i contenuti di un bel quadro ma perché sia considerato bello un quadro del quale non si conoscano bene i significati. È vero che in realtà buona parte di questi ultimi traspaiono comunque. Anzitutto la bellezza esteriore è il primo ed il principale, quella “scorza” di cui parlava Pico della Mirandola, ma poi, l’essenza della verità più nascosta dei quadri di Botticelli non è la Bellezza Divina? Della quale quella esteriore è proiezione e immagine riflessa ma anche l’unico mezzo per poterne comunicare l’idea66 con efficacia. “La bellezza è una grazia, uno splendore della bontà, che sulla prima giunta apparisce all’aspetto, quasi il colore alla superficie, obietto della potenza virtuale”67. Il paragone con l’arte pittorica è diretto. Tutte le tesi filosofiche di Marsilio Ficino non avranno mai l’efficacia di un discreto quadro, senza voler scomodare Botticelli o Leonardo. Ad esempio, che importanza ha sapere esattamente se la figura di Venere che nasce dal mare rappresenti o no l’anima rigenerata dall’acqua del battesimo o Venere = Umanitas, cioè emanazione dell’Amore? La figura in se esprime chiaramente il concetto di un’armonia tra Umanità e Bellezza. Oppure, nella Primavera, è importante parlare di Venere Urania, rappresentante “la bellezza [che] è un certo atto o razzo d’Iddio penetrante in tutte le cose”68 per il gruppo delle Grazie e parlare di Venere Dione riguardo all’episodio di Zefiro che insidia Flora per indicare il desiderio di procreazione?69 E che altro dovrebbe rappresentare una scena in cui un maschio salta addosso all’improvviso ad una femmina?

Sosteniamo, insomma, che se si lascia da parte la filosofia, le linee principali di questi quadri si spiegano da se, intuitivamente, per mezzo di quell’istinto che è tutto il contrario dell’intellettualità che costituiva il vanto del gruppo cui apparteneva Botticelli. Più difficile è la lettura dei due affreschi con le storie di Mosè della Cappella Sistina70 ma forse perché era difficile la proposta di un platonismo cristiano che Botticelli portava alla Curia Romana71, certo molto meno chiara degli antistanti affreschi del Perugino. Questa chiarezza espressiva può essere estesa anche alla lettura della Gioconda di Leonardo da Vinci e ad analoghe considerazioni sulla sua fama. Il quadro è il più celebre esistente in tutto il Mondo di tutte le epoche ed anche su di esso si sono sprecati fiumi di parole per spiegarne i contenuti, primo dei quali il “misterioso” sorriso della Gioconda. Eppure tutti concordano che rappresenti una figura umana ritratta in perfetto equilibrio psico-fisico con la natura, nella quale, col mezzo dell’atmosfera, vive un’esperienza superiore. Una natura che vive e segue le sue leggi, la natura naturans72 di Ficino, in cui vediamo fiumi scorrere e tingersi delle rocce che attraversano, indice di quella forza vitale di cui fa parte l’essere umano. Allora, perché tanti misteri? La donna ritratta è quasi certamente la moglie del Conte del Giocondo, indicata col nome del marito al femminile come allora si usava. Ma anche se fosse un’altra donna sarebbe lo stesso. Certo si tratta di una nobile; si sono mai viste contadine vestite di seta? Stoffa carica di riflessi (sotto lo sporco) che si prestò bene agli effetti pittorici cercati dal pittore; l’estrema abilità di Leonardo consisté nel dare luminosità ai capelli ed alle vesti giocando con toni di nero su nero, come nell’accostamento tra velo e capelli, nei quali si riflette la luce. Perché sorrida non ha bisogno di spiegazioni, chi mai si farebbe fare un ritratto “ingrugnato”?

Quale senso esatto dare al suo sorriso è più difficile a dirsi, infatti l’espressione che ne deriva non esprime alcun modo di sentire particolare. La sensazione è accentuata dal fatto che una serie di piccoli scarti prospettici danno una notevole dinamicità alla figura rendendo incerta la posizione e, di pochissimo, il punto di fuga. Tutto è conforme alla concezione di un’umanità inserita ed adattata in una Natura perennemente in movimento, ma genera indecisione interpretativa; manca la certezza descrittiva della prospettiva geometrica sostituita da uno spazio più indefinito, o meglio, da definire indagando, come faceva Leonardo per le leggi naturali. Chi guarda non trova certezze pronte ma deve cercarle. Ogni tentativo di lettura del quadro fatto in epoca romantica si è scontrato con la difficoltà di dare un preciso significato sentimentale (amore, simpatia, ecc.) a questo sorriso. Eppure se la figura rappresenta un essere umano in perfetta sintonia con la Natura non può essere altro che l’espressione di uno stato di beatitudine che deriva da questa esperienza. La difficoltà reale, inconfessata, della critica del passato era data dal fatto che un simile ruolo non era concepito possibile per una donna; in altre parole una donna non poteva rappresentare tutto il genere umano. Questa difficoltà è stata superata da alcuni ipotizzando che la Gioconda fosse un maschio travestito, con una concezione dell’omosessualità simile a quella degli antichi greci, che ritenevano la donna troppo inferiore per essere capace di amore nel senso più profondo del termine nonché, ovviamente, di poter raggiungere le stese vette intellettuali dell’uomo.

Nella Dama con l’Ermellino,73 con la sua bestia feroce domata dalla gentilezza,74 Leonardo indica chiaramente di avere una concezione della donna assai elevata sotto tutti i punti di vista; si pensi anche al dialogo muto tra S. Anna e la Madonna sia nel quadro di Londra che in quello del Louvre.75

Certo, comunque sia, la comprensione profonda di un quadro di Leonardo o di Botticelli dipende molto dalla sensibilità del fruitore più ancora che dalla sua erudizione sulla filosofia antica. Contemporaneamente, mentre si affermava già Michelangelo, la crisi interiore di Botticelli esplodeva in una serie di quadri sempre più drammatici, dove la morte non sembra dare scampo, sino alla crisi che lo portò ad impiccarsi. Forse, per il grande maestro, la fede non era stata sufficiente alla salvezza; del resto tutto ciò in cui aveva creduto sembrava entrare in una crisi definitiva.

Il giovane Michelangelo aveva assunto fortemente l’idea che solo un gesto divino poteva risolvere il problema esistenziale, si guardi alla “metopa”76 giovanile (17 anni?) di Casa Buonarroti che fu forse una specie di prova d’esame presso Lorenzo de’ Medici e, soprattutto, si radicava in lui forte il senso di una storia della salvezza alla quale non si poteva sfuggire. Molto più che una prova giovanile fu il Davide77 che il giovane scultore fece per commessa della Repubblica Fiorentina in cui lavorò un blocco di marmo già cominciato da Agostino di Duccio 47 anni prima. Benché Agostino fosse uno scultore ancora legato a modi tardogotici (lo si vede dall’avvitamento della figura) Michelangelo non volle contraddire quanto era già stato fatto, crediamo perché già gli fosse chiara la concezione di un Bello che l’artista deve “tirare fuori” da una Natura in cui era stato messo da Dio e, indubbiamente, Agostino di Duccio era stato un vero artista capace di questa operazione. Se questa nostra interpretazione sia esatta non sappiamo, ma che per Michelangelo il Bello fosse immesso da Dio nella Natura e che compito di un artista fosse svelarlo, è vero.

Anche Michelangelo volle che la sua figura vivesse nella luce naturale, come Leonardo fece vivere nella luce della natura la sua Gioconda, ed è dimostrato proprio dal fatto che sappiamo, ed è probabile che sia vero, che per dispetto Leonardo stesso aveva suggerito di collocare il Davide contro uno sfondo scuro, come splendida silouhette, nella loggia dei Lanzi, snaturandolo però completamente.

Nella Pietà Vaticana la Vergine è molto più giovane del Figlio, che culla come un bambino e che si adagia in una posa ambivalente tra il sonno e la morte. Sin dall’origine Ella sapeva che sarebbe morto. Il fatto è che ogni madre sa questo dei figli che genera, anche se vuole ignorarlo; ed è il suo destino. Questo si può verificare anche nelle statue della tarda maturità: i Prigioni80 si liberano, come uscendo da un bozzolo esce prima la parte che fa il maggiore sforzo fisico. Tematica che ricorre nella serie delle Pietà, sempre più “stanche moralmente” mano a mano che gli anni avanzavano. Il procedere dell’artista, i suoi sforzi, il suo metodo stesso, riflettevano il procedere del suo pensiero ed il suo tentativo di raggiungere la verità e la libertà interiore.

Ciò dovrebbe far riflettere prima di fare affermazioni del tipo: Michelangelo era tanto bravo che anche le opere non finite sono belle, oppure suggestive o cose del genere; siamo di fronte ad un caso in cui la capacità dell’artista di sintetizzare pensiero e sentimenti col suo lavoro è totale e dinamica, già recepibile mentre si svolge.Ancora nel Giudizio Finale Cristo genera con un gesto un movimento così vorticoso attorno a sé perché è Dio da cui tutto si genera ed in cui tutto termina, ma è così adirato (non superiore e sereno come voleva la tradizione) perché non può comunque sfuggire al problema del male e del destino come è predestinata tutta l’umanità, dato che è anche e totalmente uomo.

Fu questa vicinanza al mondo protestante che spinse alcuni a chiedere la cancellazione del Giudizio. Ma il fatto è che protestante Michelangelo non avrebbe mai potuto esserlo del tutto, visto che aveva una concezione dell’uomo dinamica, nella quale l’operare e l’agire erano indispensabili per avvicinarsi a Dio ed ottenere la salvezza. E nel Giudizio chi si salva letteralmente si arrampica, mentre chi è dannato disperatamente si aggrappa, anche se tutto è mosso dal gesto divino ognuno cercando di agire con le proprie forze per aiutare o contrastare il proprio destino finale. Non basta certo la conoscenza del vero per potersi salvare, in questo caso. Una salvezza attraverso opere attive più che attraverso la fusione tra conoscenza ed esperienza come in Leonardo, adatta anche moralmente ad una fase della civiltà europea di estrema capacità espansiva oltre i propri confini sia intellettualmente con la nascita della scienza moderna che, fisicamente, con le nuove scoperte geografiche.

È da notare che in entrambi gli artisti, Leonardo e Michelangelo, la donna sia trattata alla pari dell’uomo, con la stessa capacità di azione, espressa nel primo in ritratti di tipologia riservata sino ad allora ad uomini e nel secondo in una costruzione del corpo femminile (muscoli, possanza fisica) che allora dovette sembrare quasi strana ai più e che oggi, in un epoca in cui all’esercizio fisico si dedicano entrambi i sessi, indicherebbe solamente una donna militare o atleta.78 Ingenua la correlazione fatta da Freud79 tra l’omosessualità di Michelangelo ed il suo modo di dipingere, dovuta certamente al permanere di quella concezione ottocentesca e romantica della donna di cui abbiamo già accennato a proposito della Gioconda; abbiamo il sospetto che, piuttosto che riconoscere alla donna la stessa capacità intellettuale del maschio, si preferisse pensare ad un omosessuale che, in fondo, è pur sempre un maschio. Ricordiamo che una simile posizione era quella del gruppo di Socrate e di Platone nell’antichità, e non solo di loro e che Leonardo apparteneva ad un circolo intellettuale di Neoplatonici.

Il lavoro di Michelangelo può essere ambiguo (scavare in due direzioni) come la sua architettura (interni ed esterni scambiabili) e come le scelte per la salvezza (Inferno o Paradiso).

Anche in architettura i temi sono quelli delle scelte e dell’operare dell’uomo. Nella Sagrestia di San Lorenzo, nella Biblioteca Laurenziana, in Palazzo Farnese il passaggio dalla vita alla morte, dallo spazio reale dello spettatore a quello al di là della superficie del muro sono come il passaggio dalla potenza all’atto. In tutti questi casi gli elementi architettonici hanno un valore anceps, bivalente, e le cornici delle finestre non indicano se si stia in uno spazio esterno o uno interno.

Che i nuovi tempi fossero meglio sentiti, o, per essere più esatti, anticipati da Michelangelo lo dimostrano anche le sue concezioni urbanistiche. Nella Piazza del Campidoglio,81 a Roma, quasi per la prima volta viene affermato il principio del collegamento al resto della città di siti urbanistici diversi con appositi elementi viarii. Sempre per la prima volta si costruisce una prospettiva in grande scala con l’uso di edifici simmetrici. Insieme, la concezione dinamica dell’esistenza umana del grande artista sottolineava questi  elementi come direttamente vivibili dal popolo stesso che ne usufruiva, e non solo dagli intellettuali: così, chi sale la scalinata ha di fronte due cavalli con i cavalieri, appiedati, che li tengono ben fermi (i Dioscuri) ed un cavaliere col cavallo che avanza (l’imperatore Marc’Aurelio) avvicinandosi sempre di più. In realtà è solo chi sale a muoversi, ma l’effetto ottico virtuale è lo stesso anche se si immaginasse di invertire i moti. Il cavaliere avanza ma la sua rigida posizione sottolinea la durezza del bronzo accentuando l’ambiguità della posizione del fruitore. La salita è faticosa, come la via della salvezza e dell’eterno, ed eterna è la città, con i suoi ideali che la piazza simboleggia anche nell’atteggiamento quasi ieratico dell’imperatore. Del resto, non c’era chi pensava di invertire le posizioni rispettive del Sole e della Terra?

Il bello è che una volta arrivati alla piazza si può girare all’infinito seguendone il disegno della pavimentazione, si può scendere, invertendo il moto, verso il palazzo del Senato, sede della libertà del popolo romano82 e poi, invertendolo ancora, risalirne le scale, si può essere all’aperto o sotto i portici, che sono sia piazza che edificio, ma non si può mai essere nell’unica posizione che potrebbe permettere di dominare concettualmente tutto, occupata dalla statua equestre. Le possibilità dell’uomo sono molteplici e si deve scegliere. Si è condannati ad una perenne instabilità, ad una ricerca senza fine di un posto dove stare e, in effetti, si sta sempre dentro o fuori, di qua o di la, di su o di giu di qualcosa, ma mai fermi al centro. Cosa si vuole di più congeniale ad un epoca di conquistadores e di esploratori?

Tutta la città di Roma prima e tutte le altre dopo (abbastanza dopo) si svilupparono secondo queste idee. I percorsi sostituirono i prospetti e, se l’idea di un centro negato raggiungeva la sua massima espressione nella Piazza di San Pietro ed a Piazza Navona, altri architetti pensavano ad una città dove si andasse da un posto all’altro, sottolinenado i punti di partenza e di arrivo con obelischi o fontane e concependo i palazzi prima che come opere d’arte come decorosi e funzionali; tale fu il Palazzo Laterano di Domenico Fontana in cui i loggiati interni danno anche origine al moderno concetto di corridoio, che sottrae spazio alle stanze ma permette anche di lavorare indisturbati.83 Una città fatta apposta per fare spese, girare, commerciare. Non a caso la posizione dell’uomo è uno dei problemi essenziali dell’epoca.

In altri uffici papali, nel Palazzo Vaticano, tale concetto non era stato ancora applicato né lo sarà mai per la graduale trasformazione di fatto degli ambienti in un museo. Uffici erano in origine le stanze affrescate da Raffaello ed ancora ne portano le tracce: la parte sottostante alle pitture era destinata originariamente alle scaffalature con le pratiche da evadere. Solo quando i papi andarono a firmare i propri decreti da qualche altra parte piuttosto che nella Stanza della Signatura si provvide a riempire gli spazi bianchi; alla decisione non fu certo estraneo il fastidio che portava il gran numero di visitatori che veniva a vedere gli affreschi di Raffaello. Proprio in quella stanza erano mostrate a tutti le tre possibili forme della verità di cui abbiamo parlato sinora:

 

- quella della ragione nella Scuola d’Atene, costruita, con la sua grandiosa architettura, dall’uomo;

- quella dell’Arte nel Parnaso costruita dalla Natura

- quella della Chiesa, ma con l’indicazione che ciò che in terra è mistero (l’Ostia consacrata) sarà evidente in Cielo, dove Cristo è direttamente conoscibile, in un’architettura di nuvole e angeli che ricorda direttamente proprio quella di una chiesa.

 

Tutta la cultura del passato è posseduta dalla classe intellettuale del presente, rappresentata dai ritratti di contemporanei, ed il Papato non poteva avere migliore rappresentazione della propria munificenza e del proprio mecenatismo.

Già, perché che sia raggiunta col ragionamento, con l’arte o con la fede, la verità, in Raffaello, è sempre evidente, basta rintracciarne i segni nel mondo stesso che ci circonda, metterli insieme per avere già un’idea della bellezza ideale oppure evidenziare quelli che si possono trovare in un volto, come nei suoi ritratti, dove la luce fa vedere o nasconde i tratti fisionomici secondo la volontà dell’autore e gli sfondi sottolineano per contrasto o per addizione di luce gli sguardi, e se il volto non basta si può lavorare sul portamento e far corrispondere la magnificenza d’animo a quella dei vestiti; tutto, insomma, pur di trovare in ognuno dei ricchissimi committenti qualcosa di quella bellezza ideale che Dio aveva così generosamente messo nel mondo, e senza cadere nel ridicolo di falsi abbellimenti.

A parte forse è il caso del celebre ritratto della sua amante, la Fornarina, in cui si vede abbastanza chiaramente il compiacersi dell’autore e la firma, “Raphaelli Urbinatis”, dove la parola opus (opera) è omessa e, letta come è, indica solo la proprietà “di Raffaello da Urbino”, della donna naturalmente. Dobbiamo ammettere però che negli altri ritratti egli ci dà immagini femminili non meno dignitose degli altri grandi. Tutti i dubbi e le ricerche filosofiche vengono, in Raffaello, apparentemente allontanati, ciò che conta è ciò che si vede e, in qualche modo, si ritorna all’evidenza della verità di Piero della Francesca e di Beato Angelico.

La capacità di nascondere i difetti naturali il Varchi la chiamò discrezione, nel significato letterale del termine che indica la capacità di discernere, cioè di scegliere tra varie possibilità

Anche quella di Raffaello, quindi, è una verità basata sull’esperienza della Natura, che va studiata ed esaminata ma non tanto per conoscerla e basta, come in Leonardo, quanto per trovare le tracce residue del bello ideale. Esaminiamo le differenze tenendo presente che Raffaello rifuggì da teorizzazioni precise scrivendone in prosa o in poesia come Leonardo o Michelangelo: l’esperienza di Leonardo è un principio attivo della conoscenza, experior = cercare, in Raffaello è l’uso cosciente di facoltà innate che l’arte, con la sua ricerca del bello, affina. In Raffaello è un’esperienza selettiva della realtà che in Leonardo è globale, fondendo in esperienza e conoscenza le due verità di Pomponazzi. In entrambi la conoscenza è mezzo di avvicinamento a Dio, ma in Raffaello il problema di due verità non si pone e, soprattutto, non deve essere posto: basta che alla fine si creda; ecco perché la scelta del papato scese su di lui, a un certo punto, oltre che sul più problematico Michelangelo. La risposta alla Riforma era sul suo stesso terreno!

Così in Raffaello la prospettiva rimane unica ma la luce non avvolge tutto identificandosi con essa e può variare secondo il soggetto. È come se l’artista volesse vedere l’oggetto da dipingere da più parti sino a trovare il suo lato migliore, operazione che corrisponde al principio dalle selezione tra quanto ci offre la natura di ciò che c’è di più bello, anzi, di più vicino al bello ideale; ragion per cui quando si guarda un quadro di Raffaello è facile dire “che bello!” senza sentire il bisogno di spiegarlo, visto che la bellezza è il contenuto stesso del quadro, e non una bellezza astratta ed ideale a se, ma concreta quanto il mondo da cui è estrapolata. Fondamentalmente in Raffaello si separano i momenti della conoscenza, ad esempio in Terra ed in Cielo o nell’istinto e nella ragione, e ad un primo momento di ipotesi e di discussioni ne segue uno di conoscenza razionale se non delle cause almeno dei fenomeni: ma non sarà questo, in fondo, il futuro (prossimo) metodo di Galileo Galilei?84

 

 

IL MANIERISMO

 

Da quanto abbiamo detto emergono due fatti: primo, che nelle differenze stilistiche si possono vedere fondamentalmente le differenze ideologiche; secondo, dopo una fase in cui tutta l’attività intellettuale è sembrata orientarsi in senso puramente teorico si torna a considerare il rapporto dell’uomo col mondo da un punto di vista eminentemente pratico. Si è all’origine del Manierismo che Leonardo, nel suo Trattato della Pittura,85 aveva già condannato: “dico ai pittori che mai nessuno deve imitare la maniera dell’altro, perché sarà detto nipote e non figliolo della natura”. Nello stesso periodo, nella pittura delle Fiandre e dei Paesi Bassi si viene a formare quasi un secondo polo d’attrazione, non opposto ma complementare a quello fiorentino - romano, nel quale l’adesione formale al vero non esclude ma manda in secondo piano l’allegoria a favore di una rappresentazione più borghese della realtà.

Sono più che altro differenti committenti che determinano scelte artistiche diverse nei soggetti e in quello che debbono significare, non nello stile, che è e rimane quello proprio di quella scuola. Dal punto di vista dell’interattività con la pittura italiana si può senzaltro affermare che fu quest’ultima ad essere influenzata da quella dei Paesi Bassi molto più di quanto sia avvenuto in senso inverso. A cominciare da Antonello da Messina passando per tutta la scuola Ferrarese ed arrivando fino agli stessi Botticelli e Leonardo, idee e tecniche del Nord arrivarono sempre abbondanti in Italia. Si trattava dei percorsi commerciali della divisione dell’Impero di Carlo Magno, la Lotaringia86 in particolare, che indicavano le vie della cultura. Era ancora l’antica via Francigena, seguita dai pellegrini che sin dall’alto Medioevo si dovevano recare a Roma, a costituire l’asse portante della vecchia Europa; vecchia, ormai che c’era un intero nuovo mondo.

Ci eravamo proposti di fare una storia dell’arte come storia delle categorie di lettura dell’opera d’arte, ma a questo punto sembra anche imprescindibile porsi il problema delle categorie di giudizio dell’opera d’arte stessa: se i livelli di lettura sono diversi, quali devono essere considerati validi? quelli esoterici e nascosti o quelli palesi? Questi ultimi non coincidono forse con quelli che determinano un giudizio estetico? Ne consegue che se un artista avesse scelto la linea operativa di seguire determinati canoni estetici la sua opera sarebbe risultata valida indipendentemente dai contenuti, palesi o nascosti, più o meno allegorici che fossero.

Ricordiamo che in Marsilio Ficino la Bellezza nasceva dalla proporzione del Creato ed era un rapporto immateriale, tale era anche quella contenuta nei corpi che Michelangelo si sforzava di estrarre liberandola dalla materia bruta. Il non-finito di Michelangelo trae da questa ricerca il suo fascino, non perché Michelangelo sia tanto bravo che le sue opere siano belle anche quando non sono finite. I Prigioni per la tomba di papa Giulio II non furono prima sbozzati e poi rifiniti per successive asportazioni di materiale ma scolpiti come se uscissero dalla materia nei quali erano entrocontenuti con un atteggiamento che sottolinea questo loro tentativo, e in effetti proprio questo rappresentava l’allegoria degli ebrei che si sciolgono dalle catene: l”uomo si deve liberare con un suo sforzo da ciò che è materiale per tendere al divino. Riportiamo questi celebri versi di Michelangelo:

 

“Non ha l’ottimo artista alcun concetto

ch’un marmo solo in sè non circoscriva

col suo soverchio, e solo a quello arriva

la man, che ubbidisce all’intelletto.”

(Sonetto LXXXIII)87

 

L’anima deve liberarsi dal corpo e in questa tenzione, attiva e volontaria,88 si caratterizza la cattolicità di Michelangelo anche se, come abbiamo visto nella Cappella Sistina, è sempre necessario un intervento divino. È quest’ultimo Michelangelo a costituire il modello per il secolo seguente.

Rimase però affermato per gli artisti che si potessero raggiungere determinati effetti estetici senza definire i contorni (cosa che avveniva anche negli abbozzi di Leonardo) senza, cioè, definire gli oggetti stessi; principio che avrà sviluppi notevolissimi nell’arte seguente specie se unito a quello di una pittura puramente tonale.

Sino alla metà del Cinquecento dominò il concetto platonico di una bellezza oggettiva che doveva avvicinarsi il più possibile alla perfezione dei modelli naturali creati da Dio. “E dalla bellezza deriva l’attrazione, il piacere, il gusto: riflessi soggettivi e intellettualizzati di un’oggettività in se proporzionata e armonica”.89 Questo riferimento ad una bellezza assoluta, che spiega il gusto del piacere, ci spiega anche perché si possa mettere in secondo piano ogni analisi dei contenuti allegorici nelle opere d’arte per valutarne solamente la rispondenza al gusto dell’epoca ed eventualmente all’attuale Non dimentichiamo però che il nostro gusto è formato sull’attività artistica del Rinascimento, tuttora presa a modello e, quindi, fondamentalmente lo stesso.

Una scelta del genere è la scelta che contraddistingue i Manieristi, che non seguono, perciò, i grandi maestri ma nascono quasi contemporaneamente ad essi, svolgendo una ricerca stilistica che per la sua stessa “ovvia” bellezza estetica fa dimenticare a noi moderni quanto dovesse essere difficile raggiungere certi risultati.90 Un Andrea del Sarto o un Dono Doni sono formalmente perfetti e in questa perfezione evidente sono imbossolati dalla critica; si provi oggi qualcuno a dipingere con un simile totale equilibrio di composizione,  di disegno, di colori! Questi artisti cercavano la bellezza ideale, ma la coscienza dell’irraggiungibilità totale di questa idea generò quasi subito quella malinconia che caratterizza l’arte del Cinquecento. Michelangelo sottolineò l’ambiguità di questa ricerca e della posizione dell’uomo. Altrettanto può dirsi per quanto riguarda la ricerca della verità religiosa e morale. La cupola celeste simboleggiata dalla Cupola di San pietro non è ferma e stabile ma assume la forma di una grande ruota che ingrana nel cielo. Quello che conta non è più l’assoluto ma come questo si rapporta all’uomo. Non professare una fede ma manifestare una devozione; non conta dimostrare un dogma per crederci, ma agire credendo.

L’Annunciazione di Lorenzo Lotto per S. Maria a Recanati non pone problemi teologici; l’esempio che ci offre è quello di una brava, modesta fanciulla di casa che dice le preghiere della sera, pratica di cui non si ha traccia nelle sacre scritture, mentre l’angelo annunciante è di una tale evidenza fisica da far fuggire il gatto di casa. La figura di Dio ci ricorda un poco Michelangelo (o l’inverso), l’angelo il Beato Angelico, l’arredamento è descritto con minuzia olandese. Ci sembra opportuno notare che il Manierismo vero e proprio nel 1526 non è ancora iniziato, almeno nei manuali di Storia dell’Arte, ma Lotto usa lo stesso elementi stilistici di varia provenienza per far vivere come reale la scena, non per dimostrarla.

La realtà virtuale inizia con Raffaello e Michelangelo e questa virtù è essenzialmente operativa. Il manierismo non segue i grandi ma anticipa se stesso e si consuma nel breve giro di una generazione, dopo c’è quel grandioso fenomeno che si chiama Barocco. L’insegnamento di Michelangelo, ancora vivente, seguì un poco le sorti di quello di Fidia: anche quando i contenuti propri dell’arte del maestro vennero meno rimase una scuola che ne seguì l’esempio stilistico e compositivo. La differenza tra gli esempi che i manieristi seguirono e la loro opera è tutta in piccole differenze nella concezione dell’uomo; maggiori, magari, da un punto di vista qualitativo ed ancora più grandi nella creatività.

Questa concezione non è da intendersi solamente in senso spirituale, anzi, una gran parte della produzione artistica riguardava temi di amore terreno se non erotici in senso stretto, cosa che contribuì non poco a dare corpo alle accuse di licenziosità e di paganesimo che da più parti, dentro e fuori d’Italia, si facevano agli ambienti culturali umanistici. La produzione erotica del manierismo è particolarmente importante perché è da correlare alla generale rivalutazione dell’essere fisico dell’uomo e della natura. Ad una personalità umana considerata in senso del tutto spirituale si sostituisce un concetto più complesso che parte dal corpo per arrivare all’intellettualità pura passando per l’analisi delle caratteristiche psicologiche della personalità. In questo genere la pittura italiana tese ad oscillare  tra due estremi, uno dei quali era la considerazione sociale del personaggio e l’altro quella intellettuale, mentre quella dei Paesi Bassi si occupò in particolare della psicologia dei personaggi e del loro rapporto (anche economico) con la società.

Riprendendo il discorso di prima, notiamo che l’eccesso di pornografia di alcuni autori italiani, anche letterari, (Giulio Romano, Tiziano, l’Aretino) deriva dalla convinzione che lo spirito fosse tanto superiore al corpo da permettere di scherzare e concedersi liberamente ai piaceri della carne senza essere contaminati. Un modo di vedere “naturale” che solo nel rapporto con la natura concepisce l’uomo completo. Si pensi alla Venere di Tiziano, sul cui sfondo una coppietta si ama esercitandosi in pratiche erotiche certamente comuni ma poco regolari,91 almeno così sembra a guardare con attenzione, molto da vicino naturalmente.

Un altro modo per affrontare il problema è di porsi le stesse domande interpretative dell’epoca. Imitare la Natura direttamente o imitare i migliori maestri? La risposta, che per Leonardo era ovvia, non lo era affatto per molti altri. I criteri di lettura delle opere d’arte non sono più l’imitazione diretta della Natura ma l’aderire a determinati canoni compositivi, neppure estetici in senso stretto, ma solo rappresentativi. Non si tendeva più a cercare un Bello Ideale assoluto nè nel pensiero nè nella Natura ma delle regole per una perfetta “resa” di questo Bello. Per tale ragione non si imitavano i grandi maestri in quanto più vicini all’ideale ma in quanto grandi esempi di capacità artistiche e rappresentative. Questa tendenza era la naturale evoluzione di un sistema di pensiero che si era troppo astrattizzato senza avere soluzioni pratiche. Per un artista, insomma, non era tanto necessario sapere “dove” trovare il bello quanto sapere “come” cercarlo. In questo senso nessun manierista che fosse un vero artista può essere considerato un imitatore.

Il Manierismo nacque, come abbiamo già detto, contemporaneamente agli stessi grandi maestri che avrebbero dovuto essere imitati. Michelangelo e Raffaello furono i maggiori tra tutti e svilupparono alcune problematiche particolari che li posero indiscutibilmente al di sopra di tutti gli altri, toccando direttamente i grandi temi esistenziali dell’Umanità; a parte, ovviamente, la qualità eccezionale della loro arte. Tutti gli altri manieristi non poterono fare a meno di prendere in considerazione la loro opera o, meglio, il loro modo di operare, il loro stile ma rimasero fondamentalmente autonomi nella scelta dei temi sviluppando aspetti dell’arte e della cultura trascurati dai grandi, troppo vicini, in fondo, al potere ed alle sue esigenze. Anche nell’imitazione stessa, in quanto riguarda lo stile, diedero risalto a forme e temi impliciti nei maestri ma non esplorati altrimenti. Temi diversi, sviluppi tecnici diversi, perché continuare a parlare di maniera? Probabilmente perché furono loro stessi a parlarne. Tutto questo discorso riguarda, naturalmente, i più capaci ed esclude la schiera dei veri imitatori.

A questi grandi della maniera corrispondono alcuni celebri letterati dei quali fu assunto a simbolo Baldassar Castiglione che nel Cortegiano92 teorizza assieme un ideale di bellezza ed uno di comportamento conseguente identificandoli nel perfetto uomo di corte, il cortigiano appunto. Amore, dice il Castiglione, è un desiderio continuo di bellezza, sottolineando che si amano solo le cose conosciute. La funzione della conoscenza come mezzo di elevazione dell’anima è ribadita ma in senso puramente estetico. Inoltre il mettere in relazione l’ideale ed il comportamento coincide con quanto dicevamo a proposito della ricerca di come rapprensentare piuttosto che di cosa, proprio perché cercare cose sconosciute non è proprio del desiderio, mentre per quanto riguarda le conosciute il problema è possederle in qualche modo, magari attraverso l’arte.

Contemporaneamente viene teorizzato definitivamente il ruolo, anzi, il dovere del “signore” di proteggere e favorire le arti e la letteratura; anzi, il più celebre tra i poeti del Cinquecento, Ludovico Ariosto, arrivò ad indicare in questo il principale dei doveri di un principe. Ad Ariosto, tra i tanti, vogliamo paragonare Dosso Dossi che espresse in pittura quei portati esoterici propri degli ambienti culturali Ferraresi, come la Magia, che in un quadro conservato a Los Angeles nel J. Paul Getty Museum, l’Allegoria con Pan, viene mostrata (la vecchia) mentre soccorre, per virtù della Misericordia divina (il cedro), l’anima addormentata in mezzo alla Natura (la donna nuda) che è chiamata sia dall’Amore divino (gli amorini  in Cielo) come desiderata da quello terreno (Pan); un vaso vuoto rovesciato ricorda quello di Pandora da cui, sfuggiti i doni degli dei, era rimasta solo la Speranza (la dama in verde). Un esempio da cui è facile dedurre che le pratiche magiche93 dovessero essere, all’epoca, piuttosto comuni non solo tra il basso popolo ma anche a corte. Una corte nella quale il ruolo del principe non è solo quello di governare ma soprattutto di promuovere l’arte; sempre di Dosso Dossi ricordiamo il celebre Giove che Dipige Farfalle, di Vienna al quale non servono commenti particolari.

Questo ruolo, o dovere che fosse, di un principe fu assunto anche dai più grandi regnanti fuori d’Italia, Francesco I di Francia e l’Imperatore Carlo V per primi. Francesco I  riuscì a far venire presso di sè Leonardo da Vinci, giungendo ad onorarlo tanto da muoversi personalmente per andare a trovarlo, anche se di notte e non visto; e Leonardo non era neppure nobile! Se Francesco I si “abbassava” tanto Carlo V si abbassò materialmente per raccogliere un pennello caduto a Tiziano, davanti a tutti; che l’episodio sia vero o no poco importa, il fatto stesso che circolasse un simile aneddoto è di per se significativo. Tiziano era, però di famiglia nobile (conti) anche essendo un cadetto non aveva ereditato il titolo, questo spiega perché Carlo V lo abbia nominato Conte Palatino (senza feudo) e Cavaliere dello Speron d’Oro. In Italia ormai fare l’artista era considerata una professione dignitosa come fare il magistrato, quale era era il nonno di Tiziano, il Conte Vecellio. Anche fuori d’Italia si connettevano potere e cultura ed in maniera ancora più stretta, perché la gloria che ne derivava non era solo del re, ma di tutto lo stato.

La situazione negli altri paesi, in particolare modo in Olanda, cambiava anche perché era differente la committenza. Nei Paesi Bassi non prevalgono i grandi nobili ed ecclesiastici, ma i borghesi, e non solo i più ricchi, e questo spiega perché si prosegua in linee pittoriche e stilistiche già affermate che si caratterizzavano per l’attenzione al particolare realistico. Chiariamo che la realtà che consideriamo non è solamente quella visibile, ma anche quella in interiore homine, psicologica e caratteriale, il cui studio raggiungerà poi vertici assoluti in Spagna con Velasquez, eguagliati solamente da Rembrandt e pochi altri. I rapporti con l’arte italiana erano comunque strettissimi e dalla fine del Cinquecento in poi si assistette ad una velocissima espansione della sua influenza dovuta a due motivi: l’elevatissima qualità artistica dei grandi maestri e la concezione superiore dell’arte e dell’artista che non poteva non interessare gli operatori culturali stranieri, anche indipendentemente dalla politica delle grandi monarchie nazionali.

Il Manierismo compì il miracolo di unificare le varie culture artistiche europee non solo con la forza della suggestione, indotta dal mito di questi grandi maestri, ma anche con la nuova qualifica sociale che riceveva l’artista e che certamente doveva affascinare non poco tutti gli artisti stranieri ancora considerati “homini mechanici”94 in patria. Françisco de Holanda nei suoi Dialoghi Romani con Michelangelo95 ne fu uno dei teorici nella penisola Iberica.

Dipingere all’italiana divenne ben presto quasi una mania ma, naturalmente, i portati delle opere erano adatti o adattati alle varie esigenze culturali, con la conseguenza che più il Manierismo si diffondeva più ci si allontanava dai primitivi portati neoplatonici dell’arte rinascimentale ed il vero criterio di conoscenza e giudizio diveniva sempre più legato alla qualità artistica pura, alla capacità espressiva dell’artista piuttosto che ai contenuti, o meglio, questa era considerata indispensabile perché un’opera fosse presa in considerazione.

Cellini, tanto per fare un esempio, “lavora” la materia o sulla materia per dargli bellezza mentre Michelangelo la bellezza, come abbiamo visto, la considerava già insita nella materia stessa. È l’agire dell’artista che conta sempre più, non solo l’idea espressa o la corrispondenza ad un ideale astratto. Perciò il processo iniziato nel primo Quattrocento in cui il mezzo di trasmissione dell’immagine (la tecnica, la prospettiva ecc.) si separava dai contenuti dell’opera d’arte non solo è pienamente concluso ma ha portato alla prevalenza di questo mezzo e ad una nuova posizione dell’artista.

A proposito di questa ricordiamo che il Cesari fu soprannominato il Cavalier d’Arpino ed era effettivamente un cavaliere, assunto, sia pure al grado più basso, tra la nobiltà, e crediamo che sia stato il primo pittore con una simile qualifica, anche se, forse, sarebbe più logico parlare di decadenza della Nobiltà e dei pittori come di una nuova categoria di liberi professionisti. Nel Seicento questo fenomeno divenne macroscopico.96

Ricordando che la migliore fonte su questi artisti rimangono ancora i loro scritti personali, come le lettere di Michelangelo o l’autobiografia del Cellini, dobbiamo considerare che uno sguardo anche rapidissimo, sull’arte del Cinquecento non può non interessarsi sinteticamente dell’immensa trattatistica sull’argomento. Immensa perché non solo nei libri specifici, ma quasi in ogni discorso troviamo tracce di concetti estetici e, se è vero che l’arte italiana si diffuse in Europa quasi da dominatrice (così era vista fuori della penisola italiana), una parte non piccola deve essere attribuita ai suoi teorizzatori.

All’artista straniero si fornivano non solo esempi e tecniche da imitare, ma un intero sistema ideologico ed interpretativo connesso all’arte, estremamente utile, per di più, perché in fondo totalmente estraneo alle lotte di potere e di religione. Gli artisti si sentivano affratellati tra di loro al di sopra di ogni distinzione ideologica come, non a caso, i nobili nei loro codici comportamentali ed i borghesi nei loro contratti commerciali.

In questi trattatisti, che spesso sono anche artisti, i problemi che si dibattono non sono più di carattere puramente estetico; in tutti si dà per scontato che l’arte debba avvicinarsi ad un bello ideale, ma le proposte sono tante e tanto diverse che questo bello viene perso di vista e la discussione diviene sempre più spesso operativa. Accenniamo alcune di queste tematiche notando che uno stesso autore può aderire di caso in caso all’una o all’altra posizione senza una precisa regola:

 

- il valore dell’abbozzo;

- il significato del disegno;

- la distinzione tra i vari tipi del disegno;

- il valore della macchia;

- il significato della maniera;

- la liceità della maniera;

- la ricerca di canoni e proporzioni;

- il paragone tra pittura e scultura;

- l’imitazione della natura;

etc.

 

Tutti questi temi si intrecciano spesso in modo indissolubile e, per la verità, anche noioso al lettore per la pedanteria con cui si scriveva allora. Il risultato è che ogni bottega, ogni artista si regolava come riteneva opportuno e poi cercava una giustificazione teorica alla propria specifica pratica.

I più importanti tra questi trattatisti sono, a nostro giudizio, anzitutto il Dolce ed il Vasari e poi, probabilmente, il Varchi ed il Fracastoro, sempre ricordando che le fonti primarie vanno cercate negli artisti stessi.  Ognuno di loro ha portato un suo contributo autonomo ai problemi dell’arte, come il Fracastoro, che sostenne il valore formale dell’arte risolvendola nell’azione dell’artista che fa la cosa come “converrebbe che fosse”, concetto poi ribadito fortemente dall’Armenini che sottolineò la possibilità che la Natura stessa erri.

Non vale la pena di addentrarsi troppo nella disputa sulla prevalenza tra pittura e scultura che per noi moderni è superata ma che allora viveva sull’esempio dei contrasti tra Michelangelo e Leonardo,97 mentre è forse più importante il fatto che che le tendenze tonali già espresse nella pittura veneta trovino una teorizzazione precisa in Paolo Pino e nel Dolce. Dei due il Pino si occupò essenzialmente di chiarire, una volta per tutte, i meccanismi del disegno, che egli divise in quattro parti,98 giudicio, circumscrittione, pratica, retta compositione, andando molto oltre la formulazione leonardesca dell’abbozzo come disegno di massima già contenente in sè l’idea da esprimere e risolvendo tutta l’esperienza pittorica nel disegno.

Del Dolce ricorderemo la condanna che fece della Maniera anticipandone il concetto. Già nel Danti e nel Vasari si distinguono il ritrarre, che è il fare un’oggetto com’è, dall’imitare, che è il fare un oggetto quale dovrebbe essere; più tardi l’Armenini mostrerà disprezzo per “coloro che ritengono ogni cosa della Natura buona, come se la Natura non errasse. Sono queste le basi del Manierismo.

A proposito del Vasari noteremo che il suo continuo proclamarsi discepolo di Michelangelo non impedì che ne interpretasse il pensiero in senso più moderno: un esempio è la sua concezione del disegno, che per lui corrisponde all’idea che si forma nell’intelletto dell’artista, nel suo pensiero, senza valore metafisico perché nasce a posteriori piuttosto che a priori, come invece sarebbe se si rifacesse ad un valore assoluto di provenienza divina come era, appunto, per Michelangelo. Di conseguenza imitare o ritrarre, avere per guida uno dei grandi maestri o la natura sono scelte proprie dell’artista e non ideologiche, sono, in sostanza, scelte di gusto.

A questo punto che importa dei contenuti logici dell’opera, del “discorso” che si fa, se quello che conta è il farlo in forma artistica?99 La precettistica che ogni scrittore di cose d’arte sviluppa è la vera essenza del Manierismo: ad esempio in che modo combinare i grandi maestri, come il colore di Tiziano ed il disegno di Michelangelo.

È ancora il Dolce a distinguere chiaramente il “lume” dal “colore”. Il Lomazzo definì poi il concetto di lume prospettico che sarà alla base della pittura Caravaggesca e quello di composizione con figure serpentinate ed in movimento, che tanto piacque nel secolo successivo.

Si costruisce una vera grammatica, anzi una morfologia dell’arte che, a differenza degli antichi ricettari, è grammatica e morfologia del gusto. È questo gusto l’essenza di quell’Arte Italiana che ebbe tanta fortuna nel resto d’Europa perché, ad essere obiettivi, la qualità e la tecnica non mancavano certo agli artisti d’oltralpe.

La teoria evoluzionistica dell’arte di Vasari, che vedeva in Michelangelo il suo punto culminante, forse era solo un ultimo tentativo di mantenere ancora una relazione tra contenuti concettuali e logici e contenuti artistici di un’opera d’arte, giustificando le nuove tendenze con la necessità di dover partire, per la ricerca artistica, da un riferimento inimitabile. In realtà si partiva (e non poteva essere altrimenti) da un culmine qualitativo raggiunto, ma per andare ancora più avanti, verso nuove mete, più che alternative diverse.

Ora, per chi volesse approfondire gli argomenti trattati, diamo un sommario elenco dei principali scrittori d’arte del Cinquecento, sperando di non dimenticare nessuno di importante:

 

Daniello Bernardino, Poetica volgare, Venezia 1536.

Aretino Pietro, Epistolario, 6 voll., Venezia, 1537 - 1557.

Robortello Francesco, In librum Aristotelis de arte poetica explicationes, Firenze, 1548.

Pino Paolo, Dialogo di pittura, Venezia, 1548.

Doni F., Disegno del Doni partito in più ragionamenti ne’ quali si tratta della Scultura et Pittura, Venezia, 1549.

Varchi B., Due lezzioni di M. Benedetto Varchi nella prima delle quali si dichiara un sonetto di Michelangelo Buonarroti. Nella seconda si disputa quale sia più nobile arte la Scultura, o la Pittura, con una lettera d’esso Michelangelo, et più altri Eccellentiss. Pittori et Scultori, sopra la quistione sopraddetta, Firenze, 1549.

Vasari Giorgio, Vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani da Cimabue a’ tempi nostri descritti in lingua toscana da G.V. pittore aretino, ecc., 2voll., Firenze 1550; e Le vite, ecc., di nuovo ampliate, ecc, 3 voll., ivi, 1568.

Fracastoro Girolamo, Naugerius sive de Poetica, Venezia, 1555.

Dolce Lodovico, L’Aretino o Dialogo della Pittura, Venezia, 1557.

Scaligero Giulio Cesare, Poetices liberi septem, Genova, 1561.

Gilio G. A. , Due dialoghi... degli errori dei Pittori circa l’historie, con molte annotazioni fatte sopra il giudizio universale dipinto dal Buonarroti, Camerino, 1564.

Danti Vincenzo, Primo libro sulle perfette proporzioni da imitarsi nel disegno, Firenze, 1567.

Cellini Benvenuto, Intorno alle otto principali arti dell’oreficerie e In materia dell’arte della scultura, riveduti da Gherardo Spini, Firenze, 1568; Vita, edizione postuma a cura di Giuseppe Baretti, Napoli 1728.

Castelvetro Ludovico, Poetica, traduzione e commento della Poetica di Aristotele, Vienna, 1570.

Paleotti Gabriele, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, dove si scuoprono vari abusi loro e si dichiara il vero modo che cristianamente si doveria osservare nel porle nelle chiese, nelle case e in ogni altro luogo, Bolgna, 1582.

Danti Egnazio, Le due regole del Vignola, 1583

Borghini Raffaello, Il Riposo, Firenze, 1584.

Lomazzo Giovanni Paolo  Trattato della pittura, scultura ed architettura, Milano, 1584; Idea del Tempio della pittura, Milano, 1590.

Armenini Giovanbattista, Dei veri precetti della pittura, libri III, Ravenna 1587.

Pontormo Jacopo, Diario, manoscritto conservato nella biblioteca Magliabechiana a Firenze.

Zuccari Federico, L’idea dei pittori, scultori, architetti, Firenze, 1608.

 

 

IL BAROCCO

 

Si dice che il mondo moderno inizi dopo la scoperta dell’America e, in un certo senso, è vero anche se, volendo, essere più precisi, il viaggio di Colombo fu la conseguenza dei tempi che cambiavano e non la causa.

Proseguendo quanto stavamo dicendo nel capitolo precedente noteremo due cose: primo, il Barocco100 formalmente fu lo sviluppo dell’architettura michelangiolesca; secondo, la contrapposizione tra mondo cattolico e mondo protestante fu più apparente che reale perché, sia in Europa che in America, fu la borghesia la vera protagonista della società. Sulla borghesia le monarchie più evolute basarono il proprio potere e borghesi furono le classi dirigenti nelle colonie; questo non vuol dire che la nobiltà avesse perso il proprio potere di botto, ma che la nuova protagonista della politica (in senso lato) fosse la borghesia è indubitabile.

Questo fatto determinò la nascita di differenti produzioni artistiche secondo il committente: il re, il clero, la nobiltà, i borghesi; ma la vera novità fu che tra queste ne nacque e se ne sviluppò una senza committenza diretta che deve essere studiata, perciò, partendo dalla considerazione che al termine “committente” debba essere sostituito quello di “acquirente”. La novità del XVII secolo è proprio che gli artisti lavorino senza prima aver ricevuto un ordine, nel proprio studio, e solo dopo cerchino di vendere le proprie opere, magari con l’aiuto di un’organizzazione di distribuzione, come nel caso di Evaristo Baschenis, le cui tracce possono essere seguite da Bergamo a Parigi tra esportatori, spedizionieri, distributori e galleristi.

Per inciso la propria fortuna questo pittore la fece quando, abbandonata la piccola clientela che comprava i suoi polli squartati, cominciò a dipingere quegli strumenti musicali che simboleggiavano, allora, la cultura musicale italiana. L’esportazione di quadri e l’esportazione di strumenti musicali erano praticamente parallele. La musica scritta sui fogli che stanno accanto agli strumenti, ben leggibile, è quella di Monteverdi, il fondatore del Melodramma ed una delle punte avanzate della cultura italiana ed europea.

Più in generale, si può far corrispondere la dinamicità dell’architettura barocca ad una concezione dell’uomo che ha rinunciato ad una posizione centrale nell’universo per indagare e cercare metodicamente la verità. È il problema del metodo che occupa le menti dei filosofi ed è un metodo per la ricerca scientifica che Galileo propone, non con difficili discorsi in Latino, ma in eleganti dialoghi in Italiano, una lingua volgare,101 cosa mai fatta precedentemente da nessuno scienziato. Il fatto è che la cultura scientifica, quale è concepita da Galileo, deve essere propagandata come ogni forma di cultura e come, del resto, facevano già gli artisti con le idee della politica e della religione.

La Congregatio de Propaganda Fide (letteralmente: Commissione per Diffondere la Fede)102 usava, già all’epoca, metodi modernissimi. Un esempio? Il volantinaggio: cosa sono infatti i “santini” dati all’ingresso delle chiese ai fedeli se non volantini con da una parte un’immagine sacra per gli analfabeti e dall’altra una preghiera scritta per chi ha studiato almeno un poco?

Anche sostenere che l’arte di questo secolo scada spesso in un decorativismo inutile non è esatto: lo scopo è convincere illudendo, facendo vivere una realtà diversa e facendo leva sul sentimento piuttosto che sulla ragione. Non c’è dubbio che questi scopi siano pienamente raggiunti dagli artisti maggiori la cui arte è funzionale, perciò, non a rappresentare o riprodurre una realtà ma a crearne una immaginaria. Secondo i nuovi metodi di ricerca un fisico fa prima ipotesi e poi le verifica; gli artisti creano illusioni come ipotesi in cui proiettare la vita, da verificare, magari, dopo la morte. La vitalità non può non avere, come contrappeso, la morte, uno stato dell’essere sconosciuto ma reale, ed il pensiero della morte è continuamente presente in tutta la fortissima sensualità barocca e, in genere, di tutto il secolo.

Un tipico esempio di questa ambiguità, sconosciuto ma di notevole effetto, si trova nella chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma. Nella tomba di Giovan Battista Gislenghi103 (o Gisleni) viene rappresentato il defunto, in alto, in pittura con un effetto di luce “caravaggesca” che lo fa sembrare realmente affacciato ad una finestrella con sotto la scritta “neque hic vivvs” [nè qui è vivo]; più sotto, dietro una grata e sopra la pietra tombale, una seconda finestra ci presenta uno scheletro con la falce e sotto la scritta “neque illic mortvvs” [né li è morto], dove il qui si riferisce sia alla finestra nella chiesa, spazio del fruitore (ovviamente vivo), mentre il li si riferisce non alla tomba, che è ovviamente anch’essa nello spazio del fruitore, ma all’aldilà, lo spazio spirituale della morte e nel quale, per chi ha fede, la vita non cessa ma continua. Lo scambio tra la realtà della vita e quella della morte è totale.

Al tempo stesso la realtà veniva classificata e studiata in tutti i suoi aspetti e questo diede origine a quello che si chiama Pittura di Genere. In queste forme di espressione artistica non viene rappresentata una realtà specifica ma un’intera categoria nella quale classificare questa realtà. Un vaso di fiori dipinto non è detto che debba avere necessariamente qualche significato allegorico, può essere anche semplicemente e solo se stesso e per la maggior parte delle persone, non dotate di una specifica cultura umanistica, rimane e rimarrà solamente un vaso di fiori. Immaginiamo il quadro messo in una sala da pranzo in cui un vaso simile sia realmente appoggiato sulla tavola e sarà facile comprendere che in questo caso l’arte ha avuto la funzione di trasferire la realtà, effettuale o potenziale che sia, in una dimensione diversa che conserva, però, alcune delle caratteristiche essenziali dell’opera d’arte come la normatività e l’universalità, la capacità, cioè, di inquadrare in valori universali tutte le possibili esperienze del reale. Uno dei pittori meglio pagati a Roma era Mario de’ Fiori, pittore, ovviamente, di fiori e del quale non si hanno, praticamente, opere riconosciute con sicurezza.

La stessa operazione di studio, teorizzazione e schematizzazione del reale che gli scenziati compivano trovando le leggi della fisica, ma in termini non matematici. Quest’ultima affermazione è vera solo relativamente, dato che la prospettiva che i pittori utilizzavano comunemente è anch’essa una forma geometrico - matematica.

Così, nella casa di un militare104 si può trovare una “battaglia senza storia” di Salvator Rosa,105 un quadro, cioè, che non rappresenta una battaglia particolare e determinata ma l’idea stessa della battaglia. In casa di un professore di Greco classico, invece, vediamo perfettamente collocato un quadro con rovine antiche del Panini, e così via. Tutti quadri in cui le categorie di lettura del quadro sono ovvie, purché si possiedano i mezzi culturali necessari e la capacità interpretativa tecnica; diverse sono le categorie del giudizio, che valutano la “riuscita” delle opere secondo l’effetto che possono fare sul fruitore - acquirente. Riprenderemo tra poco questo argomento.

Opere che hanno anche un valore “turistico”, essendo di soggetti caratteristici e fra questi, in parte, vanno collocate anche molte nature morte specie napoletane. Nulla di strano, poi, che l’estrema specializzazione portasse a quadri con l’intervento di più autori, come il Mei, il Bonzi ed il Salini a Roma, visto che già queste forme di divisione del lavoro erano nella pratica di bottega sin dal Medioevo. Un discorso a parte meriterebbe la pittura di Pitocchi, scenette popolari e cose simili e tutta la pittura di Bamboccianti.106 Si tratta di generi in cui il contenuto reale è il rapporto tra classi sociali.

Dopo il Concilio di Trento e per tutto il Seicento la Chiesa Cattolica sviluppò un’intensissima attività di recupero e soccorso delle classi sociali più umili in contrapposizione alle chiese riformate che vedevano nella povertà un riflesso della predestinazione divina.107 Questa attività rientra nella concezione che le opere siano necessarie per la salvezza; di qui a considerare l’agire umano buono in sé sempre e comunque il passo fu breve.

Senza voler distinguere tra arte barocca ed antibarocca, la vera novità del secolo è l’estensione dell’uso dell’arte ad ogni aspetto del reale e dell’immaginario; non era una novità assoluta, ma acquistò una particolare valenza proprio perché c’era piena coscienza della limitatezza dei contenuti. Morale anzitutto, originata dall’impossibilità di attribuire significati profondi a molti di questi “generi”. Una conseguenza fu che anche tipologie di soggetti più tradizionali si trasformarono in generi a sé stanti. Il padre Ottonelli,108 un gesuita, distingue già bene tra forma e contenuto giustificando, attraverso l’arte, anche contenuti immorali (nella mentalità dell’epoca) come il nudo.

Un esempio fu la grande decorazione o, se si preferisce, la decorazione di grandi ambienti, da distinguere poi in sottocategorie secondo i tipi di ambiente da decorare. In questi casi si ritorna a caricare le immagini di significati e contenuti allegorici ma giuocando, letteralmente, sull’interscambio tra realtà ed immaginazione col rendere reale l’immaginario. Del resto “immaginazione” e “immaginario” sono termini che derivano direttamente da “immagine”; immaginare, in quest’epoca, ancora vuol dire dare consistenza nell’intelletto ad un’immagine il cui contenuto può essere qualunque frutto del pensiero.

Nella chiesa di Sant’Ignazio, a Roma, nel soffitto di Andrea Pozzo, si può vedere il santo portato in Cielo da angeli, secondo un progetto iconografico che realizza in immagine il fatto che dalla Chiesa si vada direttamente in Cielo, confondendo i termini chiesa - edificio con Chiesa - corpo mistico di Cristo e Cielo - luogo fisico con Cielo- Paradiso. E come sono reali gli angeli! Per confondere meglio l’effetto prospettico della struttura fisica dell’edificio che si prolunga verso il Cielo aperto, poi, alcuni di questi angeli sporgono realmente nello spazio dei fedeli con la loro tridimensionalità di stucco. Osserviamo anche, per inciso, che le immagini di angeli si moltiplicano in questo secolo in modo quasi abnorme, confondendosi con quelle degli amorini di memoria classica, in particolar modo nel mondo cattolico, dove rappresentano il continuo interessarsi di Dio riguardo all’uomo.109 La fortuna di Andrea Pozzo fu tale che divenne quasi obbligatorio imitarlo in tutte le nuove chiese cattoliche ed europee particolarmente nei paesi germanici.

Si è detto che Roma è una città immaginaria realizzata, ma questo è vero per tutta l’arte di questo secolo, e la chiave di lettura è nell’ambiguità del ruolo del fruitore. È tutto interconnesso, il fruitore è l’obiettivo per il quale l’artista compone l’opera, con lo scopo di vendergliela naturalmente, ed al tempo stesso è il fattore determinante dell’opera stessa, perché pur non essendone il committente è pur sempre chi la deve volere, scegliendola e determinandone la fortuna artistica e commerciale. Questa ambiguità è tale che la centralità, nelle grandi piazze del Bernini, è sempre negata, come in Michelangelo, da un obelisco o una fontana; il fruitore vive uno spazio carico di significati allegorici e neppure li conosce e, come avevamo già osservato, questo spazio è così ben vivibile che nessuno se ne cura più di tanto.

Chi, dei turisti, sa che la Fontana di Trevi ha la forma di un teatro greco, in cui il palazzo retrostante è la scena e lo specchio d’acqua l’orchestra? La musica è il rumore dell’acqua stessa. Quello che più conta è che lo spettatore, passando dalla piccola gradinata alle fontanelle dalle quali si attinge l’acqua110 passa anche dal ruolo di spettatore a quello di attore nel Trionfo di Nettuno, del quale, peraltro, nessuno ha trovato ancora alcun sicuro significato allegorico specifico. Un particolare interessante è dato dalla forma delle rocce, che dovrebbero essere naturali ma non sono state realizzate con massi grezzi bensì lavorando il travertino111 e lasciando bene in vista le linee di separazione tra i vari lastroni. Una vera scenografia composta come se fosse di cartapesta, solo usando un materiale più resistente all’aperto ed all’acqua.

Questo concetto scenografico dello spazio è mutuato dal teatro, da sempre realtà virtuale e non effettuale.112 In Italia le massime espressioni barocco-teatrali sono nelle arti visive, ma certamente la perfezione che raggiunse la letteratura teatrale (appunto) inglese con Shakespeare non può essere certo considerata inferiore, anzi! Questa forma teatrale è la più evidente ma tutta la produzione artistica del secolo dimostra la possibilità di far vivere totalmente una realtà virtuale ed interiore al fruitore.

Così il Don Chisciotte di Cervantes vive coscientemente la realtà dei suoi libri e muore quando li bruciano perché… La Vita è Sogno, diceva Calderon de la Barca. Ma poi, non sono forse sogno le donne belle e formose di Rubens in cui la sensazione della pelle è data da quel famoso sovrapporsi di strati semitrasparenti di colore? E la sensazione è reale e più efficace di una vera carezza perché più intellettuale, più raffinata, più pura. Talora la pelle è sostituita dalla seta, e allora si genera un’ulteriore giuoco di sensazioni suggerite.

Non serve ripetere gli infiniti discorsi sullo spazio che si restringe del Borromini o su quello che si dilata di Bernini e sulle loro altrettanto infinite invenzioni architettoniche; noteremo invece che quelle categorie di giudizio che, necessariamente, appartenevano sia all’autore che al fruitore dell’opera a questo punto vengono fatte vivere all’interno del fruitore stesso in modo, come abbiamo detto, virtuale ed aperte ad ogni possibile azione di scambio psicologico.

Le categorie del bello, si badi, sono sempre quelle classiche rinascimentali e la vera novità nella problematica non  è, come credevano i critici di allora, l’aderenza o meno alla natura o la possibilità di migliorare o no quest’ultima ma, come abbiamo appena detto, proprio il modo in cui vengono vissute dal fruitore stesso.

Al di la di questo modo “virtuale” il Barocco nasconde il più freddo utilitarismo propagandistico nell’uso dell’immagine o dello spazio. Nell’Oratorio dei Filippini alla Chiesa Nuova Borromini non si preoccupa di creare solo delle profondità immaginarie ma piuttosto un razionale collegio con un impianto idraulico che porta l’acqua corrente ai bagni privati dei religiosi all’ultimo piano ed in cui le balaustre del coro hanno colonnine svasate per permettere ad ogni fila seduta sui gradini di vedere la funzione sopra le teste di quella davanti.113 Una curiosa fontana a forma di zuppiera nella piazza antistante ci permette di ricordare il concetto di Arredo Urbano, che, in questo caso, viene inteso letteralmente e che permette di vivere la Città di Roma quasi come un grande ambiente domestico

Allo stesso modo i piani urbanistici di Roma, iniziati nel Cinquecento e sviluppati nel secolo successivo, possono essere visti come l’aspetto commerciale dell’uomo cattolico, che deve muoversi e “fare” e per questa attività ha bisogno di strade lungo le quali camminare, trasferirsi e, al tempo stesso, comperare e vendere andando direttamete da un centro commerciale all’altro. Ricordiamo che a Roma anche i centri religiosi avevano un aspetto economico prevalente e che allora era la città con il più alto tenore di vita esistente. Ancora oggi passeggiare per queste strade osservando le vetrine dei negozi più lussuosi ha un fascino ineguagliabile.

Realtà virtuale, spazio virtuale e scenografico non sono in contraddizione con questi aspetti economici della vita, anzi, si accordano perfettamente nell’animo del fruitore-cliente. Chi deve comprare un abito nuovo non può fare a meno di immaginarsi vestito in quel modo e chi deve intraprendere un lungo viaggio esplorativo potrà avere ottimi spunti di meditazione nella fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona. Anche se si vuole diventare santi si possono trovare immagini che realizzino la propria realtà virtuale, naturalmente indirizzandoci anche al tipo di attività religiosa che ci è più congeniale o che l’apposita Commissione di Propaganda ritiene tale, visto e considerato che di libertà religiosa in questo secolo non si può certo parlare.114

Nello stesso ambito bisogna inquadrare anche quelle correnti artistiche che sembrano contrapporsi al Barocco. Abbiamo già accennato alla Pittura di Genere, altrettanto bisogna dire del Naturalismo. In Caravaggio la realtà è presentata con tanta aderenza al vero da sfiorare quello che oggi si chiama iper-realismo, ma l’illuminazione ed il taglio delle immagini sono sempre teatrali, solo che invece di usare un’illuminazione diffusa usa il lanternone degli effetti speciali (oggi uno spot), senza luci sulla ribalta o frontali. Il congelamento dei gesti aumenta la drammaticità della scena, come quando in teatro si chiude improvvisamente il sipario sugli attori immobili in qualche posa drammatica. C’è anche da tenere presente che la sua aderenza alla natura (come si diceva allora) o alla realtà (come si dice oggi)115 è tanto accentuata da apparire spesso irreale. Chi mai perde tempo ad esaminare i piedi sporchi altrui se non vi è indotto? Lo capirono benissimo sia i detrattori che gli ammiratori del famoso San Matteo e l’Angelo di San Luigi dei Francesi a Roma. La vera differenza tra la pittura religiosa di Caravaggio e dei suoi seguaci, specie francesi, e quella dei classicisti è nel tipo di attività religiosa proposta e le differenze tecniche dipendono da ciò.

Nel trittico dedicato al santo sono indicati i tre momenti essenziali di un cristiano impegnato nella difesa della fede: la chiamata, il martirio e, al centro, un episodio che indichi in cosa consista la santità. Nella Vocazione di San Matteo la scena è rappresentata in modo che solo conoscendo il titolo si possa riconoscere l’episodio; per tutti i presenti si tratta semplicemente di una persona venuta a chiamare uno di loro per motivi che ignorano, a parte Cristo (appena riconoscibile) ed il santo. La realtà visiva, naturale, non ha nulla di miracoloso o di speciale, è quella interiore e morale che conta. Nel quadro centrale Caravaggio, che è credente,116 rappresenta fisicamente anche l’angelo che, secondo la leggenda, insegnò a San Matteo ultraottantenne a leggere e scrivere per tramandare la parola di Cristo. La santità di Matteo consiste nella sua volontà e nello sforzo di imparare, pur con la difficoltà che derivava dall’età; il suo volto, mentre l’angelo gli insegna a compitare, esprime questo sforzo, ma non una grande elasticità mentale, e questo è più scandaloso, anche se realistico, dei piedi sunnominati. Ma che valore avrebbe l’agire del santo se non fosse costato nessuna fatica? Nel terzo quadro viene rappresentata la logica e consequenziale fine di una vita coerentemente cristiana, il martirio. Qui ritroviamo un problema che Caravaggio apparentemente aveva accantonato: quello del bello. Il corpo del carnefice è nudo invece di essere in divisa, contro ogni logica storica, e bellissimo, anche se la ferocia dell’urlo bestiale con cui uccide il santo, vecchio e brutto, dà un’impressione di orrore tale che si trasmette a tutta la figura facendola sembrare deforme. Bellezza e bontà sono totalmente disgiunte; crediamo che in questo, non nelle tecniche compositive, consista il vero anticlassicismo di Caravaggio. Il tema della bellezza del peccato e della deformità interiore che induce nel peccatore, evidente anche in altri dipinti ha anche un valore personale ed autobiografico.

Non a caso tra i sui protettori ed estimatori maggiori furono sempre gli esponenti del partito filofrancese, che arrivarono persino a proteggerlo dopo la condanna per omicidio.117 Può essere interessante un paragone con il perdono subito concesso a Bernini, arrestato per tentato omicidio alcuni anni dopo, perché “huomo raro, ingenio sublime, e nato per disposizione divina, e per gloria di Roma a portar luce a quel secolo”; ma il Bernini era protetto dalla cognata di papa Innocenzo X, l’onnipotente Olimpia Pamphili.

La lettura di un’immagine cambia notevolmente secondo le reciproche posizioni tra il piano su cui si collocano l’immagine stessa ed il fruitore. Nel corso del XVI secolo si era ormai totalmente padroni della gestione di questo rapporto ed il mezzo privilegiato dedicato a ciò era anche il metodo principale di rappresentazione: la prospettiva. Rappresentazione, letteralmente, vuol dire presentare dinanzi agli altri ma, nell’Italiano più antico, il significato si fonde, anzi, si arricchisce, con lo scopo per cui si rappresenta: far capire e spiegare l’oggetto rappresentato. Così la prospettiva non è più solo un sistema geometrico-matematico per trasportare immagini ottiche su di un piano ma diviene un prolungarsi nello spazio reale del fruitore.118 I pittori dell’Accademia, i Carracci anzitutto, misero a punto un sistema per spingere i fedeli a sentire la loro fede partecipando alle scene proposte proprio usando in modo nuovo la prospettiva.119 Un particolare di uno dei personaggi, in genere un piede120 o una mano, viene dipinto in modo che sporga, prospetticamente, oltre il piano di affioramento, venendo così a trovarsi nello spazio di chi guarda. La figura, o meglio, il personaggio penetra a sua volta all’interno dello spazio del quadro (virtuale ovviamente) con un gesto che ne indica al fruitore un altro il quale a sua volta indirizza esplicitamente al soggetto principale. Così il fruitore, o meglio, lo spettatore (siamo o no a teatro?) viene fatto entrare gradualmente nella scena, quasi senza accorgersene. L’effetto è accentuato dall’illuminazione scarsa, che spesso coincide con quella reale di qualche finestra, come già era stato fatto da Michelangelo nella Cappella Sistina, in cui la recente pulizia ha evidenziato un’illuminazione interna al Giudizio coincidente con la luce proveniente dalle finestre del lato più aperto al cielo autentico.

A chi obiettasse che questi effetti sono poco evidenti proprio a causa della scarsità di luce, facciamo notare che è oggi che la fretta dei turisti ha fatto illuminare le chiese con potenti lampade elettriche, ma che allora ci si fermava a pregare anche per ore e certo senza fretta, tanto che l’occhio, adattandosi, piano piano riusciva a vedere tutti i particolari. Si comiciava ad osservare, per un semplice meccanismo psicologico, prima quelli che erano visti come apparentemente più vicini e posti sul piano teorico di affioramento e poi, lentamente, gli altri sempre più interni. Che l’effetto fosse voluto lo dimostra il fatto che spesso nell’Italia del Seicento nelle chiese più antiche, specie le basiliche bizantine, venivano chiuse parte delle finestre perché gli ambienti erano considerati troppo luminosi.

Piuttosto vorremmo far notare che l’applicazione di queste tecniche operative psicologiche sull’immagine si estendeva anche a temi secondari, o considerati tali, dal punto di vista del potere ma che potevano avere un’importanza notevole sulla vita di un’individuo e dei suoi rapporti sociali. In questi campi la libertà creativa, sempre tecnicamente parlando, degli artisti diveniva libertà assoluta e, quando il tema era rilevante per la società o quando rispecchiava comportamenti diffusi, bastava riportarlo fuori del contingente momento storico; come si faceva per i comportamenti sessuali più trasgressivi, che era sempre lecito rappresentare nel mito e nella poesia. L’arte compie questo passaggio in un mondo mitico, dove l’anima è libera da un mondo reale di assolutismo ed intolleranza. Anche la natura e la storia vengono mitizzate. Annibale Carracci inserisce il fatto umano in un paesaggio superiore (moralmente) al reale, una vera e propria visione (pensiamo alla fuga in Egitto della Galleria Doria-Pamphili di Roma) mentre Poussin riesce ad elevare tutto, uomo e natura, ad un’eroicità esemplare. Ancora una forma di classicismo, certo, ma quanto è diverso dal popolano l’intellettuale che la vive!

La stessa qualità dell’immagine è sfruttata per creare un mondo “personale”. Si vive in un mondo “mitico” attraverso la poesia e ci si proietta in una dimensione eterna, portandoci anche il mondo materiale ed economico, che erano le nuove reali dimensioni dell’uomo. Se il problema è di metodo il giudizio è, in arte, non la ricerca di nuovi mezzi logici espressivi ma una valutazione sul loro utilizzo. Viene da domandarsi: categorie di lettura o categorie di vita dell’opera d’arte (se così si può dire)?

L’arte, intesa anche come applicazione di una professionalità precisa, può tutto ed i più “bizzarri” accostamenti di strutture architettoniche di Borromini stanno a dimostrarlo, ma non bisogna dimenticare che questi stessi accostamenti permettevano per la prima volta un recupero del Medioevo (le lapidi più antiche incorniciate a San Giovanni a Roma): una mistura di moderno, classico e medioevale che era altrettanto bizzarra, intellettualmente, almeno nei criteri culturali dell’epoca almeno quanto il risultato stilistico. Si potrebbe anche parlare di Post-moderno ante litteram. Un recupero dell’età di mezzo principalmente storico, che mostrava come la peculiarità tecnica della professione di architetto potesse adattarsi ideologicamente ad ogni esigenza. Anche il Gotico aveva una concezione dinamica dell’architettura come il Barocco e ciò può spiegare in parte l’operato di Borromini. Questo è possibile perché i criteri di giudizio e lettura dell’arte sono ormai legati a fattori di gusto indipendenti dai contenuti espressi nell’opera. Le categorie logiche di questo giudizio divengono, da questo momento, esse stesse un problema. Comincia a non bastare più la rispondenza dell’opera a criteri comuni all’autore, al committente ed al fruitore, criteri già ben determinati come colore, prospettiva, disegno ecc., perché scopo dell’agire artistico non è una verità logica ma psicologica, nella quale, come già avevamo detto, non si dimostra nulla, ma si vive.

I mezzi descrittivi dell’arte sono potenti e le tecniche teatrali divengono sempre più raffinate ma quello che si vede non corrisponde ad una concezione qualsiasi dell’esistente ma ad una apparenza. Così i nobili, in un salone delle feste affrescato con un convito di dei (pensiamo ai Carracci a Palazzo Farnese a Roma) si sentono come dei tra gli dei, e siamo convinti che si sentissero tali realmente; allo stesso modo che Bernini ritraeva i suoi ricchi clienti come questi credevano di apparire agli altri o che Rembrandt ritraeva o, meglio, cercava se stesso cambiando continuamente cappello e fisionomia e Dio solo sa se sia mai riuscito a trovarsi. A Rembrandt si può avvicinare Velasquez, che riesce a dare ai propri ritratti una capacità descrittiva psicologica profonda, nella quale traspare un senso di assoluto e grandioso che è nell’interno dello spirito umano piuttosto che nelle apparenze, chiunque sia il soggetto.

In sostanza leggere i contenuti di un’opera d’arte e comprenderli non corrisponde affatto alla valutazione che se ne dà e le categorie di lettura non sono le stesse necessarie per un giudizio. Non è solo necessario e non basta che il fruitore conosca il linguaggio artistico, le sue convenzioni e la sua sintassi, almeno nei propri limiti culturali; perché un’opera d’arte sia tale non deve corrispondere solo a criteri di bellezza obiettivi ma anche ad un gusto particolare, a dei criteri variabili coi tempi, gli ambienti e perfino col carattere dei singoli non essendo già più sufficiente che egli la viva virtualmente dentro di sé. È la conseguenza di un’azione artistica volta ad agire sulla società facendo leva sulla psiche degli individui, non importa se per fini religiosi, commerciali, politici o altro. Quando poi questi fini vengono messi in disparte e prevale il gusto del momento possiamo parlare di Rococò. Queste considerazioni sono anche supportate dalla letteratura artistica del secolo. Si perdonerà ancora il prevalere di citazioni italiane ma, come avevamo precisato nell’introduzione, preferiamo fare riferimento a contesti ben conosciuti sia per evitare dispersioni che brutte figure. Naturalmente continua ad essere sempre valido l’invito a trasferire, se lo si crede opportuno, il ragionamento adattandolo ad altre situazioni storiche meglio conosciute. Quello che conta è il modo di impostare i problemi prima ancora che gli argomenti.

Siamo sempre in un ambito logico nel quale le categorie interpretative dell’opera d’arte sono in comune tra artista, commitente e fruitore, sia pure sotto forma di gusto. Il fatto è che i contenuti per i quali viene prodotta ed acquistata un’opera d’arte non sono solo quelli logici, ma quelli estetici, inerenti all’opera d’arte in quanto tale. Così l’artista non applica più la sua tecnica a dei contenuti preconfezionati ma il suo stile, non per impegnare l’intelletto ma per commuovere con il sentimento. In altre parole l’acquirente tende sempre più a valutare le caratteristiche estetiche dell’opera, e queste sono il vero contenuto che deve essere letto e capito in funzione del quale bisogna valutare le categorie di lettura dell’opera d’arte. Queste tiene presenti l’artista quando lavora e queste l’acquirente quando valuta; naturalmente bisogna che l’acquirente sia intenditore d’arte.

Chiarendo quanto abbiamo sommariamente detto sinora tra l’ultimo trentennio del xvi secolo ed il primo del XVII non si formano nuove categorie di lettura dell’opera d’arte ma nuove categorie di giudizio. Queste erano già implicite nelle valutazioni che dell’opera si davano precedentemente ma ora divengono esplicite e si sovrappongono alle prime confondendosi con esse. L’uso dell’immagine è totalmente disinibito (non in senso morale ma tecnico) ed il giudizio è prima di tutto del committente e finalizzato al raggiungimento di fini propagandistici.

La critica del Seicento introduce una quantità di nuovi parametri di giudizio che modificarono le categorie di lettura dell’opera d’arte stessa, continuando un processo già iniziato col tardo Cinquecento. Si legge l’opera d’arte in base al gusto, al sentimento, all’emotività che questa può generare e di cui è tramite tra il pittore ed il fruitore per cui rimane da definire se il contenuto di un’opera d’arte sia quello logico o, piuttosto, l’azione che questa attiva sul fruitore – spettatore. Il Paleotti,121 nel salvare il nudo nell’arte, implicitamente ammette che il vero contenuto sia il bello come valore autonomo, fruibile e godibile ed il de Piles,122 con le sue argute votazioni, valuta essenzialmente il modo di comunicare, non i contenuti, dei quali non discute.

Ci si avvia apparentemente ad un arte in cui l’opera non deve trasmettere contenuti tra l’autore e lo spettatore ma sensazioni estetiche e sentimenti. Sotto molti punti di vista l’Illuminismo, con la sua reazione al Barocco e l’eccesso di razionalità, fermò questo processo. I mutamenti nelle categorie di lettura delle opere d’arte corrispondono alla tendenza a coincidere con i criteri di giudizio perché le opere stesse vengono fatte in funzione di questi criteri; la conseguenza è la nascita di un nuovo modo di affrontare il problema della loro lettura.

La trattatistica d’arte prima del Neoclassicismo,123 non compie grandi progressi sul piano puramente teorico rispetto a quella precedente ed il problema dell’arte è sempre quello dell’imitazione della natura e della validità dei modelli classici. In realtà ogni autore introduce qualche nuova idea o qualche nuovo punto di vista che lentamente portarono alla nascita dei concetti di “estetica”124 e di “critica d’arte”.

Tra costoro citiamo anzitutto il Mancini125 affermò che per giudicare un’opera d’arte non fosse richiesta una particolare perizia tecnica. Per quanto sembri strano nessuno aveva mai affermato precedentemente una cosa del genere. In effetti i grandi committenti ed i mecenati che avevano dato impulso all’arte sino ad allora vanno considerati come facenti parte del processo generativo dell’opera; la situazione cambiò evidentemente con la loro graduale e parziale sostituzione con degli acquirenti inesperti, obiettivo finale e non punto di partenza di questo processo. Nel Mancini viene anche valutato il ruolo dei “dilettanti” nei confronti dei professionisti. Se si intende correttamente il termine quale era usato allora, riferito a “coloro che fanno una cosa per puro piacere”, si può anche vedere in questo un altro indizio del progressivo sganciamento dell’idea d’arte dalle proprie implicazioni tecniche. Peccato che il Mancini, nel concreto, di arte non capisse gran ché.

Più generale è la sostituzione del vecchio concetto di “bottega” con quello di “scuola” che si riferisce a rapporti stilistici ed ideologici; il primo a parlarne era stato due secoli prima l’altrimenti sconosciuto Michele Savonarola.126 Il Bellori127 riporta una lettera del Domenichino in cui questo identifica le scuole di Roma, Venezia, Lombardia e Toscana ignorando, come tutti gli Italiani presuntuosamente facevano e fanno ancora, tutto quanto si facesse all’estero. Sempre il Bellori riporta ed amplifica le teorie di Poussin che possono essere riportate in questa forma: “lo stile è una maniera particolare et industria di dipingere, e disegnare nata dal particolare genio di ciascuno nell’applicazione e nell’uso delle idee, il quale stile, maniere o gusto si tiene dalla parte della natura e dell’ingegno”. Il concetto di stile è essenziale per una corretta interpretazione di quello di scuola, perché sostituisce, o meglio, integra quello di tecnica.

Altri concetti vengono introdotti, anche se non definiti, dal Baldinucci128 che parla di “gusto”, “ingegno”, “genio”, “immaginativa”, “fantasia” che portano a riconoscere nell’arte una facoltà diversa dall’intelletto, il sentimento. Il Boschini,129 a sua volta, nell’esaltare la scuola veneta, parla di “macchia” per quanto riguarda la tecnica e di “invenzione” per la valutazione delle opere pittoriche: Due studiosi francesi, oltre al già citato Poussin, il des Avaux130 ed il de Piles131 introducono rispettivamente l’uno il termine “connoisseur”, conoscitore, che è la naturale evoluzione delle teorie del Mancini; l’altro l’equivalenza tra disegno, colore, ombre e luce nella composizione. Inoltre il de Piles inventa una “Bilancia dei Pittori” con voti in composizione, disegno, colorito ed espressione, fornendo, così, un metodo di valutazione ai conoscitori. Già abbiamo visto che il Carducho avesse introdotto il termine “genio”, riferendolo ad una capacità creatrice congenita alla personalità dell’artista. Se si riuniscono tutti questi termini si ha già la terminologia della critica d’arte moderna.

 

 

IL ROCOCÓ

 

Una possibile interpretazione di alcuni dei fenomeni artistici visti nel paragrafo precedente è il classificarli come reazione al Barocco; qui si è cercato, piuttosto, di unificarne la visione dal comune punto di vista di un’arte che si preoccupa di agire sulla psiche del fruitore piuttosto che di interpretare o rappresentare la realtà. Un’altra differenziazione possibile è anche quella di separare i committenti tra pubblici e privati, ma le espressioni artistiche che si possono identificare sono sempre le stesse, poiché al Barocco corrispondono i grandi committenti, re, papi, ordini religiosi ecc., mentre alla pittura di genere ed alla ritrattistica psicologica corrispondono i borghesi.

Il Rococò132 è la continuazione del Barocco sia stilisticamente che socialmente; si distinguono nella minore forza che si esercita sul fruitore, cui corrisponde un aumento della raffinatezza espressiva. Nell’ambito del Rococò è più giusto parlare di “fruitore” che di “spettatore”. Perciò il Rococò non è distinto in modo particolare nelle storie dell’arte dal Barocco, tranne che in Italia. Riteniamo che basti un esempio per spiegare la differenza: se ad un grande quadro barocco con una ricca cornice togliessimo le immagini o, se si preferisce, i contenuti e lasciassimo la cornice vuota avremmo ottenuto un’opera rococò. In realtà il contenuto c’è, ed è la luce che batte sulla parete vuota e definisce lo spazio. Nei saloni per le feste ed i balli al posto delle raffigurazioni di dei si mettono specchi, il cui contenuto sono i convitati stessi.

Riprendendo il discorso del paragrafo precedente nell’ottica generale del libro osserviamo solo che il “gusto”, in quanto determinante per una corretta scelta artistica degli interessati, deve essere un criterio comune, come per gli umanisti la prospettiva, la conoscenza dell’antichità e la cultura classica, solo che non è connesso ad alcun fattore culturale specifico. Le variazioni del gusto furono chiamate “moda” e divenne presto chiaro che potevano essere indotte e regolate a piacere.

Il concetto di moda corrisponde anche ad una maggiore libertà di pensiero dell’individuo. Non è più possibile influenzare le scelte personali cercando di forzarle e si agisce, più subdolamente, sulle cose di minor conto, esteriori, ma che ne possono determinare i comportamenti. Di fatto i termini si invertono e dato che la produzione spesse volte segue e non anticipa i mercati, gli artisti volentieri seguono e non precedono i gusti del momento. Boucher, con la sua pittura “di tette e di culi”133 non è solo la raffinata espressione di una corte licenziosa ma anche il chiaro indice di una nuova visione, più materiale ma più libera, del sesso e dei comportamenti umani in genere; visione possibile per ora solo in una classe sociale culturalmente indifferente (in teoria) ai problemi economici: la Nobiltà. In questa il sesso, anche omosessuale, era sempre un valore relativo e secondario rispetto a quelli caratterizzanti la classe stessa. I borghesi sono troppo seri per questo e lo saranno ancora per secoli. Notiamo solo che se l’arte è diversa per le diverse classi sociali potrebbero anche essere diverse le categorie di lettura delle opere d’arte oltre ai criteri di giudizio. I Neoclassici, per rimanere in tema giudicarono di carattere “femminile” il Rococò perché troppo lezioso e “maschio” il Barocco che esprimeva, o almeno poteva, poteri forti.

Boucher lavora di sfumato e di luce; Canaletto, un pittore-imprenditore veneziano, usa la luce a piccoli intensi tocchi in vedute che agiscono sulle facoltà razionali del fruitore per fargli ricordare o vedere la realtà. Abbiamo detto vedute e non visioni (quali erano i paesaggi classicisti) legate ai fenomeni ottici, tanto che Canaletto usava una “camera chiara”134 per fare dei disegni preparatori. L’uso “turistico”135 delle sue vedute fece sì che la sua affezionata clientela inglese preferisse i quadri di soggetto veneziano a quelli fatti in Inghilterra che pure, se obiettivamente guardati, sono forse la sua produzione migliore.

Con Canaletto siamo in pieno clima illuminista, nel dominio della ragione. C’è da chiedersi se in lui la funzione dell’arte sia ancora il rappresentare. Nei suoi quadri il contenuto vero è un’indagine sui mezzi della ragione. Ci sembra quasi inutile sottolineare le differenze tra visione barocca e la veduta illuminista ma notiamo che queste stesse posizioni mentali in campo musicale, in Vivaldi si ripetono nel contrasto tra armonia ed invenzione, e questi a sua volta scambiava i propri componimenti con Bach... La visione nasce dalla fantasia e dal sentimento, la veduta dalla ragione e dalla sua capacità di riconoscere la proporzione e l’armonia della natura. Questa contrapposizione tra visione e veduta anticipa quella successiva tra Romanticismo e Neoclassicismo.

Un uso analogo della luce è anche nelle architetture, che su questo elemento si costruiscono, abolendo i muri e lasciando che si sviluppassero liberamente nell’aria le strutture portanti di cupole o scalinate. Così come nella luce del paesaggio si sviluppano ville e reggie, basti ricordare il Casino di Caccia di Stupinigi dello Juvarra che non è nel paesaggio, è il paesaggio.

Questa sorta di purificazione del Barocco è la primissima apertura ad un’arte nuova che da un lato porterà ad un funzionalismo perfetto e dall’altro troverà nelle proprie strutture, pure, le ragioni autonome della propria esistenza. Più o meno come l’erotismo della pittura sopraddetta finisce per essere un compiacimento estetico che trova in se stesso le proprie ragioni ed a noi sembra che sia molto meno scandaloso di quanto sembri. E poi, è tanto riprovevole il piacere?

Le palazzine che il Raguzzini costruì dinanzi a Sant’Ignazio, a Roma, sono disposte come le quinte di un teatro: è divertentissimo entrare ed uscire nella piazza dai vicoli adiacenti, provare per credere. Al Milizia, di cui parleremo tra poco, sembravano dei canterani, i mobili per la biancheria che si usavano allora (ed è vero) basta immaginare che le cornici delle finestre siano le maniglie dei cassetti ribaltate; ma non è questo l’indice di un nuovo modo di concepire anche l’arredamento? Non più disgiunto dall’architettura e dalla gestione dello spazio è un’estenzione del concetto già visto di arredo urbano.

Tornando al discorso principale dovremmo dire che nel ‘700 diviene esplicita anche la separazione delle categorie del giudizio dalle categorie di lettura ma, a questo punto, siamo proprio nel Neoclassicismo.

 

 

CONCLUSIONE ALLA SECONDA PARTE

 

Riprendiamo, concludendo questa seconda parte, l’ipotesi di una storia dell’arte che consideri quest’ultima come mezzo di passaggio dalla realtà della vita a quella dello spirito.

Ci sembra che il periodo considerato si presti particolarmente ad uno studio del genere. Il fatto stesso che le categorie di lettura delle opere d’arte non coincidano con i contenuti logici delle stesse permette di utilizzare le forme espressive più efficaci per trasportare, letteralmente, lo spettatore (o il fruitore, non importa come lo si chiami) in una realtà diversa da quella che vive, generata dalla fantasia dell’artista che plasma, a suo talento, l’immaginazione altrui.

Abbiamo visto, così, che i significati logici dell’opera d’arte finiscono per diventare spesso secondari, nascosti sotto altri, formali ma più evidenti. Nel XVII secolo il fenomeno assunse la sua completa consapevolezza nella ricerca della dimensione del sogno nei maggiori drammaturghi europei e con la creazione di realtà virtuali, quasi vive nella loro ispirazione scenografica, negli architetti che operarono nell’ambito dell’area culturale della Roma cattolica.

L’arte divenne il terreno in cui il pensiero poté liberamente manifestarsi, forse proprio perché le categorie di lettura di un’opera erano ormai totalmente separate dai suoi contenuti e, soprattutto, i criteri del giudizio non tenevano conto di questi, lasciandoli formalmente liberi.

Proprio il problema della libertà sarà il maggior problema del Neoclassicismo.

 

 

NOTE ALLA SECONDA PARTE

 

1 Anche se da una famiglia spesso in lotta con i monaci per problemi feudali.

2 Non cosa conoscere ma come conoscere.

3 San Tommaso era contrario ad ogni forma di “illuminazione”.

4 Si scusino le ripetizioni, ma è sempre meglio essere chiari.

5 Nel senso proprio del termine.

6 Tralasciamo l’indagine sui successivi gradi della conoscenza, notando solo che la conoscenza della realtà sensibile non è la conoscenza della sua essenza, raggiungibile solo con l’intelletto.

7 Giovanni Fidenza, Bagnorea (oggi Bagnoregio) 1221 - Lione 1274.

8 Itinerarium Mentis In Deum, II, 8. Riconoscere l’orma, il vestigium divino avviene in due modi: Per Speculum, come attraverso uno specchio e In Speculo, nello specchio; il secondo è superiore al primo perché non si limita a vedere un riflesso ma a guardare “dentro” il riflesso, dentro, cioè, le sue caratteristiche peculiari.

9 Qui è un evidente recupero parziale di Platone.

10 Ciò corrisponde a quanto abbiamo detto a proposito della teoria della conoscenza in San Tommaso. La collettività nella società medioevale è un insieme di individualità con un universale in comune.

11 Questo avviene anche nel cinema.

12 In Provenza la crociata contro gli Albigesi troncò violentemente quello che avrebbe potuto essere il vero centro culturale del Mediterraneo.

13 Nel Trecento Firenze da sola era più ricca di tutto il regno di Francia.

14 Tralasciamo la questione dell’attribuzione e del restauro dell’opera.

15 Questa concezione unitaria dell’uomo unita all’idea di progresso, che Dante teorizza proprio nei versi in cui attesta la superiorità di Giotto, sono decisamente i veri germi del futuro Umanesimo.

16 L’argomento è stato approfondito in Umberto Milizia, La pittura di Dante, La concezione delle arti figurative in Dante, Ed. artecom, Roma 2000.

17 Questo termine è poco frequente al tempo di Giotto ma già di uso comune due generazioni dopo, ad. es. nel Cennini.

18 Umberto Milizia, La pittura di Dante op. cit.

19 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di Antonio Lanza, Firenze, Sansoni, 1993, IV ed., Novella CXXXVI, 3-4

20 In Millard Meiss, Painting in Florens and Siena after the Black Death, Princeton University Press, 1951.

21 Vd. l’introduzione al presente volume.

22 “Giotto ancora è il migliore perché ancora non è venuto un altro più abile di lui, sebbene abbia fatto talora dei grossi errori nei suoi dipinti, come ho sentito da grandi esperti.” in Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, Firenze 1887.

23 “la cui bellezza non capiscono gli inesperti, ma della quale si meravigliano i maestri dell’arte” in Francesco Petrarca, Rerum Familiarum Libri, ep. V, a cura di V. Rossi, Firenze, 1933-1942. Notiamo per inciso quanto sia più elegante il Latino di Petrarca rispetto a quello ancora medioevaleggiante di Benvenuto da Imola, come le sue idee del resto.

24 “I dotti capiscono la ragione dell’arte, gli ignoranti il piacere”, Marco Fabio Quintiliano, op. cit.

25 E qui l’uso del termine è esatto.

26 Ma non si dimentichi mai il problema di poter distinguere il magister dai propri aiuti.

27 Ancora dopo parecchi secoli si distinguono bene figure e parti fatte da persone diverse sia per lo stile che per la tecnica usata.

28 Sia nell’accezione antica che moderna del termine.

29 La concorrenza commerciale tra botteghe era molto sentita.

30 Petrarca in una celebre lettera sosteneva di non aver letto la Divina (l’appellativo era già in uso) Commedìa di Dante della quale invece, ad un attento esame, sono frequenti i ricordi nel Canzoniere; precedentemente Boccaccio gli aveva inviato una copia della Commedìa invitandolo a leggerla. F. Petrarca, Rerum Familiarum Libri, XXI, 15, op. cit. Vd. anche N. Scarano, Francesco Petrarca, raccolta di saggi dal 1887 al 1907 a cura di Isotta Scarano, Trivento, 1971.

31 Cennino Cennini Il libro dell’arte, a cura di F. Brunello, con prefazione di L. Magagnato, Vicenza, Neri Pozza, 1971.

32 Filippo Villani, De origine civitatis Florentie et de eisusdem famosis civibus (Il libro della città di Firenze e dei suoi cittadini famosi), a cura di G. Tanturli, Padova, Antenore, 1997.

33 “Da preferire per arte e inventiva”.

34  Il termine Prospettiva è il femminile di prospettivo, volgare dal tardo Latino prospectivus, derivato da perspicere = vedere chiaramente.

35 Rifescono i biografi di Filippo Brunelleschi che questi fece un forellino al centro di un quadro rappresentante una piazza e che, guardando attraverso un forellino sul retro, al centro del quadro, in uno specchio, si avesse l’impressione di trovarsi dentro la piazza stessa.

36 Per tutto il problema vedi S. Macchioni, Il Disegno nell’Arte Italiana, Firenze 1975 e E. Panofsky, Die Perspektive als “Symbolische Form” in Vorträge der Bibliothek, Worburg, 1924.

37 Per le opere in Italiano di L.B. Alberti vedere Opere Volgari di L.B. Alberti a cura di C. Grayson, Bari 1960 e per le opere in Latino: Opera inedita et separatim impressa, a cura di G. Mancini, Firenze 1830; nonché Della Pittura, a cura di L. Mallè, Firenze 1950.

38 Vedi: E. Panofsky Idea, Contributo alla Storia dell’Estetica, ed. italiana, Firenze 1952 e R.W. Lee, Ut Pictura Poesis: humanistic theory of Painting  in The Art Bulletin, 1930.

39 Notare l’inversione dei significati tra i termini latini ed i corrispondenti italiani.

40 Il concetto di modulo nell’architettura contemporanea è diverso  e fisico più che concettuale.

41 L. Ghiberti, I commentari, a cura di J. Schlosser, Berlino 1912.

42 Ad esempio di Buffalmacco dice: “Quando metteva l’animo nelle sue opere passava tutti gli altri pittori. Fu gentilissimo maestro. Colorì freschissimamente”.

43 Tutte caratteristiche di Piero della Francesca.

44 Il termine è usato nel significato originario di “fatto per mezzo di un arte”.

45 È proprio da quest’epoca che l’espressione “da un punto di vista” entra  nel linguaggio comune in Italiano.

46 Oggi sconvolto da restauri sconsiderati dovuti a qualche vescovo smanioso di far vedere il proprio stemma al centro dell’abside.

47 Il discorso va riferito alla situazione urbanistica del ‘400 ed è valido per tutta l’Europa.

48 Dal punto di vista militare, però, la precoce fine della vecchia nobiltà che delle armi faceva la sua principale professione, costituì un punto di debolezza per la nuova classe al potere. Non così si trovarono altre nazioni, in primo luogo la Francia e la Spagna, che non furono mai a corto di quadri per gli eserciti e, soprattutto, di gente dalla mentalità adatta a condurre seriamente una guerra. I grandi capitani delle Compagnie di Ventura italiani sono espressione di individualismo anche in questo campo, abile e valoroso ma sempre sostanzialmente individualismo.

49 G. Vasari, Vite de’ più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani da Cimabue a’ tempi nostri descritti in lingua toscana da G.V. pittore aretino, ecc., 2voll., Firenze 1550; e Le vite, ecc., di nuovo ampliate, ecc, 3 voll., ivi, 1568.

50 Vedi: E. Garin, J. Huizinga e L’Autunno del Medioevo, introduzione alla traduzione italiana, Firenze 1966. Segnaliamo anche l’importante studio di A. Lanza, La letteratura tardogotica, arte e poesia a Firenze e Siena nell’autunno del Medioevo, Anzio 1994.

51 Donatello fu forse allievo del Ghiberti, Brunelleschi ebbe con lui rapporti stretti anche se contraddittori. Riguardo l’amicizia tra i due non si ha motivo di dubitare del loro comune viaggio a Roma e, in genere, di una comunanza di interessi.

52 G. C. Argan, Storia dell’Arte Italiana, Firenze, Sansoni, 1966

53 O nazionalismo? Intendendo però la sola nazione fiorentina.

54 Quasi superfluo sarebbe notare che alle donne, in quest’epoca, non veniva attribuita se non una scarsa capacità razionale.

55 Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi, ed. critica a cura di G. Nicco Fasola, Firenze 1942.

56 Il lettore avrà certamente notato che alcuni termini sono scritti talora con l’iniziale minuscola e talora maiuscola; ciò è dovuto alla considerazione di quanto, all’epoca di cui si parla, fosse personalizzato il concetto in questione.

57 Aegidii Viterbiensis Epistolae Selectae, in E. Martène e U. Durand, Vetrarum scriptorum et monumentorum historicorum, dogmaticorum, moralium amplissima collectio, vol. II, Paris 1724; per l’influenza  sugli artisti successivi vedere Pfeiffer H. S.J. La stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee di Egidio da Viterbo, in Colloqui del Sodalizio, serie II n. 3, Roma 1972 e F. Secret, Egidio da Viterbo e Giovanni Pico della Mirandola, in Augustiniana, Roma, 1977.

58 In paricolare il De Partu Virginis di Sannazzaro ed il dialogo Egidius del Poliziano.

59 Paolo Cortesi, De Cardinalatu, Roma, 1510; il problema è stato trattato ampiamente da G. Savarese in Cultura a Roma tra Umanesimo ed Ermetismo (1480 – 1507), Anzio, 1993.

60 P. Cortesi, De Cardinalatu, LIV, cit., traduzione di G. Savarese.

61 Giuda Abramabel, Dialoghi d’Amore, a cura di S. Caramella, Bari, Laterza, 1929; questa edizione, l’unica critica, ebbe la sventura di essere ritirata dal commercio nel 1938 a causa della politica antiebraica del Fascismo in Italia.

62 Vedi per tutto il problema: H. Pflaum, Die Idee der Liebe. Leone Ebreo, Tubingen, 1926.

63 P. Pomponazzi, Opera, Basilea, 1567.

64 P. Valeriano, Hieroglyphica sive de sacris Aegyptiorum aliarumque gentium literis, Basilea 1575.

65L’argomento è stato esposto da M. Calvesi in Una Nuova Lettura della Sistina, in ARS n°1, Milano 1997.

66 Intendendo il termine sia come archetipo platonico che come conoscenza generica.

67 F. Cattani da Diacceto, I tre libri d’amore, con un panegirico d’Amore, con la vita del detto Autore fatta da M. Benedetto Varchi in Vinegia, 1568.

68 A. Brucioli, Dialoghi della naturale philosophia e humana, Venezia 1544.

69 Il problema è stato approfondito nell’articolo di L. Secchi Tarugi, Mitologia trasfigurata nelle Stanze del Poliziano e nelle Allegorie del Botticelli, in Interrogativi dell’Umanesimo Vol. II, Atti del X (1973) Convegno Internazionale del Centro di Studi Umanistici di Montepulciano, Firenze, 1976. Da questo articolo sono state riprese le citazioni del Cattani e del Brucioli.

70 Vd. M. Calvesi op. cit.

71 Vd. G. C. Argan op. cit., anche per la lettura della Gioconda.

72 Per esprimersi meglio Ficino inventa il verbo “naturare”; la natura naturans è la natura che genera la natura secondo, naturalmente, le proprie stesse leggi.

73 In questo quadro manca lo sfondo, dato che la Natura è rappresentata dall’ermellino.

74 La donna lo possiede e lo controlla totalmente.

75 Leonardo ebbe grande fortuna con questi quadri; i suoi cartoni furono ripresi dal Quirini che, tuttavia, non fu in grado di interpretare il pensiero del maestro del quale rimasero lo stile ma non i significati; la stessa sorte già subita da Fidia.

76 A una metopa classica si ispirò certamente il giovane artista.

77 Davide rappresentava la libertà del popolo fiorentino e sappiamo che il fatto che la sua arma fosse la fionda ne aumentava la “comprensibilità” da parte della gente di bassa condizione che in quest’epoca, a Firenze come a Roma, usava molto la fionda, essendo proibito ai non nobili di portare la spada.

78 Per secoli solo acrobati e militari si dedicarono regolarmente ad esercizi fisici.

79 Ricordiamo anche: S. Freud, Eine kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci (Un ricordo d’infansia di Leonardo da Vinci), Vienna 1910 e Der Moses des Michelangelo (il Mosé di Michelangelo), Vienna 1914.

80 Come è noto queste statue sarebbero state finite se gli eredi di Giulio II avessero pagato per la tomba cui erano destinate. Michelangelo sentì sempre il dovere di mantenere la famiglia. Se non lo pagavano non lavorava.

81 Per tutta la questione michelangiolesca come base di partenza rimandiamo agli studi del De Tolnay. Vd. C. de Tolnay, Michelangelo, voce sull’Enciclopedia Universale dell’Arte edita a cura dell’Istituto per la Collaborazione Culturale, Firenze, 1972.

82 Michelangelo era repubblicano, si ricordi la sua partecipazione alla difesa della Repubblica Fiorentina.

83 E se si considera anche il rifacimento dell’antica rete fognaria e la ricostruzione di una rete idrica il quadro della costruzione di una moderna città è completo.

84 Una considerazione a parte dovrebbe essere fatta sui rapporti tra potere ed arte. Sia Raffaello che Michelangelo furono artisti del potere politico. Ricordiamo, ad esempio, che Lorenzo de’ Medici fece ottenere illegalmente un posto di funzionario pubblico al padre di Michelangelo per poter tenere il figlio presso di sè, ma chi potrebbe affermare che fece male commettendo questo illecito? Non aggiungiamo altro e ci limitiamo a ricordare il problema ed a chiederci se oggi sarebbe auspicabile una cosa simile.

85 Citiamo le seguenti edizioni di riferimento: J.P. Richter, Library Works of Leonardo da Vinci compiled and edited from the original manuscripts, 2 voll., London, 1883; E. Salmi, Frammenti letterari e filosofici di Leonardo da Vinci, Firenze, 1899; E. Salmi, Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, Roma, 1890.

86 Ricordiamo che prese il nome da Lotario, erede ufficale di Carlo nel titolo imperiale tra i suoi figli e comprendeva tutte le regioni che gravitano sul Reno, la Svizzera e l’Italia fino a Roma.

87 Seguiamo l’edizione ormai classica di Carl Frey, Die Dichtungen des Michelagnolo Buonarroti herausgegeben und mit kritischem Apparate versehen, Berlin, 1897.

88 Ricordiamo che per i Cattolici la salvezza si ottiene con la fede e le opere, per i Protestanti è essenziale la fede, quale indicatore della volontà predestinatrice di Dio.

89 G. de Ruggiero, Storia della Filosofia, Parte Terza, Rinascimento Riforma e Controriforma, Bari, 1947.

90 Ricordiamo i concetti di aemulatio e di imitatio di Quintiliano, studiatissimo all’epoca; era lo spirito di emulazione che spingeva i Manieristi, non una volontà sciocca di imitare.

91 Secondo alcuni sembra proprio una masturbazione. Questo genere di osservazioni si tramanda quasi solo a voce negli ambienti critici italiani senza che poi nessuno abbia mai avuto il coraggio di scriverlo chiaramente. La cosa lascia molto dubbiosi anche se c’è il sospetto che dopo gli ultimi restauri manchi qualcosa per eccesso di pulizia.

92 B. Castiglione, Il Cortegiano, Venezia, 1528 (ed. princeps).

93 Magia o scienza ante litteram?

94 Letteralmente “uomini meccanici”, adatti solo a lavori manuali.

95 Françisco de Holanda, Da pintura antiga, Lisboa, 1548 di cui questi dialoghi costituiscono la seconda parte.

96 Tralasciamo per ragioni di spazio l’esame dei numerosissimi manieristi italiani e stranieri limitandoci ad osservare che non si vide mai e non si è più visto un periodo in Europa con un livello medio della produzione artistica così elevato.

97 Per Leonardo la pittura è superiore alla scultura, come il rilievo pittorico all’alto-rilievo, perché obbliga alla prospettiva, obbliga, cioè, ad un processo di meditazione ed astrazione mediante il pensiero.

98 Corrispondenti alle divisioni del discorso della retorica romana che abbiamo già visto.

99 Eppure alcuni scrittori continuavano a fare critica esaminando i contenuti e non la qualità delle opere, come il Gilio e, più tardi, il Borghini. Durante il Concilio di Trento il problema fu posto in modo quasi drammatico nei riguardi del Giudizio di Michelangelo.

100 Non vogliamo entrare nella discussione sull’origine della parola.

101 Tra gli umanisti il termine “volgare” in Italiano aveva assunto il significato dispregiativo che ancora mantiene.

102 Da “propaganda”, gerundivo del verbo latino “propagare” = diffondere, viene il termine italiano “propaganda” che indica la diffusione di idee ed il verbo “propagandare” che ha un significato diverso da quello derivato dall’originario latino “propagare” e che mantiene quasi il significato originario. Anche il termine “congregazio” assunse un significato diverso in Italiano, “congragazione”, indicando particolari associazioni religiose.

103 Giovan Battista Ghislenghi (1600 – 1670), secondo quanto riferisce la pietra tombale, fu pittore e scultore e, soprattutto, architetto di ben tre re di Polonia, Sigismondo III, Ladislao IV e Giovanni Casimiro I. Dobbiamo supporre che la sua professione la dovesse conoscere, ma in Italia è stato completamente dimenticato, nella solita presunzione di superiorità che si aveva sino a non troppi anni fa verso tutto quello che in campo artistico si facesse all’estero.

104 Di carriera, un borghese perciò; in quest’epoca i nobili avevano ormai comunemente l’usanza di farsi sostituire da personale professionista nei posti cui avevano diritto per nascita, ad esempio un colonnello lasciava di fatto il comando ad un “tenente [il luogo di] colonnello”, un capitano ad un suo “luogo – tenente” etc.

105 Di Salvator Rosa sono interessanti le Satire; dato il contenuto prevalentemente allegorico di molte sue opere e di quasi tutte le incisioni. Nella Satira contro la Pittura Salvator Rosa critica i bamboccianti. Vedi: Rosa Salvatore, L’opera completa di Salvator Rosa introdotta e coordinata da Luigi Salerno, Milano, Rizzoli, 1975. Per un’interpretazione corretta delle incisioni fondamentale è: Rotili Mario, Salvator Rosa incisore, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1974.

106 Dal nome del pittore olandese Pieter Van Laer, detto il Bamboccio per il suo aspetto. Come si vede ancora una volta le forme pittoriche più vicine alla realtà sociale hanno un origine olandese.

107 Huizinga op. cit..

108 Ottonelli Giandomenico, Trattato della Pittura e Scultura, uso et abuso loro, Venezia, 1652.

109 In particolare si sviluppò il culto degli Angeli Custodi.

110 Recentemente è stato interdetto questo spazio con una cancellata per il giusto motivo di evitare danni. Anche di ciò nessuno si è accorto.

111 Pietra calcarea porosa caratteristica delle costruzioni romane il cui nome deriva da “Lapis Tiburtinus” (pietra di Tivoli) e le cui cave maggiori sono ancora oggi tra Roma e Tivoli.

112 Siamo sempre nell’ambito di una terminologia aristotelica.

113 Borromini Francesco, Opus Architectonicum a cura di Maurizio de Benedictis, Anzio, De Rubeis, 1993.

114 E neppure di libertà di stampa e di idee, mentre le libertà di commercio e di movimento cominciano ad essere esigenze di cui i governi regi  devono tenere conto.

115 La differenza tra natura e realtà è filosoficamente importante ma l’argomento può essere trattato meglio a proposito dell’arte ottocentesca.

116 Lo era davvero, anche se il tipo di committenza e di soggetto non lasciavano molta altra scelta che dichiararsi tale.

117 A proposito di questo episodio noteremo che anche Caravaggio portava la spada, privilegio dei cavalieri e dei nobili. Sempre per i suoi appoggi francesi in seguito fu anche cavaliere di Malta e forse (molto forse) l’aver litigato con qualcuno ai vertici dell’Ordine di Malta, francofilo, poté fargli nascere la speranza di poter rientrare a Roma ed ottenere un perdono del papa che allora era formalmente alleato degli spagnoli.

118 Questo, per essere esatti, accadeva sin dai primi del ‘400, già con Masaccio, ed è in parte collegabile alla tradizione delle sacre rappresentazioni; a questa stessa tradizione, se si vuolesse risalire ancora più addietro, si rifà anche Giotto quando “delega” a ciascun personaggio un suo spazio.

119 Vicente Carducho (Carducci) pur vedendo in Caravaggio l’anticristo della pittura, riconosce la “fuerza de su genio”. Vedi: Gonzàlez Martin, Juan José Vicente Carducho, pintor de la religiosidad hispanica, in Boletin del Seminario de Estudio de Arte y Arqueologìa, XXV, 1952; vedi anche Kiber John, Vicente Carducho’s allegories of painting, in The Art Bulletin, vol XLVII, 1965.

120 Ricordiamo ancora il piede famoso di San Matteo.

121 Vedi: Paleotti Gabriele, Discorso intorno alle imagini sacre e profane diviso in cinque libri, in Trattati d’Arte del Cinquecento, vol. II, Bari, 1961; ricordiamo che il Cardinal Paleotti, arcivescovo di Ravenna, era un gesuita tra i più impegnati al Concilio di Trento.

122 De Piles Roger, Dissertation sur les ouvrages des plus fameaux peintres, Paris, 1681 e Cours de Peinture par Principes, Paris, 1708.

123 Ci riferiamo principalmente a quella italiana.

124 Sinora si era parlato di “retorica”.

125 Mancini Giulio, Alcune considerazioni intorno a quello che hanno scritto alcuni autori in materia della pittura, a cura di Adriana Masucchi con commento di Luigi Salerno, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956-57.

126 Savonarola Michele, De laudibus Patavii, Padova, 1440, dove l’autore illustra una serie di pittori che prendono le mosse da Giotto.

127 Bellori Giovanni Pietro, Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni con premessa la conferenza tenuta nel 1664 all’Accademia di San Luca “L’Idea del Pittore, dello scultore e dello architetto. Scelta delle bellezze naturali superiori alla natura” Roma, 1672; vedi anche Le vite inedite del Bellori, I, G.P. Bellori, Vite di G: Reni, A; Sacchi, C. Moratti, trascritte dal m.s. 2506 della Bibl. Municipale di Rouen, a cura di M. Piacentini, Roma, 1942. Anche Giovan Battista Agucchi, un classicista, in un frammento di trattato del 1607 – 1615 circa, riprende concetti simili distinguendo una scuola toscana fiorentina da una senese.

128 Baldinucci Filippo, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1681-1728, 6 voll. di cui 3 postumi. Il Baldinucci era il curatore della collezione d’arte dei Medici e la sua può essere considerata la prima storia universale europea dell’arte. Vedi anche dello stesso il Vocabolario Toscano dell’Arte del Disegno, dedicato agli accademici della Crusca, 6 voll. Tre dei quali postumi, Firenze,  1681 – 1728.

129 Boschini Marco, La carta del navegar pittoresco, Venezia, 1660.

130 Des Avaux Andrè Felibien, Entretiens sur les plus excellens Peintres, Paris 1685.

131 De Piles R. op. cit..

132 Anche in questo caso tralasciamo la controversa storia del termine.

133 Si perdonerà se non ricordiamo chi abbia usato per primo questa espressione, ammesso che abbia una paternità precisa.

134 La camera chiara era una scatola, con un foro stenopeico o una lente, sul fondo della quale si poteva vedere l’immagine su di un vetro smerigliato od un foglio di carta velina. Da essa derivò la macchina fotografica.

135 Dal “Tour” che i giovani inglesi abbienti facevano nel Continente per istruirsi e tenere allacciati gli intensi rapporti commerciali della famiglia.