PRIMA PARTE

Dall’antichità al Duecento

 

Inizialmente non è nella Storia dell’Arte che si deve cercare perché le categorie di lettura di un’opera coincidano fondamentalmente con i contenuti dell’opera stessa, ma nell’Antropologia Culturale.

In un primo momento l’essenza e la forma non sono distintinte nella psiche umana ed indistintamente vengono assunte in un sistema di conoscenze e di comunicazione di queste conoscenze. Tra forma rappresentativa e oggetto rappresentato non ci sono differenze nè esistenziali nè concettuali e l’immagine ha valore esistenziale. Il processo che separerà concetto ed oggetto inizia, nella sua fase esplicita, con Socrate e, passando per il nominalismo medioevale, è tuttora in corso.

Si potrebbe anche fare una storia dell’arte che veda l’espressione estetica come il tentativo continuo di passare da una realtà effettuale ad una intellettuale per raggiungere, in qualche modo, una sorta di stabilità della realtà nella quale illudersi di essere immortali, o qualcosa del genere.

Salteremo, comunque, in questa trattazione informale quei periodi in cui più che gli studiosi d’arte trovano il loro campo di indagine gli antropologi e gli studiosi di Storia della Religione cominciando direttamente dal v secolo a.C. e limitandoci alla civiltà occidentale.

 

 

LA GRECIA

 

Come abbiamo detto cominciamo subito con quel momento dello sviluppo dell’arte greca in cui il problema del bello viene affrontato sistematicamente dai maggiori pensatori, anche perché i documenti relativi al pensiero antecedente sono assai scarsi. Questo non vuol dire che ingnoriamo il fatto che questo pensiero si sia probabilmente formato progressivamente nel corso dei secoli, come dimostrano gli eccellenti risultati artistici dei periodi pre-ellenici ed ellenici arcaici.

Nello sviluppo della cultura occidentale il pensiero estetico si fa, normalmente, risalire alla civiltà greca pre-ellenistica, eppure, a ben guardare, i risultati di una ricerca nel campo da parte dei principali pensatori e filosofi non sembrano certo particolarmente gratificanti.

La quantità e la qualità (soprattutto) delle opere d’arte prodotte farebbe pensare piuttosto il contrario e si rimane meravigliati dalla scarsa considerazione che Platone o Aristotele mostrano per le arti figurative.

Dei due, Platone diede una definizione di arte e insieme un parere sulla sua utilità: semplificando molto, l’arte è mimesi della natura, a sua volta mimesi dell’idea originaria e, perciò, fondamentalmente inutile10 .

Si pensi solamente alla cura preferenziale dedicata dai filosofi antichi alla ricerca di un reggimento politico ideale e all’importanza che danno agli studi matematici e logici e si capirà anche perché sembra, apparentemente, che le arti figurative per essi non siano altro che espressioni tecniche e meccaniche, secondarie perfino rispetto all’oratoria ed alla musica e, tanto più, alla logica ed alla matematica, espressioni privilegiate del pensiero.

Il verosimile aristotelico non va oltre, in sostanza, una funzione didascalica o catartica dell’opera d’arte figurativa, funzione, comunque, raggiunta meglio dal dramma. Ad Aristotele va anche il merito di avere definito la bellezza come ordine, simmetria e limitazione, ovvero come proporzionalità, sviluppando concetti che già nella scultura e nell’architettura erano ormai acquisiti nella pratica.

In realtà nessuno dei due filosofi si occupò più che tanto delle arti figurative; ma non si tratta, forse, di insensibilità quanto della prevalenza che il pensiero greco da al logos rispetto a ogni altra forma di comunicazione. Per i greci l’immagine non tanto comunica quanto si identifica con i significati che esprime e l’uomo si identifica a sua volta con questi stessi significati, una speculazione teorica sull’immagine stessa, pertanto, è fondamentalmente inutile.

È inutile anche per noi cercare di dimostrarlo per via teorica, ma prendiamo ad esempio le due opere che vengono generalmente citate per introdurre l’arte del periodo classico11, il Discobolo di Mirone ed il Doriforo di Policleto.

L’impostazione stilistica è totalmente diversa, gli schemi strutturali si pongono problematicamente in contrapposizione, ma non si ha certo bisogno di particolari aiuti per capire quale sia l’ideale atletico di Mirone o quello di Policleto. Del resto è evidente, in entrambi i casi, la ricerca di un canone preciso; e se è evidente oggi figuriamoci quanto lo fosse allora, quando, più che un ideale (usando la parola nel senso comune) queste statue esprimevano un modo di essere con il quale si poteva identificare un popolo, se non il singolo, almeno nelle proprie aspirazioni. Questa possibilità di identificazione allora doveva essere assai più concreta di quanto sembri oggi: noi, infatti, tendiamo ad avere un sentimento tanto relativistico della realtà che anche quando crediamo in un ideale lo collochiamo al di fuori di questa, e di un bel tratto; i greci di quei tempi, invece, erano ancora del tutto convinti di potersi realizzare in una vita concretamente conforme a ciò in cui credevano. Tra l’altro si può osservare che le possenti muscolature messe in evidenza da questi atleti probabilmente corrispondevano, fatte salve le proporzioni più “giuste” delle statue, a quelle dei cittadini liberi ed allenati alle armi e alle gare; i greci antichi erano bassi, forti ed estremamente robusti, per un eventuale raffronto si veda quanto racconta Erodoto sulle prestazioni atletiche dei combattenti di Maratona12 e circa i giudizi di Serse prima della famosa spedizione e di quanto dovette poi ricredersi.

Anche la questione del restauro e dell’interpretazione del Discobolo di Mirone può servire a valutare quale fosse il rapporto che i greci avevano con queste opere d’arte; infatti la statua non ha una struttura circolare o a spirale e non solo perché sarebbe stata forse troppo pretendere un ribaltamento così profondo della tradizione o perché senza un davanti e un dietro non sarebbe stata sufficientemente “dichiarativa” ma anche per il semplice motivo che il disco non veniva lanciato roteando ma saltando in alto, diritto dinanzi a se, più o meno come doveva essere lanciato lo scudo per colpire un nemico se non si avevano altre armi, come si può facilmente constatare nei vasi con raffigurazioni di gare e giuochi. In questo modo anche il lancio del disco sarebbe uno esercizio di origine militare, come tutti gli altri, e il Discobolo corrisponderebbe anch’esso a un modo di essere reale dell’uomo greco, idealizzato quanto si vuole, ma concettualmente possibile, niente, insomma, che corrisponda esattamente agli ideali di De Coubertain.

Che le posizioni dei filosofi fossero teoricamente esagerate lo si può dimostrare anche ricordando la grande quantità di notizie e racconti in cui traspare il sentire della fantasia popolare. Un’analisi di questi, veri e propri romanzi che i soldati di Alessandro Magno diffusero in tutto l’oriente, potrebbe portare a una revisione generale (non totale ma comunque significativa) delle nostre convinzioni sugli antichi, troppo spesso deformate dall’arte ufficiale e da speculazioni letterarie troppo intellettualistiche13 .

Nel più classico degli scultori classici, Fidia, gli ideali civili, morali e, perché no, politici che lo ispirano sono decisamente evidenti, più chiari ancora a percepirsi se si ricostruisce, con uno sforzo, la sua scultura qual’era, fortemente ed abbondantemente colorata. Il fatto che Fidia sia stato incriminato per empietà e corruzione dimostra che nel suo operare stesso, oltre che nella sua opera, il grande maestro era uomo di parte.

Da forniture gonfiate come quelle dell’oro necessario alla grande statua di Athena nel Partenone, Pericle trovava sostentamento per il suo partito e fondi per truccare le elezioni; anche l’accusa di empietà veniva dalla volontà di Pericle di far coincidere la propria idea politica con la volontà della dea, facendosi raffigurare sullo scudo di questa mentre guida i Greci nella battaglia di Salamina, accanto, beninteso, a Fidia stesso. Tra l’altro il ritratto che un artista della sua scuola, Kresílas, fece a Pericle è il primo esempio di arte “ufficiale” tesa a valorizzare chi detenga il potere.

Non è un episodio da citare come una curiosità per ricordare il trucco di aver ricoperto la testa “a pera” (non proporzionata) di Pericle con l’elmo, magari aggiungendo che il mondo è sempre stato uguale e altre banalità del genere: quello che Pericle tentò di fare era portare all’unità politica quegli stessi greci che già avevano dimostrato di avere una sostanziale unità di valori; purtroppo per lui tra questi valori c’era anche un eccessivo particolarismo che i più scambiavano per libertà. Tanto è vero che la rappresentazione dell’omaggio unitario della città nella processione che dal Pireo saliva all’Acropoli, fu relegata all’interno del colonnato sul muro del naos.

Fu ben compreso che il contenuto dei rilievi esterni era per tutti i greci e, nello stesso momento, sanciva il predominio morale degli Ateniesi, primi esecutori della volontà degli dei, su tutti gli altri. È un momento cruciale per l’arte mondiale; forse per la prima volta l’artista è chiamato non solo ad interpretare un sistema di valori, ma anche a modificarlo, rappresentandolo nella sua proiezione futura. In questo nostro secolo l’unico tentativo paragonabile come tensione ideale sono solamente i grandi murales messicani. Se gli Ateniesi stessi non capirono, in fondo, è comprensibile, ma certo l’importanza che il popolo dava alle arti figurative doveva essere assai elevata e, conseguentemente, assai elevata doveva essere l’influenza che queste potevano avere.

Si è notato14 che già in precedenza, con la nascita della grande scultura in bronzo, il rapporto tra artista ed opera era cambiato: precedentemente si procedeva dall’esterno verso l’interno cercando la superficie ove fermarsi, poi si procedette dall’interno all’esterno, aggiungendo creta e occupando lo spazio circostante. Noi aggiungiamo che in questo secondo caso è l’artista che deve trovare in se il limite, con una posizione certamente di maggiore responsabilità. Mentre le parole del povero Socrate venivano derise e incomprese e servivano solo a procurargli la morte!

Perfettamente adeguato ai nuovi valori lo stile, e con questo, in nuce, è detto tutto.

Vorremmo anche far notare che troppo spesso, successivamente, ci si è sforzati di trovare o dedurre canoni assoluti dalle opere del periodo classico greco, in particolare dall’architettura, ma senza considerare che se certamente nelle intenzioni degli architetti c’era la ricerca della proporzione non è però possibile che essi siano sempre riusciti a trovarla. Come esempio prendiamo la forma e le dimensioni della colonna rispetto la dimensione generale del tempio (o dell’edificio in cui dovesse essere inserita): tutte le correzioni ottiche relative (inclinazione, enthasis, rastremazione, ecc.) venivano calcolate prima della messa in opera dei rocchi in loco anzi, probabilmente prima del trasporto, visto che, per diminuire il peso da portare, certamente questi erano fortemente sgrossati se non lavorati direttamente alle cave dove si provvedeva, evidentemente, anche ad una prima prova di montaggio; ebbene, se l’effetto fosse stato raggiunto o meno lo si sarebbe potuto vedere solamente dopo, a costruzione ultimata, libera dalle impalcature, quando non sarebbe più stato possibile tornare indietro viste le spese già sostenute. I modelli in legno, dominati in un certo qual senso da chi guarda per le loro ridotte dimensioni, non potevano certo dare le sensazioni di opere che sovrastavano fortemente lo spettatore. Con ciò non vogliamo dire che gli antichi architetti procedessero senza regole, tutt’altro, e i risultati raggiunti lo dimostrano, ma solo che qualche volta forse si sbagliarono o agirono un poco a caso.

Ci vorrebbe una ricostruzione fedele all’originale dei monumenti antichi, che servirebbe a cancellare il moderno senso di ideale assoluto che il biancore attuale dà, per aiutarci a ritrovare il senso concreto che i concetti espressi da quelle forme avevano per gli antichi greci, come assai concreto era il concetto di idea in Platone. Concetti, ripetiamo, tanto solidi da divenire miti, cioé storia, sacra quanto si vuole, ma storia vera ed effettuale, nè ci sembra che Aristotele, con tutta la sicurezza della sua logica, abbia mai negato l’effettualità dei miti.

Altrettanto evidente, poi, è il mutamento che l’arte cominciò a subire dopo Fidia, con la nostalgia della ieraticità di Prassitele o il senso del tormento interiore della divinità di Skopas anche se, in fondo, in nessuno dei due c’é l’effettiva presa di coscienza di questi mutamenti, tanto che la loro opera fu valutata, come lo è tuttora, essenzialmente come un’innovazione stilistica mentre, in effetti, si tratta del primo indizio di un mutamento radicale, non nel sistema di valori, ma nella fede che in questo sistema si aveva.

Le loro composizioni non hanno più l’equilibrio compositivo di cui i Bronzi di Riace sono un esempio perfetto; e non solo in senso formale, visto che i personaggi rappresentati si appoggiano letteralmente a qualcosa nella stessa misura in cui le statue precedenti si potevano reggere diritte da sole. Anche i miti considerati dagli artisti cominciano ad essere diversi ed l’Apollo di Prassitele che caccia le lucertole è meno “divino” e superiore di quando saetta il campo greco nell’Iliade; in compenso da tutte le copie note si vede bene che ha i fianchi modellati come quelli di una donna, chiaro indice di un concetto di omosessualità che comincia ad essere diverso da quella che trovava la propria giustificazione nella nullità spirituale e nell’imperfezione fisica della donna.

In realtà è l’uomo greco che perde il proprio equilibrio e non può più presentarsi stante di fronte al mondo; l’equilibrio dovrà essere ritrovato come interiore piuttosto che nella Polis. Più interessanti sono le variazioni, rispetto a Fidia, che si riscontrano in Lisippo, in cui le mutate condizioni sociali si riflettono immediatamente nello stile e nei canoni compositivi adottati anche, come nel grande maestro, in senso strettamente politico.

Anche con il passaggio tra la cultura greca classica e quella ellenistica, che convenzionalmente si fa coincidere con l’impero di Alessandro Magno, non si ebbe un significativo interesse dei filosofi nei confronti dell’arte; cambiò invece, un poco il sentire della gente. Il palese e progressivo abbandono della ieraticità nella rappresentazione degli dei, che divengono progressivamente più “umani” ne è il primo indizio, ma non per questo sono meno visibili i contenuti espressi nell’arte e, in particolare, nella statuaria, anzi: immaginiamoci, ad esempio, la Venere di Milo15 , ma com’era, con la pelle color rosa porcellino, i capelli biondi, gli occhi azzurri e una veste verde. La pettinatura è da matrona, consona all’aspetto da dea ma il corpo da culacciuta sedicenne... che altro?

Non sembra che sia un ideale di bellezza che bisogni di ulteriori spiegazioni; possiamo commentare l’armonia compositiva, analizzare la struttura, ammirare la perizia tecnica, ma quello che l’autore volesse dirci è sin troppo chiaro! Ci sono altre statue, sempre di Afrodite, in cui la dea invece di uscire dalle acque, con tutti i significati connessi relativi alla vita e alla fertilità, ci entra, anzi, si spoglia per entrarci, come l’Afrodite Esquilina o si lava, come l’Afrodite di Doidaldas16 o, ancora, si copre come se qualcuno fosse entrato di sorpresa nell’intimità delle sue stanze, come l’Afrodite Capitolina. Le piccole statue di Eros che accompagnavano la dea sottolineano spesso il significato “erotico” della scena.

Un’arte di facile interpretazione anche per chi non fosse greco, adatta ad essere esportata sotto forma di artigianato; gli ideali propri e caratterizzanti di una cultura non avrebbero potuto essere venduti al di fuori. Il successo commerciale ottenuto ne è la dimostrazione.

L’ideale cambiò scendendo dall’Olimpo ma è sempre evidente come riferimento formale; gli dei non sono forse più tali, ma la loro bellezza si. Del resto già Prassitele aveva cominciato a mettere foglie di fico ai suoi eroi, e ci sembra abbastanza chiaro che un problema di pudore può nascere solo tra uomini che guardano uomini e non tra dei. Non si tratta di perdita degli ideali quanto di una loro umanizzazione o meglio, del fatto che i greci non vedevano più se stessi negli dei.

Perfino nella Vecchia Ubriaca dei Museo Capitolini sono ancora affermati gli ideali classici, col metodo retorico di negarli uno ad uno: la bellezza e il buono sono nella giovinezza, nel senno, nel comportamento dignitoso, nel decoro e qui abbiamo la vecchiaia, l’ubriachezza, l’indecenza e la sporcizia (si vedono le croste sulla pelle!). Ammiriamo sempre l’abilità dell’artista, ma rendiamoci conto che non si tratta certo di “realismo”. La critica tradizionale va ribaltata: questa vecchia è quanto di più intellettuale si possa immaginare, costruita a seguito di un ragionamento preciso, generato dal gusto di contraddire i valori già acquisiti; se si deve parlare di verismo è meglio guardare al malizioso erotismo degli spogliarelli di Afrodite. Il riferimento di quest’arte è sempre ciò che gli uomini sono quando proiettano se stessi in una dimensione non fisica, per adesione o repulsione. Il significato della negazione, in questo caso specifico, è simile a quello di rinuncia al giudizio che gli davano gli scettici. Con ciò, ovviamente, non neghiamo che l’interesse per la realtà naturale non fosse abbondantemente cresciuto e in questa realtà naturale includiamo anche i sentimenti umani, cosa che trova una conferma ulteriore nel contemporaneo sviluppo dei romanzi; pure questi appartenenti ad un genere letterario poco curato dai filosofi.

Ma se gli ideali del popolo erano evidenti, perché mai i filosofi avrebbero dovuto occuparsi dell’evidente? Infatti non lo fecero se non per definirlo come categoria logica.

Si dice comunemente che l’insegnamento di Aristotele non ebbe grande influenza su Alessandro Magno, eppure già il concetto di mimesi in cui il filosofo fa consistere l’essenza dell’arte ci aiuta a capire la complessità del fenomeno “Ellenismo”. La mimesi, infatti, non è imitazione di un fenomeno sensibile, ma del reale nella sua universalità e questa è rappresentata, ad esempio, dal “divino” Alessandro di Lisippo17 (o di Leocares).

Estendendo l’analisi della tragedia che fa Aristotele alle arti figurative si evince che la verosimiglianza e la necessità non indicano il rapporto con un modello oggettivo, ma la coerenza interna della rappresentazione in cui l’arte stessa consiste. Non un rinvio a un modello particolare ma la visione del particolare nell’ottica universale dell’artista. La tragedia, ideale aristotelico di componimento artistico, è «mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa e, per mezzo di una serie di fatti che suscitano pietà e terrore, ha l’effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni». Sembra una frase pronunciata appositamente per il Laocoonte dei Musei Vaticani! La rappresentazione è solo un mezzo per la catarsi, ma di quale potenza!

La forza comunicativa dell’immagine, che Aristotele non considera, permette ormai di far coincidere i valori da esprimere col sentimento con immediatezza assoluta. Quello che viene cambiando è la posizione che valori e ideali assumono nei confronti dell’individuo: prima tendevano all’identificazione tra quello che si era e quello che si sarebbe dovuto essere, ora la possibilità di un loro tramutarsi in realtà è di fatto impossibile e l’individuo deve cercare da se il proprio destino. L’epopea, che Aristotele considerava inferiore alla tragedia, prese una sua rivincita incarnandosi in Alessandro Magno, l’uomo che fu capace di crearsi il più grande dei destini, divenendo ideale a se stesso. È proprio Alessandro Magno, e il volto ideale di civiltà che questi porta con se, a costituire la nuova base ideologica per un sistema di valori organico. Meno proiezioni eroiche nel mito o negli dei e maggiore concretizzazione di questi ideali nell’individuo, il cui valore, perciò, viene strettamente connesso a come questi gestisca la propria esistenza. Non si fraintenda, divinizzare un uomo e umanizzare il divino sono operazioni complementari, ma sin dai tempi più antichi i greci, come in fondo tutti i popoli antichi, avevano legato il valore della vita di un individuo alle sue gesta. La differenza ora è che il contesto in cui questo avviene eccede la sfera d’azione del singolo ed è tanto vasto che solo uno, convenzionalmente “divino”, può e deve valere per tutti; tutti gli altri devono trovare una soluzione diversa.

Stoicismo, epicureismo, scetticismo sono prima che sistemi filosofici soluzioni ad un problema esistenziale; e l’arte? L’arte continua a rappresentare i vecchi ideali proiettandoli in un concreto sempre meglio comprensibile e più “terreno” da un certo lato, ma dall’altro sempre capace di proiettare in un mondo ideale. Questo ideale non è più assoluto, ma il problema non è determinare a cosa sia relativo, quanto a quale aspetto dell’uomo si riferisca. Ad esempio l’Apollo del Belvedere dei Musei Vaticani18 certamente è da correlare anzitutto all’aspetto fisico, ma relativo ad un modo di vivere raffinato ed elegante, sicuro di se.

Il Pugilatore seduto del Museo Nazionale Romano esprime l’essere, oltre all’aspetto fisico, di chi frequenta la palestra ed un momento di ripensamento su questo modo di vivere che manca del tutto nell’esempio precedente.

Forse i gruppi marmorei di Firomaco19 nell’Altare di Pergamo sono i più significativi: nobiltà d’animo e bellezza sono attribuiti non più a greci ma a barbari che diventano esempi di eroicismo, di un comportamento, cioé, capace di dare senso alla vita che, infatti, viene rifiutata da questi eroi perdenti. In questo caso l’apparente negatività è, come quella insita nella filosofia stoica, portatrice di forti positività morali e spirituali. Altrettanto forte, però, è la motivazione e il senso della guerra e della conquista, che vengono dalla convinzione di possedere una cultura superiore, capace di giustificare se stessa per la potenza intellettuale che viene dallo spirito prima ancora che dalle armi20.

La retorica, come già era stata concepita da Gorgia, cioé l’arte di persuadere e convincere soggettivamente, diventa, d’ora in poi, una delle ragioni d’essere dell’Arte riconfermando in un certo senso quel primato del logos cui accennavamo all’inizio del capitolo.

Prima l’uomo greco “coincideva” con i suoi ideali, ora bisogna insegnarglieli o confermarglieli, secondo i casi, o solamente rammentarli anche se, tutto sommato, sono ancora gli stessi. Sempre, comunque, ciò che deve essere comunicato si fonde con ciò che fa di un’opera un’opera d’arte, un po’ come il tono e la modulazione della voce di un attore coincidono con ciò che vuole far sentire al pubblico (non con il senso letterale delle parole, ovviamente).

«Tuttavia, mentre nel pensiero si eternavano i valori della vita greca, nella storia si dissolvevano»21, e tra le espressioni del pensiero noi collochiamo decisamente anche l’Arte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROMA

 

È questo il momento in cui il mondo greco penetra prepotentemente in Roma, proprio perché si è trasformato ormai in una forza puramente interiore.

L’amore dei Romani per i propri valori, ancorché diversi in parte da quelli ellenistici, trova la propria corrispondenza con l’arte greca nell’idea che l’espressione artistica debba comunicare anzitutto esempi comportamentali e soluzioni esistenziali. Per i Greci queste soluzioni erano individuali, per i Romani collettive, anzi, per essere più precisi, familiari e pubbliche, trasmissibili ad altri anche storicamente.

Questa tendenza già si era vista nell’arte etrusca che pure, come quella romana vera e propria, sin dai tempi più antichi era stata influenzata tecnicamente e stilisticamente dalla Grecia. Solo fin tanto che, e nella misura in cui, gli ideali greci furono propri esclusivamente del mondo greco, questo rapporto fu prevalentemente tecnico. È dopo la morte di Alessandro, appunto, che i Romani furono meglio in grado di comprendere la cultura greca, come del resto lo furono tutti gli altri popoli. La questione dell’originalità dell’arte romana può essere risolta considerando che nella formazione di una koinè mediterranea i vari popoli si inserirono gradualmente e ciascuno ne prese coscienza quando già da tempo il passaggio era avvenuto.

Questa presa di coscienza avvenne in Roma al tempo degli Scipioni e, in fondo, furono più i Greci a negarla che i Romani. A partire dalla conquista di Taranto non è più possibile scindere la storia dell’arte dei due popoli; certo i Romani, come tutti i popoli italici, furono debitori verso l’Ellade degli sviluppi tecnici che ogni forma di espressione artistica ebbe in seguito, ma quello che più conta è il fatto che questo debito comprendeva anche le idee estetiche che i Greci avevano elaborato e continuarono a elaborare anche dopo la conquista romana.

Malgrado ciò non si può assolutamente affermare che le concezioni artistiche dei Romani fossero le stesse dei Greci anzi, la diversità notevole tra i fini reali dell’operare artistico portò anche a una pari differenziazione nell’espressione di questo, con una sudditanza più creduta che effettuale tra i due popoli; un po’ accadde la stessa cosa nell’oratoria, in cui le teorie e i modi della retorica greca divennero, a Roma, l’espressione non di un’arte della persuasione soggettiva ma dell’affermazione di una logica sociale e che, per le classi al potere, era anche logica giuridica e utile politico.

Abbiamo già visto che gli ideali in cui si proiettava l’uomo greco erano sempre rimasti tali, anche se più “umanizzati”, dopo che Alessandro Magno ebbe tolto al singolo la capacità di identificarsi in essi. Dai romani gli stessi moduli compositivi ellenistici furono apprezzati per la loro capacità di rendere la realtà, sia fisica che intellettuale, e utilizzati per affermare che tale realtà era effettuale e non in potenza22, dando alla realizzazione artistica uno scopo essenzialmente pratico e morale. Quella mimesi della realtà che Aristotele concepiva come imitazione del reale nella sua universalità, e quindi come sintesi di una conoscenza superiore al contingente, per i Romani assume la funzione eminentemente etica di evidenziare e raccontare le azioni del cittadino esemplare, e non solo del singolo, ma di tutti. Non si tratta della mancanza di una capacità astrattiva ma di un diverso modo di vedere, nell’uomo, ciò che l’uomo stesso era (o poteva o doveva essere) partendo dai suoi rapporti con la collettività che assumevano la forma e la forza di un imperativo morale. Anche i Romani, perciò, si ritrovavano nell’arte, ma i loro ideali non erano quelli di una purezza eroica e di una perfezione fisica assoluta ma piuttosto il desiderio di mostrare come il comportamento del singolo fosse sempre perfettamente adeguato all’essere depositario della virtus romana e capace di ritrasmetterla; anzi, ciascuno si vantava di aver recepito gli ideali romani dai propri antenati più di quanto i greci facessero quando risalivano alle proprie origini divine attraverso il mito.

Di qui l’importanza della ritrattistica funeraria e celebrativa che, a differenza di quella greca, difficilmente tendeva a idealizzare i volti nel loro aspetto fisico, anzi, spesso se non ne accentuava i difetti certo poco faceva per nasconderli a vantaggio di una espressività che sottolineasse le gravi curae e la virtus del defunto.

Poco importa che si trattasse di un console, di un ciabattino o addirittura di un liberto, quello che contava era l’avere adempiuto al proprio ruolo nella società e poterne essere personalmente testis; ecco perché ogni tomba romana è un monumentum, letteralmente una testimonianza giuridicamente certa per le generazioni future. Come per i Greci, quali fossero gli ideali civici dei Romani è palese dai ritratti stessi. Era questa una tradizione di origine etrusca che nell’Urbe era sempre esistita per il particolare e intimo collegamento che sin quasi dalla fondazione aveva unito tradizioni latine ed etrusche nella città che univa materialmente, sul Tevere, le due culture e se, dopo l’epoca regia, prevalse essenzialmente l’elemento latino non bisogna dimenticare che per almeno i trecento anni successivi ogni cosa bella si dovette ad artisti etruschi; e l’Etruria era già fortemente inserita nella koinè ellenistico-mediterranea. Originariamente, con tutta probabilità, questi ritratti funerari, spesso vere e proprie maschere funebri, non avevano una funzione mnemonica ma un vero e valore esistenziale, come è verificabile ancora oggi in molte culture centroafricane e, malgrado la nostra presunta “civilizzazione”, nei riti magici. Ciò può essere dimostrato dal valore religioso che ancora in epoca tardo-repubblicana ed imperiale si dava loro come penates, antenati della familia, che si perpetuava negli ultimi discendenti i quali identificavano in loro i valori e le glorie di cui erano significanti. Ricordiamo che ad ogni funerale venivano portati dietro il defunto con attaccate sotto, quando la famiglia lo permetteva, delle pergamene con le imprese compiute e le cariche rivestite.

Anche gli altri popoli italici, lentamente ma senza interruzione, si erano lasciati attrarre culturalmente nell’area ellenistica così come politicamente erano stati attratti nell’orbita romana. Andronico, Ennio, Nevio, Plauto, Pacuvio sono i primi poeti romani e sono tutti di origine italica. Certo, per quanto riguarda le arti figurative il discorso era ben diverso: la poesia poteva, in qualche modo, essere avvicinata all’eloquenza, visto che utilizzava gli stessi mezzi retorici della lingua parlata, ma la pittura e la scultura erano considerate attività servili, o quasi, nel comune modo di pensare e lo testimonia il modo dispregiativo in cui Valerio Massimo parla di Gaio Fabio Pittore che, pur essendo di nobile famiglia decorò di pitture il tempio della Dea Salus. Evidentemente poco importava la qualità dell’opera che era sempre valutata un frutto di abilità più mechanica che intellettuale.

Questo pregiudizio rimase probabilmente per parecchio tempo, anche dopo il celebre trionfo di Marco Marcello su Siracusa, nel 211 a.c.23, che impressionò il popolo per la quantità di opere d’arte predate; è questo il momento in cui, generalmente gli autori antichi fanno entrare in Roma anche l’amore e il gusto per l’arte, ma a ben considerare ci sembra un’affermazione abbastanza inesatta: già nell’antichità il tempio della Triade Capitolina, costruito durante il periodo dei re etruschi da maestranze etrusche, era divenuto tanto sontuoso che da molti è considerato l’unico monumento dell’occidente mediterraneo in grado di reggere il confronto con i grandi santuari dell’oriente per magnificenza e grandezza, il che, per una città che trecento anni dopo la fondazione era già una delle più potenti e popolose di questo mare in fondo è quasi naturale. Il tenore di vita privato poco appariscente anche delle famiglie più abbienti non deve far credere che fossero altrettanto parsimoniosi quando si trattava di investire nel pubblico, e se l’arte in senso stretto non era curata, l’amore per il fastoso ed il grandioso era già evidente sin dalle origini e i ritrovamenti (pochi per la verità) relativi all’epoca regia e ai primi secoli della repubblica sembrano confermare quest’impressione; si pensi solo al basamento originario del tempio di Giove sul Campidoglio, fatto a blocchi di pietra per uno spessore di più di cinque metri e lungo più di sessanta! Il tempio era certamente in proporzione. Per più di mille anni i magistrati che occupavano le varie cariche spesero con estrema larghezza i soldi dello stato in opere siffatte e, come se lo avessero fatto con i propri, lasciarono delle iscrizioni a ricordo e gloria di se e della stirpe di appartenenza; del resto non era nel servizio allo stato che consisteva il dovere? A parte queste considerazioni, in effetti, non ci si deve meravigliare più che tanto della facilità con cui il “consumo” dell’arte divenne pratica tra i privati se già lo era per la collettività.

La stretta relazione tra arte etrusca e arte romana è evidente un po’ in tutte le forme espressive e anche, come è logico nella scultura e nella ritrattistica in particolare; la Lupa Capitolina che allatta i gemellie il cosiddetto Bruto dei Musei Capitolini24 ne sono esempi famosi e il fatto stesso che siano stati creduti di fattura romana ma di qualche secolo più tarda del V lo dimostra, confermando che per molto tempo i cittadini dell’Urbe furono consumatori prima che produttori d’arte ma non che questa fosse estranea al loro modo di essere. L’intento realistico, specie nella seconda opera, è messo bene in rilievo da una capacità lavorativa e da una sensibilità estetica che non hanno nulla da invidiare a quelle dei migliori artisti greci, basti notare con un poco di attenzione l’espressività dello sgusrdo per rendersene conto. Non ci sembra che la qualità di statue come la Chimera d’Arezzo conservata nel Museo Archeologico o il Marte di Todi sia inferiore ad analoghe opere greche, eppure statue simili certamente erano nei templi di Roma ben prima della suddetta presa di Siracusa. È verosimile che anche nella pittura i Romani, sia che utilizzassero artisti etruschi che locali, si rifacessero agli stessi modelli del popolo vicino.

Le leggi suntuarie che si ripeterono, in varia forma, per vari secoli aiutano a spiegare la carenza di attenzione data dai privati all’arte ma, come abbiamo già detto, non è possibile che i Romani, improvvisamente, abbiano conosciuto l’arte solo dopo la presa di Siracusa e ne siano divenuti fanatici dopo quella di Corinto25; da quel momento in poi conobbero il lusso dell’arte, ma il suo valore estetico doveva essere stato già ben recepito almeno dalle classi più elevate. Il fatto è che mettendo le mani sui tesori delle più belle città greche tutto questo era gratis o, almeno, non costava alcuna fatica, neppure la pubblicazione di una gara d’appalto, bastava prendere e portare via.

Per molti secoli, comunque, la virtus del civis romanus, spingendolo a considerare ogni attività artistica come superflua, in quanto non funzionale allo stato, provocò un fenomeno d’importazione di opere d’arte notevole e si ha netta la sensazione che gli artisti romani si siano interessati soprattutto d’arte funeraria che, come abbiamo visto, determinava e “fissava” l’immagine pubblica del singolo. Tuttavia ci sembra scorretto affermare che i Romani non avessero la stessa tensione ideale dei Greci, perché la loro produzione migliore non è indirizzata alla ricerca di una bellezza pura. In fondo i tanto decantati ideali greci si ridussero relativamente presto a nostalgica rievocazione di se stessi per mancanza di... relatività, visto che non erano estensibili universalmente. Per contro, ciò in cui i Romani credevano era forse apparentemente più terreno ma anche più vicino al sentire della gente comune, che trovava nei moduli artistici in uso e nelle occasioni in cui tali moduli si usavano, spazio per i propri sentimenti e per il proprio modo di concepire la vita. Ad esempio un’eroicità più salda e consapevole del proprio ruolo sociale, una concezione della morte più vicina al sentire del singolo ed al ricordo dei superstiti, un’arte ufficiale capace di rapporti diretti tra potere e popolo; quest’ultimo punto ha aspetti sconosciuti alla maggior parte delle civiltà del passato.

Si pensi, come abbiamo già detto, all’autoproporsi dei magistrati come se, impiegando risorse e denaro pubblici, pagassero di persona; una cosa del genere era possibile proprio perché i singoli, di qualunque classe sociale, si sentivano anzitutto parte integrante del populus romanus ed il loro ruolo consisteva proprio nell’esaltare questa “parte”. Quando Ottaviano Augusto volle proporre il primato morale della sua politica dopo aver imposto il proprio potere sottolineò questo ruolo del magistrato in ogni modo. Nell’Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani anzitutto c’é un’adeguata esaltazione dei parenti divini attraverso le citazioni della leggenda di Enea sull’armatura ed il ritratto di “zio Amore”26, ma quello che conta è che egli si presenti nella veste del generale che pronuncia l’adlocutio tradizionale ai soldati, un cittadino che parla ad altri cittadini (il popolo in armi) dai quali riceve la legittimazione del proprio incarico mentre esprime, se così si può dire, il programma d’azione. Il vecchio tentativo di restauro mettendogli in mano una specie di scettro al posto dell’hasta, l’arma della fanteria romana, non fece altro che rovinarne l’effetto27. Lo stile lisippeo della statua sembrò all’artista (romano o greco non sappiamo) il più adatto a conciliare un ritratto naturalistico con l’idealizzazione del ruolo di imperator: In Lisippo si umanizzano gli dei e gli eroi, qui si avvicina all’ideale un uomo. Il mezzo rappresentativo (posa e l’atteggiamento) è lo stesso, le proporzioni sono probabilmente quelle di Ottaviano, forse “aggiustate” ma non troppo dissimili, crediamo, dal vero per non suscitare il riso dei contemporanei.

Forse più significativa ancora di questa statua fu l’iniziativa che prese Augusto di farsi fare degli archi di trionfo stabili, in pietra, prima ad Aosta, fuori dal Pomerium, poi ai confini di questo, a Rimini. L’antica usanza di fare abbassare il capo ai condottieri in segno di umiltà e di rispetto verso il popolo e il Senato, proprio nel momento in cui sembravano alzarsi al di sopra di tutti, fu rivista da questo imperator, e come senza limiti e inamovibile era il suo imperium, così inamovibili furono i suoi archi trionfali. Il ribaltamento dei significati di questa particolare architettura avviene proprio rendendola fissa da provvisoria qual’era, con una corrispondenza perfetta ai nuovi valori, anzi, al nuovo significato che si dava ai vecchi valori, come quello della virtus romana.

Le idee sull’arte dei Romani, comunque, malgrado essi esprimessero il meglio di se stessi in forme artistiche connesse, direttamente o indirettamente, al rapporto tra civis e res publica o tra civis e societas non sembrano occuparsi se non di questioni teoriche, derivate dai greci antichi o tecniche in senso stretto. Gli studi di estetica, da quando a Roma erano state importate dalla Grecia idee e ideologie in modo forse ancora più massiccio delle opere d’arte, non avevano fatto grandi progressi per circa quattrocento anni, dal I secolo a.C. al III d.C. Più che altro erano cambiate l’ottica secondo la quale i filosofi, romani o no che fossero, guardavano il mondo, seguendo i cambiamenti generali che interessavano la società nel suo complesso.

Per queste loro caratteristiche si può anche comprendere che i Romani fossero più portati alla Critica d’Arte che ad una speculazione estetica; interessava avere criteri di giudizio, esaminare come e quanto l’arte influenzasse chi guardava o ascoltava e, soprattutto, trarre da queste osservazioni indicazioni utili a ottenere l’effetto desiderato con la massima efficacia. Certamente l’arte di moda in Grecia al tempo della conquista romana era meglio compresa per il realismo più accentuato e per la possibilità che offriva di instaurare un rapporto tra arte e comunicazione; in altri termini tra l’efficacia del mezzo di trasmissione e la possibilità di sfruttarlo. I ritratti ellenistici di filosofi fatti sul parametro “brutti di fuori - belli di dentro” sono già notevolmente vicini alla ritrattistica romana con il loro apparente realismo, anche se l’ideale evocato è sempre quello del kaloskagatos, della coincidenza tra perfezione interiore e bellezza esteriore. La critica che propone Senocrate, volta a valutare i risultati “visivi” raggiunti dall’artista ed il loro effetto, avrà sui romani e su Plinio in particolare certo maggior effetto di tutta la trattatistica di Aristotele.

Da un punto di vista puramente estetico-filosofico, semmai, saranno le scuole post-aristoteliche, specialmente l’Epicureismo e lo Scetticismo a interessare di più. Si prenda ad esempio il giudizio che Cicerone dà di Fidia nell’Orator28, cioé che questi contemplasse un’immagine interiore piuttosto che qualcosa da poter ritrarre. La bellezza non è più assoluta e trascendente nei riguardi dell’artista e comunque a questi estranea (nel mondo delle idee o nella natura che fosse); Cicerone la riporta dall’esterno del corpo fisico all’interno del suo animo dandogli un ruolo fondamentale dato che non si trattava più di riferirsi ad un ideale ma a se stessi, come già in se stessi, da tempo, gli artisti dovevano trovare i limiti del proprio operare29. Egli scoprì, insomma, il valore della personalità dell’artista.

Si è ancora lontani, però, dal portare dentro questo artista il bello in se e le categorie che lo generano, è solo una “visione” interiore che ha la funzione di spiegare il punto di partenza dell’operare artistico. Cicerone attribuiva all’arte scopi morali e perciò le categorie di giudizio da lui considerate sono decor, dignitas, venustas, utilitas, magnitudo30 e, a parte l’ultima, corrispondono esattamente ai fini didascalici e morali sopraddetti, ma si deve tenere conto del fatto che egli era essenzialmente un oratore e che le caratteristiche dell’opera d’arte, nel caso dell’oratoria, corrispondevano anche strettamente a come l’oratore stesso volesse presentarsi. Anche per questo caso particolare, anzi, forse più che in altri l’opera d’arte coincide con il proprio contenuto che sono sia il significato dell’orazione sia, specie nei tribunali e in politica, la personalità dell’oratore; tre elementi coesistono: artista, opera d’arte e contenuto logico della stessa.

Sempre secondo un’ottica che consideri assolutamente equivalenti le varie forme di espressione artistica, sembra interessante anche il principio formulato da Orazio nell’Ars Poeticaut pictura poesis”, che afferma l’equivalenza tra le possibilità delle espressioni poetico-letterarie e quelle pittorico-visive. Pittura e poesia hanno la stessa capacità di rappresentare (la Natura ovviamente) e quindi possono generare gli stessi effetti sul lettore-spettatore dell’opera d’arte. Apparentemente la cosa sembra quasi ovvia, ma si deve considerare anzitutto che andava comunque affermata e che quando, storicamente, la forza comunicativa dell’immagine raggiungerà possibilità sconosciute precedentemente la frase sarà utilizzata e studiata per affermare rispettivamente la superiorità della pictura sulla poesis o viceversa; riesamineremo la questione al momento opportuno31.

Dei tre principali autori che si occuparono di teorie di critica dell’arte nel corso dei primi secoli dell’impero, Vitruvio, Seneca e Quintiliano, solo il primo è tecnicamente esperto di arti visive. Anche il suo trattato “De architectura “ darà origine, sia nel Medioevo che nel Rinascimento ad una serie di molteplici interpretazioni e la sua importanza risiedé nel fatto che, pur non dicendo alcunché di nuovo rispetto gli autori precedenti, è il più organico e sistematico trattatista dell’antichità. Le sue categorie del bello architettonico, ordinatio, dispositio, eurytmia, symmetria, decor, distributio32 somigliano molto, se non si identificano, con quelle di Cicerone dell’oratoria e sono ancora meglio estensibili ad ogni forma di composizione artistica; avremmo voluto aggiungere ad ogni forma di espressione del pensiero ma sarebbe stata una tautologia perché se il pensiero viene esplicato logicamente con la parola, non è l’oratoria il mezzo della parola meglio adatto a ciò?

Presso gli antichi la retorica, arte di disporre le parole, in quanto mezzo essenziale per la dimostrazione logica è unica sia per ogni forma di espressione artistica che non artistica. Anche nel discorso, verbale o scritto, accentrato sul “verbum” forma e contenuto dovevano coincidere. Si valuti quanto il ritratto di un magistrato del tardo periodo repubblicano o del primo impero corrisponda con l’orator ideale di Cicerone e quanto un forum o una basilica dello stesso periodo siano costruiti per essere luogo perfettamente adatto all’attività di quest’orator  e, insieme, corrispondano alle categorie vitruviane.

Andando avanti le cose cominciarono a cambiare e ad una prevalente tendenza ideologica della critica artistica verso le filosofie stoiche o epicuree si sostituisce lentamente una sempre maggiore considerazione di Platone; non è più possibile vivere esattamente gli stessi ideali e nello stesso modo degli antenati e ci si rivolge a modelli al di fuori dell’uomo, meno terreni e più ideali. Si ripete, entro certi limiti, quanto era già accaduto ai Greci dopo la fine della libertà della Polis, ma in un certo senso al contrario, allora si erano abbandonati i portati più idealizzanti in favore di un avvicinarsi alla vita reale, ora succede che l’impegno civico concreto del civis romanus non sia più possibile e questi si rifugi nell’ideale; in entrambi i casi la crisi è generata dalla perdita della libertà.

Anche Seneca, pur partendo da posizioni comuni agli stoici che svalutavano l’arte, come del resto ogni altra forma di vanità, riprende in parte il concetto di Idea, ma come Idea Artistica, della quale l’eidos aristotelico, o modello che l’artista trae da se stesso o dalla natura, è la forma particolare. L’artista, principio attivo dell’arte, modella la materia, principio passivo, cercando di adeguare il proprio modello di riferimento all Idea33. Artista, materia, eidos e fine dell’opera sono i quattro elementi costitutivi dell’opera d’arte; l’idea è al di fuori ma possiamo notare che, qualunque sia lo scopo che spinga l’artista a lavorare, questo sia espresso “materialmente” dall’opera d’arte, che realizza un modello (interiore o esteriore) conforme il più possibile all’idea. Si tratta sempre un girare attorno alle vecchie tesi platoniche,34 ma l’importanza che si dà al fine dell’opera o motivo che spinge l’artista a lavorare è certamente indice di una problematica interiore che solo il Cristianesimo potrà risolvere; i modelli “eroici” dell’Ellenismo non generavano dubbi sul perché della propria esistenza, nè gli artisti si chiedevano perché dovessero lavorare.

Più tardi anche Quintiliano35 si rifece, fondamentalmente, a fonti greche, chiedendosi però se valesse di più nell’artista la natura, la predisposizione, o la doctrina, quello che si aggiungeva, imparandolo, alla prima. Come vedremo, la sua frase «Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem»36 avrà un certo influsso sul pensiero estetico successivo. Ciò per Quintiliano era valido sia per gli artisti con particolare riguardo ai pittori che per gli oratori, per il resto le qualità necessarie ad ottenere un’opera d’arte, anch’esse valide sia per la figurazione che per l’oratoria, erano simili a quelle già citate da Cicerone, l’inventio, la dispositio, la collocatio. La prima in particolare distingue l’Idea dal processo di estrinsecazione della stessa, l’Ideazione, e assumerà un significato particolare nel Rinascimento. L’Idea platonica, inoltre, ormai comincia ad essere sostituita nel pensiero da un altro ideale assoluto di bellezza e di perfezione o meglio, di origine della perfezione stessa, il Dio degli Ebrei e dei Cristiani.

Chiudiamo il discorso proponendo un’insolita lettura della ritrattistica romana e in particolare dei magistrati distinguendo le opere secondo i generi principali del discorso retorico: l’epidittico, il forense ed il deliberativo o politico.37

Nel periodo repubblicano prevarrebbe il forense, vista la necessità di convincere gli altri alle proprie tesi; all’inizio dell’impero il deliberativo, essendo ormai il potere fortemente concentrato nelle mani di pochi e, mano a mano che si va verso la fine dell’antichità, l’epidittico, che dimostra il potere senza doverne dare giustificazione.

Si tratta di una suddivisione molto generica e solo parzialmente rispondente alla realtà delle cose ma che si adatta abbastanza bene a spiegare i rapporti tra potere e popolo in un clima di lenta ma costante perdita di libertà.

 

 

 

L’ARTE CRISTIANA

 

Per comprendere meglio i motivi del successo del Cristianesimo, lasciando da parte per qualche istante gli intrinsechi valori morali, ci si deve forse chiedere fino a che punto questa religione “esotica” per i Romani38 fosse portatrice di una nuova cultura o piuttosto di una che coincidesse con il recupero di quella più vecchia ed apparentemente dimenticata dei tempi regi e della prima repubblica. Infatti, nella misura in cui il Cristianesimo riproponeva quella serietà e quella moralità di costumi che, almeno nel ricordo, erano ancora vivi nel popolo, riproponeva cose antiche e alle quali ancora molti desideravano tornare.

Si può comprendere, perciò, la facilità con cui le categorie di lettura delle opere d’arte figurative cristiane venissero a coincidere con quelle pagane; fattore secondario, certo, ma non del tutto ininfluente sulla rapida diffusione della nuova religione. Mano a mano che il potere diveniva sempre più dispotico, riaffioravano quegli elementi popolareschi e moraleggianti nella concezione della vita che erano sembrati recedere, sommersi dallo sfarzo e dalla raffinatezza del primo secolo dell’Impero.

Una sorta di ritorno nostalgico alle vecchie tradizioni, che già Augusto aveva sfruttato politicamente e che, evidentemente, non si erano mai estinte del tutto, anche se unito ad una contemporanea tendenza dei costumi alla rozzezza ed alla violenza: si pensi solamente agli spettacoli del circo! Ma il fatto che le immagini dell’arte, specie se ufficiale, citino così poco un fenomeno, quello dei giochi circensi, così vasto è di per se indicativo di quanto poco incidessero gli usi e i costumi del popolo sulla cultura e di quanto questa fosse sempre più di pochi.

È vero anche che il potere tende sempre a mentire ed a nascondere gli aspetti peggiori della propria amministrazione ed a far credere che tutto vada nel migliore dei modi, ma è sempre un fatto abbastanza singolare questa sorta di relativo silenzio iconografico, indice o di una forte dose di ipocrisia dei governi di allora o di un’errata valutazione da parte di noi moderni dei fenomeni che erano apparentemente grandi solo nelle città più popolose. Siamo comunque convinti che se si deve parlare di cultura popolare si debba tenere presente che solo apparentemente prevalessero le tendenze delle grandi masse urbane, degradate dall’azione di un potere che le voleva distrarre dai sempre crescenti problemi di sussistenza ma che, in effetti, fosse sempre più forte il desiderio di valori seri e forti proprio come reazione a questo degrado.

Quando Costantino prese il potere, sul piano figurativo, stilistico ed iconologico cambiò molto poco. Da questo punto di vista i primi artisti cristiani (noi conosciamo fondamentalmente quelli delle catacombe e pochi bassorilievi) vanno considerati solo come dei romani di religione cristiana. Nella ritrattistica continuava ad avere un ruolo particolare quella imperiale.39

Il rapporto tra imperator e milites per parecchio tempo non fu solo formale e spesse volte, nella storia dell’impero, furono i soldati a mettere e levare gli imperatori. È vero che da tempo non si trattava più di coscritti, ma erano pur sempre dei cittadini romani. Quando tutti ebbero la cittadinanza la cosa non fu più elemento distintivo e, contemporaneamente, si fecero con sempre maggior frequenza leve di “barbari”, la frattura tra cittadini e militari divenne definitiva. Cambiarono, conseguentemente, anche il rapporto tra imperator e milites e la rappresentazione di questo stesso rapporto. Anche se, di fatto, le truppe mercenarie continuarono ad influenzare l’ascesa al potere degli imperatores questi non trovarono più conveniente giustificarsi attraverso la loro adclamatio. Il potere era ormai del tutto autocrate e bisognava, in qualche modo, trovare un’altra giustificazione. Il cristianesimo si prestò benissimo a questo scopo.

I mutamenti nello stile della ritrattistica imperiale riflettono perfettamente questa evoluzione. Non più naturalezza e realismo ma, a partire da Adriano, un lento irrigidirsi dell’espressione che diviene sempre più fissa e distaccata. Non si cambia neppure la testa alle statue degli imperatori, ma solo la targa sul basamento. La verisimiglianza non è più curata e al posto dell’immagine degli imperatori si mette quella del potere imperiale. La statua equestre di Marc’Aurelio si colloca a metà di questo processo di trasformazione iconografica. L’imperatore non è divinizzato e ancora impersona fondamentalmente il condottiero glorioso che guida sia l’esercito invitto che i destini della Città Eterna, ma la figura è rigida e collocata al di fuori dello spazio e del tempo contingenti; senza essere un ideale è idealizzata e fatta divenire eterna come la città che guida. Non per niente Michelangelo la pose al “centro del centro ideale” e morale della città, nella piazza del Campidoglio.

Poco importa, a questo punto, che il gesto sia bloccato, l’arte torna a rappresentare ideali al di fuori del tempo e dello spazio; la differenza con quelli dell’età arcaica greca è che ormai nessuno ci si può più riconoscere direttamente. Il cavaliere e il suo cavallo non avanzavano più per dominare il mondo, erano ormai un’idea immobile, la spinta in avanti, alla conquista, frenata da Augusto (o meglio, esauritasi) si trasformava nella ricerca di una superiore vita spirituale, eterna anch’essa.

La coabitazione tra Paganesimo e Cristianesimo si concretizzò nel lento trapasso del senso dell’eterno dall’uno all’altro. Come già con la fine della libertà politica della polis i Greci si erano rifugiati nel proprio intimo così fecero i Romani; gli uni generarono opere più interessate alla vita reale e, spesso, anche quotidiana, gli altri abbandonarono una rappresentazione realistica del ruolo sociale dell’individuo semplicemente perché questo ruolo non c’era più. Il passaggio definitivo, almeno ufficialmente, avvenne quando Costantino prese il potere, poco dopo le ultime, inutili, persecuzioni di Diocleziano.

La struttura economica, sociale e amministrativa dell’Impero non mutarono: ancora, per essere acclamati imperatori era necessario il consenso dell’esercito ma il potere, come avevamo già detto, ne risultò fondamentalmente rafforzato. Non si trattava tanto dell’ovvio rafforzarsi che la cosidetta “conversione” portò all’imperatore accaparrandogli il consenso di vasti strati sociali ormai cristianizzati tranne che nella capitale (che, comunque, di fatto fu spostata a Costantinopoli) quanto dell’origine giuridica e soprattutto morale ora attribuita al potere stesso. Se un imperatore sbaglia o non fa il bene del popolo non può essere realmente un dio o avere il consenso degli dei, ma se invece di essere di natura divina è stato destinato al posto che occupa da Dio (o col consenso o l’indicazione di Questi) risulta inamovibile anche quando erra o pecca: chi, infatti, potrebbe andare contro la volontà divina o disfare il suo operato? Chi, poi, fosse in realtà il vero interprete di questa volontà era ancora tutto da discutere.

Poche o nulle, perciò, le variazioni nell’iconografia imperiale in questo passaggio, tanto che è difficile distinguere le colossali statue degli ultimi imperatori pagani da quelle dei primi cristiani; certo è che ogni forma di naturalismo era stata ormai quasi totalmente abbandonata. In queste rappresentazioni nessuno poteva identificarsi, forse neppure gli stessi imperatori, ma quello che vogliono esprimere è immediatamente recepibile e identificabile con il sentire comune, con la visione terribile e grandiosa, totalmente distante dal popolo di Dio, di un potere assoluto. Questa identificazione di contenuti e categorie di lettura dell’opera d’arte è ancora così forte che si può spiegare abbastanza bene perché fino a metà del secolo non si hanno rappresentazioni pubbliche del Crocefisso in Roma (la prima, infatti, la si ritrova nel portone ligneo della basilica di Santa Sabina40 a metà del IV secolo), fino a quando, cioé, il concetto stesso di un Dio morto come uno schiavo non fu “digerito” anche dai Romani di Roma.

Di arte si occupò distesamente anche il maggior filosofo pagano del basso impero, Plotino, influendo potentemente su tutto il pensiero medioevale e, soprattutto umanistico. Ancora vivo è, in lui, il concetto che l’arte sia imitazione, come del resto fa la stessa natura che, emanazione dell’Uno e organizzata da un principio razionale, il Nous, rappresenta nei suoi oggetti la bellezza (che non può essere nella materia in se) in quanto riflesso del pensiero divino. L’arte con questo processo di imitazione si alza al di sopra della Natura perché “sale di scatto alle forme ideali donde nacque la Natura”41.

Un’arte che rappresenta la vicinanza spirituale all’Idea più che la vicinanza alle forme della natura, dunque, e per la quale è più bello un ritratto “vivo” di un uomo brutto che quello più “freddo” di uno bello. Giustamente è stato notato che la vivezza psicologica dei ritratti contemporanei non può essere stata ispirata da Plotino direttamente ma certo fu espressione del filoellenismo dell’imperatore Gallieno, amico di Plotino stesso. Il fatto è che questi volti dallo sguardo ispirato non sono realistici in senso stretto, visto che corrispondono abbastanza bene proprio alla concezione di spiritualità e misticismo in voga all’epoca, sentimenti propri anche del cristianesimo. Ritratti che si occupano dell’uomo interiore più che essere destinati a dare un’immagine pubblica che sarebbe destinata non tanto all’uomo quanto alla carica, giuridicamente intesa, che questi occupa.

A ben considerare, poi, non si dovrebbe neppure ora fare una distinzione tra un’arte pagana e una cristiana: gli artisti che agiscono prima nella catacombe e poi nelle basiliche non hanno tecniche e modi di agire differenti dagli altri, sono romani di religione cristiana, e non altro. Le caratteristiche della pittura nelle catacombe, definita spesso “impressionista” non derivano solo dalla fede degli artisti ma anzitutto dalla scarsità di luce nelle gallerie, che costringeva i pittori a usare colori forti e semplici, con tratti grossi e sommari del disegno; anche negli ipogei relativi ad altri culti o nelle catacombe (poche le sopravvissute) non cristiane le caratteristiche stilistiche sono fondamentalmente le stesse; e oltre a ciò si deve tenere conto del fatto che in genere non si tratta di artisti molto quotati, anzi. Si ritrova, in queste pitture, un residuo di quella vivacità nella concezione dell’ultraterreno che aveva caratterizzato le tombe etrusche; anche se la visione di questa vita è totalmente spirituale, l’intensità con cui viene concepita è evidente nello stile.

Stesso discorso si può fare per i mosaici, in cui la gestione della luce è più solare, favorita ovviamente dal gran numero di finestre delle basiliche dell’epoca. I primi mosaicisti cristiani erano legati al naturalismo delle rappresentazioni parietali dei primi tempi dell’impero, ma già nel terzo secolo la luce proveniente dalle finestre era gestita da questi mosaici che ne riempivano l’ambiente dando corpo allo spazio. Nel mausoleo di Santa Costanza42 i mosaicisti imperiali ancora applicano schemi iconografici pagani e di carattere poco religioso a significati cristiani e nel giro di pochi decenni la tecnica musiva diventerà prevalente. Vedremo quali significati avesse questo agire ed interagire con la luce.

 

 

IL BASSO IMPERO

 

Sostenere che la sistematicità del pensiero tardo-antico corrisponda ad un modo di essere generalizzato ci sembra azzardato, un conto è il modo di pensare e di porsi di fronte alla realtà di chi appartiene ad una èlite culturale e un conto quello della gente comune, per la quale la sottigliezza del pensiero di un Boezio semplicemente non esisteva. Pure, se la filosofia e la teologia sono per pochi, anzi, pochissimi, il sentimento generale si affida ormai completamente alla religione.

Diocleziano aveva congelato le classi sociali, iniziando quel processo che portò al feudalesimo vero e proprio e questo processo corrisponde a una progressiva perdita di originalità del pensiero, come se l’individuo perdesse stimoli interiori mano a mano che diminuiva la sua libertà esteriore. Questa considerazione sarebbe suscettibile di ulteriori sviluppi; certamente la stessa grandezza dell’Impero Romano tolse vitalità alla compagine sociale, che sempre più e sempre meglio aveva dovuto essere organizzata e regolata e generò, contemporaneamente, la necessità di autoconservazione. La ritualizzazione del sistema di vita e dei rapporti interpersonali e la sistematicità del pensiero ne furono le conseguenze. Anche il pensiero cristiano, nuovo e vitale, assunse queste forme vecchie. Quelle che prima erano state forme accessorie e didattiche della cultura ora divengono la cultura stessa.

E l’arte seguì la stessa sorte: come i retori non facevano altro che ripetere all’infinito gli stessi concetti così gli scultori, ormai da tempo, imitavano sempre se stessi. Le categorie del bello sono sempre immutate e corrispondono sempre al gusto generale, ma è questo che è senza vitalità. In una società statica e senza apparenti sviluppi43 il pensiero si interiorizza e vive alimentandosi di se stesso; gli studi divengono base a questo pensiero e per questo devono essere sistemati e riassunti, non sono più immediatamente vivi. Ovviamente questo “bloccarsi” degli studi e dell’arte e, in genere, di tutta la società era solo l’inizio di una nuova era.

Con il progressivo affermarsi del cristianesimo come religione di stato si verifica anche il dissolversi dello stato stesso, sicché, quando le parti si invertirono e furono i seguaci delle vecchie religioni a essere perseguitati, l’Impero, di fatto, non c’era più e ne sopravviveva solo una parte, ormai autonoma anche spiritualmente dalla matrice originaria. L’unica istituzione che rimase fu proprio la Chiesa di Roma perché basata sulle coscienze piuttosto che sulle ricchezze materiali.

Non è solo un modo di dire da testo scolastico, finché la situazione politica non si fu stabilizzata e il potere si esplicò quasi esclusivamente come potere di pura forza, fu solo la Chiesa a rimanere universale. Il processo fu lento e i punti nodali sono, in Italia, il regno dei Goti e quello dei Longobardi, ai quali corrispondono, in Europa, il momento della sitemazione dei popoli germanici all’interno dei vecchi confini imperiali e quello della lotta per il predominio. Carlo Magno ne sarà la soluzione. In questo periodo, che va da Teodosio a Carlo, dal ‘400 all’800 quasi con esattezza, muore un impero e ne nasce un altro, più sul ricordo che sulle ceneri del precedente.

Le nuove razze immesse nei confini dell’impero erano ad un grado di civiltà inferiore44 nello sviluppo di una società organizzata come stato e, conseguentemente, avevano minori necessità di rappresentare quei valori collettivi che regolavano giuridicamente i comportamenti individuali; ciò determinò la fine della tradizione ritrattistica romana, sia personale che pubblica e imperiale, orientando il consumo dell’arte a forme più gratificanti l’individuo nel suo apparire immediato, come la gioielleria. In altre parole si bada più all’immagine individuale diretta che alla storicizzazione di questa. Naturalmente ci fu anche un forte restringersi dei possibili committenti, visto l’altrettanto forte abbassarsi del tenore di vita e il numero molto ridotto di individui di cultura superiore. Con altre parole ancora possiamo dire che i “barbari” amavano il bello ma non avevano sviluppato delle categorie relative, mentre i “romani” le avevano, ma sulla carta, perché ad esse anteponevano categorie interpretative della realtà del tutto spirituali. Insomma, ci fu un effettivo e notevole decadimento dell’arte perché questa non ebbe più chi potesse interpretarla con efficacia; era quasi inutile perché parzialmente incompresa. La soluzione fu una “spiritualizzazione” delle categorie di lettura delle opere d’arte che ancora al tempo del “dolce stil novo” era parzialmente alla base del pensiero estetico.

Tra le forme espressive maggiormente significative di un modo di essere collettivo troviamo l’arte musiva, soprattutto nelle aree dove maggiormente si era mantenuta l’influenza delle antiche istituzioni o dove queste erano sopravvissute. Nella letteratura dell’epoca i toni nostalgici e tristi per la fine di un’epoca e di un mondo sono frequentissimi, ma nelle arti figurative i cambiamenti sembrano molto più lenti ed essenzialmente consistono in una progressiva semplificazione tecnica e stilistica.

I dotti e gli studiosi sono in grado di distinguere scuole, modi e tempi con estrema sottigliezza ma a uno sguardo generale, anche se superficiale, si ha l’impressione che le novità formali siano poche e determinate spesso dalla necessità di riutilizzare materiali recuperati da monumenti preesistenti. Il fenomeno è già evidente all’epoca di Costantino e non è dovuto tanto a una precisa volontà di risparmiare quanto a una generale incomprensione verso i valori che quei monumenti, direttamente o indirettamente, portavano in se; questo ci sembra un’ulteriore prova che contenuti dell’opera d’arte e categorie di lettura della stessa coincidessero, tanto da portare a una sorta di incapacità nel riconoscere esattamente quello che nei secoli precedenti era stato considerato, appunto, normativo e significativo abbastanza da essere preso a modello estetico proprio perché i contenuti espressi dall’opera non esistevano più.

Che nella letteratura, sia pure spesso in forme e modi ripetitivi, si usino toni più sentimentali è connesso al fatto che i libri hanno, come fruitore privilegiato, un individuo singolo che ha una maggiore, naturale capacità di autoisolarsi e di introspezione; ma quando si devono creare grandi opere collettive, sia nell’ideazione che nella fruizione, la capacità di astrarre viene spinta al massimo perché il generatore ideologico dell’arte è un potere del tutto separato dal popolo e non ci riferiamo tanto a un potere politico, quanto a uno intellettuale e spirituale connesso, certo, a quello politico ma fondamentalmente indipendente. A Costantinopoli, nella base dell’obelisco di Tutmosi III fatto trasportare nella “sua” città da Costantino la separazione tra imperatore e popolo è netta e sottolineata dall’assoluta mancanza di prospettiva nel rendere la folla, allineata su tre file sovrapposste, che risulta essere, in tal modo, non tanto “la” base del potere imperiale quanto “alla” base di questo, decisamente sotto e separata.

Il popolo di Dio si sottomette, partecipa e guarda ma non comprende intellettualmente ciò che gli viene mostrato, ma ciò non impedisce che non possa viverlo. Prendiamo ad esempio il Cristo-imperatore pantocrate dei SS. Cosma e Damiano in Roma: è, e basta, apparentemente assoluto in questo suo esistere, ma la luce divina e la luce che pervade gli ambienti si identificano e la loro suggestione è fortissima perché tutto lo spazio è fatto di questa luce e il fedele, sia esso un teologo o un servo della gleba, viene a trovarsi “dentro” l’opera d’arte, non più solo di fronte, vivendo della vita di questa o, se si preferisce, dando a questa la sua stessa vitalità.

La vitalità della luce è la vera novità. Nella Cappella Arcivescovile di Ravenna troviamo scritto:

 

« aut lux hic nata est - aut capta hic libera regnat. »45

 

Totale è la coscienza di aver raggiunto l’effetto artistico al di la dei contenuti iconologici. Poco importano, a questo punto, i significati più intellettuali e teorici espressi, mai fu superata, e poche volte raggiunta, questa fusione tra arte e fruitore, tra realtà suggerita dall’immagine e realtà interiore del riguardante che si innalzava, così, d’un tratto nei cieli in contemplazione. Nel momento in cui la comprensibilità dell’opera sembra scindersi dal destinatario, viene recuperata superandola di slancio, facendo coincidere sensazione emotiva e sensazione fisica.

Questi mosaici (pensiamo ora in particolare a Ravenna) non sono perciò un puro esercizio intellettuale del committente, esprimente una serie di significati allegorici, simbolici, teologici incompresibili ai più, ma la concretizzazione della Luce Divina che è vita anche nell’incompresibilità del suo disegno.

Quest’uso “vitale” dello spazio è sottolineato dal forte contrasto tra la semplicità (non la rusticità) delle murature esterne in mattoni e la raffinatezza degli interni totalmente ricoperti da mosaici. In queste nostre affermazioni ci confortano anche le teorie estetiche dell’epoca e anche se ci sono giunte direttamente solo quelle cristiane cattoliche o ortodosse si può dedurre, da quanto rimane, che anche quelle ariane (in Europa) o ispirate alla predicazione di Mani (in Africa e Oriente) generassero espressioni artistiche consimili nella forma, pur nella differenza dei contenuti strettamente religiosi. Si pensi al valore simbolico della luce nell’Arianesimo e a come il contrasto esterno (il corpo) — interno (l’anima) possa corrispondere al dualismo del Manicheismo.

Si rigenera, in questo modo, a un livello vitale prima che intellettuale l’universalità della fede. I misteri di questa rimangono tali per tutti, indipendentemente dal livello al quale possa arrivare la capacità di discernimento del singolo, ma tutti possono vivere con eguale forza di sentimento una fede interiore della quale l’arte è espressione altrettanto intensa. Non si pone neppure il problema di sapere quanti vedessero nelle immagini le stesse cose semplicemente perché le categorie logiche di lettura dell’opera non sono in possesso di ognuno; si tratta di una forma di analfabetismo visivo, ma tutti vivono le immagini come sentimento religioso allo stesso modo. Forse è questa forza interiore che segnò la fine degli ultimi resti delle antiche religioni.

Bisogna anche dire che alcuni parametri di progetto di queste grandiose costruzioni per immagini sono identificabili; ad esempio in S. Apollinare in Classe, a Ravenna, è indicato un possibile percorso di salvezza. Vicino all’ingresso è rappresentata Ravenna nei suoi due centri di potere, il Palazzo di Teodorico ed il porto, fonte di ricchezza dai commerci e di potere militare. Chi entra viene introdotto dalla città terrena, ben governata, a quella celeste dove trova Cristo in trono.

Anche i tituli che cominciano ad essere apposti a queste opere musive, eredità delle epigrafi dedicatorie di epoca classica, possono aiutare a interpretare la loro funzione. In essi, in genere, non si sottolinea tanto la bravura dell’artefice o l’importanza dei contenuti46 , quanto la preziosità dei materiali e dell’oro, che è certamente l’elemento più evidente anche agli indotti. Si accentua, così, la cesura tra pensiero espresso e forma; l’arte, nella sua accezione universale in quanto rivolta a tutti, è recepita soprattutto come materia preziosa il che, in un’epoca di scarsezza di beni materiali, è anche comprensibile. Al tempo stesso il Cristianesimo separa nettamente il mondo sensibile, dove tutto è finito, da quello dello spirito, che fa riferimento direttamente all’assoluto, a Dio.

Cristiano è il maggior filosofo dell’epoca, S. Agostino. Il suo pensiero estetico47 deriva in buona parte da Plotino specie nel sottolineare la differenza tra il Bello Assoluto in sè, Dio, e quello relativo, delle cose. Di conseguenza il Brutto risulta essere deficienza del bello e lontananza da Dio, una soluzione fondamentalmente assai simile a quella che viene data al problema del male. Più interessante è la considerazione che il giudizio sul bello sia sempre soggettivo e quindi incerto, senza che la ragione possa rimediare a ciò a causa della propria imperfezione48. Si è ben lontani, ad ogni modo, da un più moderno concetto di gusto49.

Cristiano e cattolico è anche il maggior filosofo del V secolo, Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, che già nel nome portava tutto l’orgoglio di quelle nobili famiglie romane che erano le sole eredi delle tradizioni e della cultura antiche; a lui spettò il compito di ritrasmettere questa cultura alle generazioni future e la sua opera fu di riferimento per tutto il Medioevo sino a quando, nel XV secolo, si tornò prepotentemente al Neoplatonismo che mai, comunque, era stato dimenticato.

L’influenza dell’opera di Boezio fu fortissima per tutti i secoli che seguirono e il suo De Consolatione Filosophiae fu visto come il testamento spirituale non di un uomo ma di un’epoca. Si noti bene, a consolare l’uomo Boezio non chiamò la Fede, che pure aveva profonda, ma la Filosofia, facendo così appello a quelle risorse interiori che la ragione insieme genera e nutrisce nell’animo sensibile e creativo.

Queste qualità interiori furono, in Boezio, determinanti nel concepire l’opera in cui esprime il suo pensiero sull’arte, il De Institutione Musica. In questo trattato Boezio indica la direzione in cui cercare l’arte e il suo pensiero può essere esteso dalla Musica a tutte le arti. Il libro è stato spesso commentato ed esaminato in epoca moderna ma principalmente per tentare di ricostruire un attendibile storia della musica nell’antichità, fine certamente rilevante ma che lascia sfuggire l’importanza che la sua lettura ha avuto nei secoli. Anche ad una scorsa sommaria si può notare che l’aristocrazia di sangue di Boezio si traduce in una sorta di aristocrazia intellettuale.

La sfiducia del santo di Ippona nella ragione è superata del tutto, anzi, i termini sono ribaltati e Boezio non si pone il problema della relatività del giudizio ma solo quello della sua origine intellettuale e del diritto a pronunciarlo. La preminenza della ragione è affermata più volte “... poiché, sebbene i momenti di quasi tutte le arti e della vita stessa siano prodotti dall’occasione dei sensi, tuttavia in essi non è alcun giudizio certo, nè in vero alcuna comprensione del vero, se vien meno il giudizio della ragione”50; sino ad arrivare ad affermare che “quanto superiore è la scienza della musica nella conoscenza teorica rispetto al portare in atto l’opera! Evidentemente di tanto quanto il corpo è superato dalla mente; poiché ciò che è privo di razionalità vive in servitù... onde avviene che la speculazione intellettuale non abbia bisogno di essere in atto, invece le opere della mano siano nulle se non sono condotte dalla ragione”51.

Boezio dà alla ragione umana una prevalenza morale sulla pratica e questo va oltre la necessità, propria dei tempi, di affermare la superiorità dello spirito sulla materia, per la quale l’uomo interiore prevale sempre sulla forza esterna dei fatti. Il concetto viene spiegato meglio quando Boezio distingue tre modi di fare musica (e quindi arte): “Il primo genere è quello che si mette in atto con gli strumenti; il secondo inventa poesie, il terzo quello che giudica l’esecuzione degli strumenti e il componimento poetico”52. A questi tre generi corrispondono tre tipi di artista tra i quali, in particolare, quello dei poeti è guidato non dalla speculazione e dalla ragione ma da una specie di istinto naturale. Boezio più che la superiorità dell’arte sembra affermare la superiorità della critica e afferma l’esistenza di valori dell’uomo razionale che arriveranno diritti fino a Dante53. C’é una notevole corrispondenza con quanto abbiamo sopra notato relativamente all’arte musiva, i cui veri contenuti erano razionali e per pochi ma che poteva essere vissuta con il sentimento per mezzo dell’ambiente spaziale creato e che era stata materialmente messa in opera da specialisti.

Rileggendo Boezio si potrebbe dire che in fondo il vero artista era quello che lui chiama poeta, che agisce indipendentemente dal giudizio della ragione per istinto naturale ma che lo studio superiore dell’arte era raggiunto da quella particolare figura che oggi si chiama critico. Questa contemperatio della ratio col sensus54 si sostituisce alla loro coincidenza e sarà la portante di tutta l’arte da questo memento in poi, momento che forse non è ancora superato. L’identità tra l’essere materiale e reale dell’uomo e ciò che egli sente di se interiormente non può tradursi in un arte che ne dia la totale unità. Mano a mano che la cultura occidentale ha progredito, ha teso sempre maggiormente a qualcosa che più che in atto esistesse in potenza, in una dimensione diversa, recepibile meglio col pensiero che con i sensi anche nel rapporto con la materialità dell’opera d’arte. Non tanto un modello da imitare anche se già posseduto interiormente (Cicerone) quanto un traguardo da raggiungere con tutto l’essere, come la fede cristiana che ci mette in comunione con Dio stesso.

Le categorie di lettura dell’opera d’arte in Boezio? Evidentemente coincidono ancora con l’opera stessa, perché implicite nella sua razionalità profonda e, come ogni cosa che è razionale, universali. I nomi usati per designarle sono ancora gli stessi utilizzati dai grandi retori dell’antichità; piuttosto vogliamo osservare ancora che la loro razionalità coincide con quella che Vitruvio attribuisce all’Architettura. Citiamo ancora dal De musica: che “...la condizione della nostra anima e del corpo è soggetta in certo modo alle stesse proporzioni, con le quali una ulteriore disquisizione mostrerà congiungersi e intrecciarsi modulazioni armoniche...”55 e da questo momento in poi entriamo in quel campo speculativo in cui è l’intera armonia dell’Universo a interessare; chi volesse ricordare Pitagora è nel giusto, anche perché lo fa direttamente lo stesso Boezio. L’armonia del moto universale comprende in sè anche l’uomo e la comprensione logica e cosciente di questa corrisponde all’arte, i cui criteri di lettura sono l’armonia stessa.

È un’arte che trova la sua massima forma vitale nel pensiero e le categorie logiche per la lettura delle opere d’arte sono in fondo le categorie stesse della logica. Sarà il pensiero nostalgico e puro di Boezio o quello aspro di Isidoro di Siviglia o quello mistico e possente di un Abelardo a dare contenuto alle opere degli artisti

 

 

L’ARTE MEDIOEVALE.

 

Ci siamo attardati su Boezio in particolare,56 più di quanto non si faccia normalmente in qualsiasi testo d’arte, perché riteniamo che la sua concezione estetica sia, in un certo modo, riassuntiva di un’intera epoca. Boezio restituisce alla nuova Europa gli antichi valori in forma cristiana, pronti per essere recuperati e riutilizzati. Forse la stessa grandezza della civiltà antica costituì, almeno in un primo momento, un ostacolo allo sviluppo della nuova; si trattava di un monumento di umanitas gigantesco di cui non si poteva non tenere conto ogni qual volta si provasse a progredire col pensiero57. Per questa ragione, mentre i popoli si fondevano, si spostavano e cercavano una propria identità, gli studiosi, pochi individui per la verità, cercavano anzitutto di sistemare, chiarire e riassumere le conoscenze del passato. Il sapere enciclopedico dell’uomo medioevale nasce anzitutto da questa necessità e all’artista rimane un compito soprattutto manuale, come del resto era sempre stato; i chierici pregavano e studiavano, i nobili combattevano, gli altri lavoravano e tra di loro erano anche gli artisti veri e propri.

Il primo grande sistematore del pensiero umano nel Medioevo fu Isidoro di Siviglia58 che nei Libri Etymologiarum diede alla pittura soprattutto il compito didattico di aiutare a ricordare e distinse, negli edifici, la costruzione in sè dagli ornamenti ad essa sovrapposti, nei quali fa risiedere la bellezza che viene in questo modo a essere totalmente separata da ogni funzionalità. Alcuino, due secoli dopo, distingueva ancora la funzione rappresentativa delle immagini, che aiutava a ricordare il loro contenuto, dalla forma, che si esprimeva per l’amore delle linee e dei colori. Idee estetiche che vanno già oltre il pensiero di Boezio perché annullano del tutto il rapporto tra forma e contenuto nel senso che, separandoli nettamente, l’arte si riduce a puro ornamento, bello in quanto riflesso di bellezza divina o ispirato da Dio. In questa distinzione c’è anche un primo accenno alla possibilità che l’arte esista autonomamente, con un proprio linguaggio, anche se la sua funzione didattica è l’unica ragione che ne giustifichi l’esistenza.

In quest’epoca i libri d’arte sono, più che dei trattati di estetica, dei ricettari, nei quali il livello artistico dell’opera è messo direttamente in relazione alla qualità della composizione di un colore e al suo costo. L’artista è praticamente ignorato, come già in Isidoro o Alcuino, non solo come creatore ma anche come esperto operatore; ogni merito e l’origine stessa dell’arte vengono sempre fatti risalire direttamente o indirettamente a Dio.

Il De Coloribus et Artibus Romanorum di Eraclio e la Schedula Diversarum Artium del prete Teofilo sono i più celebri tra questi ricettari; il Ricettario del Monte Athos, infatti, è una rielaborazione seicentesca di precedenti opere bizantine troppo tarda per poter essere presa in considerazione.

Nel ricettario di Eraclio, del secolo X, si riprende il tema della preziosità della materia come parametro principale di giudizio della bellezza; notiamo solo che il ricettario è scritto in esametri latini; è vero che in quest’epoca l’uso del volgare quasi non esiste nella scrittura, ma ci sembra egualmente che la pratica della versificazione presupponga un ambiente di redazione piuttosto erudito. La stessa considerazione si deve fare per quello del prete Teofilo59 che, oltre ai consigli pratici, teorizza una posizione di dipendenza dell’artista nei confronti della sua stessa opera in quanto ispirata da Dio.

Anche il prete Teofilo vede la bellezza nella ricchezza cromatica e nella preziosità dei materiali come già Isidoro di Siviglia. I colori sono teorizzati puri, limpidi, giustapposti e senza sfumature, come nei mosaici bizantini60 ma anche come nell’oreficeria.

Per riprendere un momento il discorso di prima osserviamo che probabilmente gli orafi, come i mosaicisti, non dovevano essere persone di grande cultura e che le osservazioni dei ricettari sono forse per i committenti e non per gli esecutori dell’opera d’arte. Forse è proprio in questo accostamento tra gioiello e mosaico che si può trovare la chiave per una migliore comprensione dell’arte dell’alto Medioevo. La gioielleria, purtroppo, si perde facilmente nei secoli per la facilità con cui l’oro può essere fuso e l’avidità di possesso che genera, ma quello che rimane (di quest’epoca per lo più reliquiari) è sufficiente a darci un’idea del resto.

L’amore per tutto ciò che ha luce o genera riflessi, come gli smalti, è perfettamente adeguato a un gusto semplice che trova la bellezza nell’appagamento dei sensi. Le sensazioni che l’espressione artistica infondeva e che il fruitore cercava erano quasi fisiche. Il gioiello che si porta addosso, il mosaico, l’ornamento, la musica vengono vissuti con intensità e partecipazione. Le caratteristiche della fruizione non sono diverse da quelle che avevamo indicato come proprie dei mosaici tardo-romani ma con una differenza: l’intensità e la partecipazione di cui sopra hanno un valore soprattutto sentimentale. Le cronache raccontano che Clodoveo I, re dei Franchi, passava ore ed ore con tutta la sua corte ad ascoltare un organo che gli era stato inviato in regalo da Giustiniano e lo stesso Carlo Magno61 amava cantare e dirigere un coro durante la messa, cui tutti, dai conti ai servi erano obbligati a partecipare.62

Nelle arti figurative lo stile dell’epoca è ormai tanto compendiario da generare difficoltà di lettura per noi, anche se allora proprio la ripetitività di un ordine convenzionale la facilitava e permetteva rapide trasmissioni di pensiero; un po’ come l’uso quasi smodato di abbreviazioni negli scritti ne rendeva la copiatura estremamente veloce. Anche in questo caso poco interessano gli eventuali significati allegorici e simbolici, quello che conta è il modo in cui l’arte viene vissuta interiormente e mentre si scrive, in latino, di astronomia, matematica o teologia i popoli della nuova Europa formulano inconsciamente i canti delle nuove mitologie in volgare63 dando origine, in modo ancora un poco oscuro, a quelle sacre rappresentazioni da cui rinascerà il teatro e che venivano vissute in modo spesso “viscerale”64.

Ancora emozioni visive sono quelle che riferiscono i libri che narrano le Mirabilia Urbis Romae. I Libri Carolini, la raccolta di leggi, decisioni e raccomandazioni (a prescinere dalla forma giuridica) che Carlo Magno prendeva nelle diete e nelle riunioni con nobili e vescovi, si preoccupano di scindere queste emozioni dai significati aggiunti di carattere religioso, distinguendo l’immagine in sè dal significato che può esserle attribuito65 e dal valore che gli dà la fede66. Anche nel campo dell’estetica, come in quello politico, tutto fu sistemato ed ordinato ideologicamente, già adatto agli sviluppi dei secoli successivi, con tutte le future contraddizioni e conquiste pronte per l’uso (si potrà dire?).

Le brevi considerazioni sinora fatte in questo paragrafo non hanno fatto alcuna distinzione tra un’arte romana, una germanica ed una bizantina eppure, tuttora, è un problema sia critico che storico separare gli apporti che queste culture hanno dato prima di giungere ad una loro più o meno definitiva sistemazione con Carlo Magno. In realtà l’arte tardo-romana e quella bizantina non sono distinguibili tra di loro se non a partire dal momento in cui i barbari67 invasero la metà occidentale dell’impero.

Abilissimi nel lavorare i metalli, unirono le loro capacità e tecniche a quelle degli orafi che già operavano in occidente ottenendo risultati eccellenti. Questo processo fu particolarmente rapido in Italia dove la presenza continua della dominazione di Bisanzio su alcuni centri tra i più importanti esercitò la sua influenza su di un popolo, il longobardo, che era rimasto a lungo tra i più lontani dall’Impero e meno aveva risentito dell’influenza romana. In simili condizioni il contenuto iconografico dell’arte longobarda non potè che essere ripreso, semplificandolo, da quello tardo-romano-bizantino; l’Ara di Ratchis, a Cividale, ne è un esempio.

Nella palese imitazione di schemi genericamente ripresi dalle basiliche bizantine l’artista ha dato il meglio di sè per ottenere un effetto simile a quello ottenibile rilevando una lamina metallica dalla faccia posteriore e sottolineando i rilievi incidendo negli avvallamenti da quella superiore, un effetto di grafia rilevata, se si potesse dire, ma non di rilievo; con la differenza che il materiale differente e le maggiori dimensioni hanno accentuato la noncuranza per le proporzioni e l’effetto quasi grottesco ottenuto dall’eccessiva semplificazione dei tratti fisionomici dei volti. In comune con l’oreficeria c’é, in più, una ricerca di strutture anche di notevole complessità ed uno spiccato amore per il segno. I loro intrecci e rapporti indicano chiaramente che in questa direzione andava il vero interesse dell’artista e la sua ricerca creativa, indipendentemente dalle capacità espressive realmente possedute. Ancora all’inizio del IX secolo, sempre sotto l’influenza iconografica orientale, la lettura adatta a capire la fila di vergini scolpita nel tempio di Cividale68 e il contributo autonomo portato dai Germani è quella semiologica (anche se non l’unica); semiologica dovrebbe essere anche l’interpretazione dell’arte del gioiello.

È proprio nello studio dell’oreficeria che si può cercare meglio quale significato si desse all’arte e come potesse corrispondere al modo di essere dell’uomo medioevale. Avevamo affermato che sino al XII secolo le categorie di lettura e quindi di fruizione di un’opera d’arte erano le stesse dei contenuti che le opere dovevano trasmettere. Nel caso dei gioielli il contenuto era la persona stessa che l’indossava, non la sua personalità69, ma quello che socialmente era o credeva o doveva essere. Il gioiello si presenta sia come opera d’arte a sè che come “integrato” in chi lo porta ed è questo il caso che dobbiamo considerare. Forme tutt’altro che semplici, come abbiamo già detto a proposito dell’altare di Ratchis, da un punto di vista strutturale e che si accompagnano ad uno spiccato gusto per ciò che luccica e modula la luce sulle superfici, gusto, peraltro, che i popoli germanici, e i Longobardi in particolare, hanno in comune con quelli latini ed orientali. Così, indipendentemente dalla bottega di origine, i corredi delle tombe longobarde in Italia sono estremamente omogenei. Le fibulae trovate a Castel Tosino in Italia sono molto simili a quelle di Várpalota in Ungheria e dimostrano che non era esatta la posizione di quegli storici che attribuivano tutto a manifatture bizantine, a parte il fatto che, almeno in Italia, è assai probabile che le vecchie botteghe abbiano semplicemente cominciato a produrre per i nuovi padroni; per chi se no? Questo gusto raggiunge il proprio apice nell’uso delle gemme, del vasellame, degli oggetti in pasta vitrea (questi non strettamente longobardi) e nella tecnica del cloisonnèe, in cui la luce si riflette e si modula sul fondo di uno smalto trasparente o tralucido.

Guardando questi gioielli si ha la sensazione che una raffigurazione naturalistica sia l’ultima preoccupazione dell’esecutore, e non dovuta ad imperizia almeno in molti casi nei quali la finezza della lavorazione non lascia dubbi sulle sue capacità artistiche. L’individuo vede sottolineata la propria personalità da questo apparire esteriore ed esplica meglio il proprio ruolo. Il singolo assume un significato normativo verso gli altri, che porta i valori attribuiti alla propria classe sociale ed il ruolo a questa connesso ad identificarsi con il comportamento sino, spesso, alla considerazione del singolo gesto. È questa l’epoca in cui i Germani introducono nuovi sistemi comportamentali e nuovi gesti significanti70; un’arte del gioiello che evidenzi tutto ciò fisicamente sulla persona con la propria stessa forte apparenza ci indica che ancora le categorie di lettura di un’opera d’arte sono il contenuto stesso dell’opera. Se invece si vuole parlare di gusto notiamo solo che questi “barbari” saranno pure stati ruvidi di costumi e semplici nei sentimenti, ma certo la raffinatezza dei gioielli che facevano (o comperavano, che fa lo stesso) semplice non era davvero.

Musica, Mosaico, Gioiello: nell’arte ci si immerge o si porta addosso, ma sempre si vive!

Forse, se si deve parlare di regresso delle arti, bisogna spostare i termini temporali a dopo l’Impero Carolingio, nel IX e nel X secolo, perché i rapporti con quello che resta dell’Impero Romano e con Bisanzio in quest’epoca sono ancora troppo forti perché la vita non ne sia influenzata; prova ne sia il rapido assimilarsi delle popolazioni germaniche a quelle (ex)latine. Quegli aspetti della ritrattistica ufficiale del Basso Impero che tendevano a rappresentare non tanto la persona quanto il potere in sè, si fondono ora con la concezione personalistica dei rapporti di potere del mondo germanico ed il risultato sono forme espressive in cui ancora non viene curata nè la fedeltà alla fisionomia individuale nè, tantomeno, una qualsiasi ricerca psicologica di personalità o di sentimento, anche se rimane sempre il fondato dubbio che ormai si fosse persa del tutto la capacità operativa per questo. Le abilità tecniche degli incisori delle monete bizantine dell’epoca sono uguali, da questo punto di vista, alle analoghe longobarde o franche

Comune a tutti è, come abbiamo detto, l’amore per ciò che genera luminosità, adatto a suscitare quel senso di meraviglia caratteristico di quest’epoca in cui, pur non essendo stato dimenticato il passato, tutto viene rivissuto come nuovo. I versi che gli autori del Mosaico Absidale di S. Agnese fuori le mura a Roma71 misero sotto la loro opera ci sembrano altamente significanti di questo gusto particolare:

 

« aurea concisis surgit pictura metallis*

et complexa simul clauditur ipsa dies

fontibus e niveis credas aurora subire

correptas nubes roribus arva rigans

vel qualem inter sidera lucem proferet irim

purpureusque pavo ipse colore nitens. »72

 

Una vera e propria critica che esalta un ”effetto” artistico, proprio del linguaggio dell’opera in se, effettuata a sua volta servendosi di un mezzo dell’arte, la poesia. Fondamentalmente si tratta sempre dello stessa concezione dell’arte dei secoli precedenti, in cui la luce diviene il principale mezzo di trasmissione utilizzato. Per quanto riguarda l’oreficeria vale ciò che abbiamo appena notato sulla personalizzazione dei rapporti umani e se l’opera non è da indossare personalmente è comunque da fruire, anche perché committenza e fruitori, in fondo, coincidono.

Più difficile è trasferire lo stesso discorso in pittura che pure, per la maggiiore economicità, è relativamente più diffusa e l’unica forma di decorazione parietale fuori dalle zone di diretta influenza bizantina in Italia. Quello che rimane di alcuni di questi cicli di affreschi conferma quello che affermavamo sopra: le vecchie botteghe presero a lavorare per i nuovi padroni senza escludere che questi, tutt’altro che insensibili all’arte, chiamassero artisti dall’oriente. Questa seconda ipotesi sembrerebbe applicabile al ciclo di S. Maria Foris Portas a Castelseprio e, anche se mancano dati di alcun genere per una datazione sicura, si può anche supporre, con un certo credito, che sia contemporaneo alla nascita della chiesa stessa e del vicino castello longobardo. Si tratta sempre di un unicum e, proprio per questo, sono nate tante difficoltà cronologiche. Negli altri casi di pittura parietale il processo di astrazione, che nei mosaici era arrivato ai suoi risultati estremi in S. Agnese fuori le mura, sembra trasformarsi piuttosto in una fortissima semplificazione, alla quale manca anche la luce e la brillantezza della materia.

È quando si introduce, lentamente, una vena popolare concettualmente più semplice ma più sincera che si recupera un poco di poesia, di un qualcosa che esprima un sincero e spesso commosso sentimento religioso. Lo stile stesso dell’opera d’arte, non più legata a modelli ideali come nell’antichità greca, porta in se le idee da esprimere. Ad esempio la rappresentazione di un corpo umano non deve più corrispondere ad alcun canone per essere significante sul piano dello spirito, è lo stile stesso in cui questo corpo viene riprodotto ad essere significante; e non simbolicamente, visto che si tratta di portati che vengono dal popolo73 e dall’esigenza ormai comune di avere forme rappresentative non solo suggestive ma, in un certo senso, vivibili almeno sul piano del sentimento che, non si dimentichi, è recepibile indipendentemente dalla preparazione culturale del fruitore.

 

 

IL FEUDALESIMO

 

La fine del mondo ellenico, che nella sua culla originaria ormai agonizzava persino nei ricordi, sotto la pressione del mondo islamico e l’influenza di questo sull’occidente provocarono anche la fine definitiva di quello che rimaneva dei grandi modelli dell’antichità. Cominciò così il vero Medioevo, quel periodo senza punti di riferimento storicizzati in cui il passato divenne un’epoca compressa nel tempo da cui prendere indifferentemente tutto quello che capitava. L’artista e, in genere, l’uomo di cultura del IX/X secolo non hanno senso storico non solo perché il trascendente, cui continuamente si fa riferimento, è astorico per propria essenza e per definizione, ma anche perché il passato ha perso di significato per sempre. Sotto certi punti di vista anche il passato dei popoli germanici finisce per divenire veramente tale e si arriva a trasferire nelle saghe e nel mito fatti e personaggi, come il re goto Teodorico, molto più recenti di quelle forme giuridiche romane delle quali, dopo il tramonto dell’impero, si continuava a parlare come di attuali e valide. La contraddizione è solo apparente, quello che sopravvive di più nella memoria è ciò che è più strutturato nel pensiero e che, perciò, il pensiero può continuare a possedere meglio.

L’impero di Carlo Magno introduce definitivamente nei confini dell’Occidente tutta la Germania e fonde per sempre i popoli tra di loro. Le nuove nazioni, ormai stabili, sono diverse dalle antiche e le caratteristiche della nuova cultura sono, nelle espressioni artistiche, sia popolari che estremamente elitarie contemporaneamente; sono i popoli che sono nuovi, con eredità antiche, certo, ma nuovi o meglio, con una nuova coscienza di se stessi. Al tempo stesso la Chiesa fa abbandonare ogni tradizione di poligamia ai Franchi, restringe il ruolo della donna a termini minimi, rinnova le proprie compromissioni col potere nel nuovo sistema feudale, separa la cultura dalle masse e forse la salva, di certo spinge la speculazione filosofica a livelli raffinatissimi sul piano logico ed a questi livelli adegua la propria concezione del mondo che viene, di conseguenza, quasi ad essere formalmente disprezzato.

Per tutto il periodo che va dalla rifondazione dell’Impero di Carlo Magno alla discesa in Italia di Federico Barbarossa apparentemente non ci sono cambiamenti particolari nel pensiero estetico, che è assai poco curato se non in contesti molto più ampi. Sono questi i tempi “grossi” di cui parla Dante nel canto XI del Purgatorio,74 tanto che, secondo il poeta, da loro non sarebbe poi emerso il ricordo di alcuna personalità particolare.

Sarebbe però ingeneroso da parte nostra credere che l’atteggiamento di trascuratezza e, insieme, di superiorità con cui i pensatori dell’Alto Medioevo ignorano gli aspetti positivi dell’esistenza sia indice di una sorta di superbia della classe intellettuale o peggio di limitatezza di vedute; essi furono la palestra nella quale il pensiero umano si esercitò e si rafforzò determinando e scoprendo le proprie possibilità e i propri limiti nel confronto diretto con l’infinito divino sino ad arrivare, un giorno, a trovare la propria libertà. In questo senso il problema degli universali, il problema, cioé, della classificazione dell’esistente, dando origine alle due scuole del realismo e del nominalismo, pone le basi della conoscenza moderna. Non è neppure esatto affermare che questo continuo movimento di pensiero non abbia interessato l’arte, perché fu proprio dai monasteri e dalle curie in cui si svolgevano le dotte dispute tra chierici che venne l’impulso alle nuove, grandi creazioni artistiche della collettività, le cattedrali e, con esse, al recupero di tutte le altre tecniche artistiche e letterarie antiche ormai dimenticate. I castelli di Carlo Magno erano semplici palizzate sorrette da terrapieni; tre secoli dopo iniziavano ad essere costruite, nel sud dell’Italia e nella Provenza, le prime cattedrali romaniche.

Che nel pensiero di uno Scoto Eriugena, di un Anselmo d’Aosta o di un Abelardo non si trovi traccia di questa (ri)evoluzione è probabilmente dovuto proprio alla necessità di creare prima un sistema logico in cui il pensiero fosse indipendente da ogni predeterminazione e che sarebbe stato poi certamente più adatto ad inquadrare l’operare artistico e l’arte. Prima di agire sulla realtà era fondamentale che si potessero avere i mezzi per poterla conoscere e intendere.

Forse il filosofo che aprì maggiormente la strada in questo senso fu proprio quello che viene generalmente considerato il più puro e il più astruso di tutti: Anselmo d’Aosta. La soluzione del problema degli universali75 graduando l’essere in Dio, in sè e nel pensiero, riporta all’intelletto umano la capacità di agire sulle cose stesse possedendole come Verbum, pensiero che contiene l’immagine e il concetto di ciò che è pensato anche se non la sua essenza.76 Osserviamo così che la cognitio rei, che è lo scopo della sua rappresentazione, contiene virtualmente sia la cosa che la sua universalità o universalità post rem. I mezzi rappresentativi sono, perciò, essenzialmente connessi alla parola ma in S. Anselmo non si trova nessuna preclusione all’uso dell’immagine, anzi! Non può essere un caso che l’esempio citato nel Proslogion per spiegare la sua “prova ontologica” dell’esistenza di Dio è quello del pittore che possiede la cosa da dipingere nell’intelletto, ma capisce che ancora non esiste e solo dopo averla dipinta sia la possiede nell’intelletto, sia capisce che esiste quello che ha fatto. Sembra quasi che l’essere dell’opera nella mente del pittore sia paragonato all’essere del creato nella mente di Dio ma non è esattamente così; solamente nella mente divina l’esistenza nel pensiero è effettuale, ante rem, mentre in quella umana la capacità creativa si deve limitare ad agire su ciò che è già stato creato e voluto dalla divinità: la Natura. Un legame indissolubile viene stabilito tra pensiero e opera d’arte, la cui perfezione è nell’essere una forma concreta e perfetta77 di questo. In questo esempio non c’è alcuna traccia di contrasto tra fede e ragione e, conseguentemente, neppure tra distinte verità, ma il sospetto che questo contrasto possa esistere è avvalorato dalla stessa cura con cui Anselmo ne sottolinea la libera coincidenza. Anche questo è un germe di pensiero che fiorirà più tardi nel secolo XV in Filosofia come in Arte.

L’esigenza di connettere l’essenza con l’esistenza delle cose e l’intuizione della libertà del volere (credo ut intelligam)78 porranno le basi per un successivo riscatto della personalità umana che si pose alla base anche di ogni sviluppo artistico. Forse è poco, ma già nella generazione seguente Abelardo scriveva il primo documento dell’Umanismo medioevale con l’Historia Calamitatum Mearum. Forme di questo Umanismo sono anche presenti in modi artistico-poetici nei pensatori platonici della scuola di Chartres, con i quali inizia quel recupero di Platone che va oltre un senso strettamente filosofico per essere indice di una rinnovata sensibilità interiore.

La produzione artistica dell’epoca, frattanto, si riscattava da uno stadio di quasi totale nullità79. La vita, malgrado l’ascetismo, proseguiva egualmente cercando nuove strade tecniche ed organizzative per... sopravvivere; per oltre il novanta per cento della popolazione (ad essere prudenti) un Vescovo era un padrone nè più nè meno che un Conte e, a leggere le cronache, non vediamo differenze di comportamento tra l’uno e l’altro nei confronti della plebe. In questa situazione si comprende che l’arte abbia due caratteri, uno popolaresco, quando ha funzione didattica, l’altro raffinato, quando è per i pochi acculturati: in linea di massima questa è la differenza tra la pittura e la miniatura. Non si trattava di una novità; le lettere ed i mezzi privilegiati per la loro diffusione, i libri, erano sempre state appannaggio di poche persone di cultura superiore. A questi era sempre stata connessa la miniatura mentre la pittura si era sempre rivolta alle masse o, meglio, anche alle masse. Semmai gli elementi di novità vanno ricercati in una differenziazione di contenuti, più che di stile, maggiore che in precedenza. Nei mosaici paleocristiani era poco curata, come abbiamo visto, la comprensione intellettuale da parte del popolo mentre ora si indugia sempre più in modi rappresentativi che abbiano, nei confronti di questo, una funzione didattica; opportunamente guidata, è ovvio. La miniatura doveva necessariamente rimanere legata ad un testo ed in questo ne vanno cercati i significati mentre nella pittura erano gli eventuali tituli a dover spiegare l’immagine che nei modi espressivi lasciava più possibilità creative all’autore. Nei secoli successivi la pittura prevarrà sempre più sulla miniatura come arte visiva per eccellenza.

Le categorie di lettura delle opere d’arte si differenziano come i contenuti perché sono nettamente differenziati i fruitori. Un processo non improvviso ma che implica una volontà interpretativa da parte dell’artista diversa secondo i casi; solo interpretativa perché i contenuti erano determinati dal committente che sempre deteneva o determinava il potere politico-religioso. Commitenza prevalentemente ecclesiatica perché, a parte una maggiore disponibilità di beni materiali, i nobili spesso differivano culturalmente assai poco dai plebei. Queste categorie perciò si identificano sì, ancora, con l’opera d’arte, ma sono le opere d’arte che si collocano su livelli concettualmente diversificati tra di loro.

Da un punto di vista stilistico e qualitativo la cosa è indifferente, tanto è vero che gli studiosi si occupano di determinare l’evoluzione dell’arte medioevale esaminando assieme miniature, tavole, affreschi. Anche i tentativi di ricostruire con precisione scuole e correnti sono in parte destinati a fallire, specie se si intendono precisare i rapporti tra officine e personalità diverse. La mobilità degli ecclesiastici, che si portavano appresso codici e pitture, e degli artisti era un riflesso dell’universalità della cultura che non si era spezzettata, nella sua accezione più elevata e dotta, come l’Impero Romano, mentre la mancanza di un preciso senso storico o, forse, la mancanza di una volontà precisa di indagine storica, portava gli artisti a tenere nota, in forma di disegni, indifferentemente di tutto ciò che ritenevano interessante nei loro bestiaria, veri e propri taccuini di appunti visivi e di interpretazioni simboliche delle immagini. In questi un capitello del V secolo a.C. poteva essere nella stessa pagina accanto ad un elemento decorativo carolingio senza alcun problema ed entrambi potevano essere riutilizzati, all’occorrenza, assieme e questo solo perché un copista poteva aver fatto sosta, in uno stesso viaggio, nell’osteria ricavata dentro gli ambienti di una villa romana semidistrutta magari con una bella cappella nuova nel cortile. L’esempio non è del tutto peregrino, non dimentichiamo che in quest’Europa semispopolata la maggior parte degli edifici antichi di qualche mole era ancora in piedi e lo sarebbe rimasta ancora per secoli.

Perciò anche le ricerche più serie possono basarsi quasi esclusivamente su indagini di tipo stilistico che confermano come di evoluzione dell’espressione artistica non si possa propriamente parlare. Si spiegano così anche i ritorni di formule del passato ed il riemergere di espressioni popolaresche che sembravano affondare in un passato remoto. Modi e forme etrusche riaffiorano in molte sculture dell’Italia Centrale e le radici celtiche divengono evidenti nella Francia; il tutto, in entrambi i casi, sostenuto da quella capacità di operare nel fantastico che è forse la spinta creativa più originale di quest’epoca. Le rigide regole del pensiero logico non intaccano la tensione dell’animo umano ad espandersi e se questa espansione non è nell’ideale, che per il popolo è molto materialistico, lo è almeno nel sentimento, anche se si tratta di un sentimento vissuto molto fisicamente.

È la mancanza apparente di nuove necessità espressive che ci ha fatto affermare, poc’anzi, che l’arte fosse giunta ad uno stadio di quasi totale nullità. Non è l’arte che manca, nè gli artisti e forse neppure i committenti, ma i fruitori; il fatto è che la stragrande maggioranza della popolazione non ne sente il bisogno dati i livelli culturali (ma anche materiali) bassissimi in cui si vive. Spesso il rapporto con le immagini non ne riguarda i significati di progetto ma quella sorta di costruzione tra il magico e l’immaginario che la fantasia popolare può costruirci sopra. Anche se si tratta di contenuti non voluti dall’autore e dal committente sono sempre dei contenuti per chi li considera tali, con relative categorie di lettura e sistemi di comunicazione.

Buona parte delle leggende popolari sui santi nasce da interpretazioni spontanee dell’immagine; se riguardo all’Alto Medioevo queste affermazioni sono difficilmente verificabili facciamo notare che questi meccanismi sono stati ben studiati per le epoche successive80. Del resto, se tornano alla luce antichi substrati popolari anche preromani è logico che con questi tornino i sistemi di comunicazione che loro pertinevano e che anche immagini nate per altri scopi e in altri sistemi ne subiscano una sorta di reinterpretazione popolaresca. Ciò può essere confermato dalla distinzione che si faceva tra un’arte popolare ed una dotta, anche se allo stadio attuale delle conoscenze deve essere considerata solo come un’ipotesi.

Oltretutto mancavano le risorse economiche e la circolazione monetaria, indispensabile per pagare artisti e materiali, tra il IX e l’XI secolo era ridottissima. Eppure da quello che sembrava essere l’unico stato rimasto (in senso moderno), Bisanzio, l’abate Desiderio chiamava a Montecassino artisti non solo perché ne decorassero la scomparsa basilica ma anche perché istruissero le maestranze locali. Non sappiamo quanto, a S. Angelo in Formis, sia dovuto ai maestri greci o a quelli locali, ma la piccola chiesa ancora può testimoniare quest’iniziativa. Per valutare questo fatto correttamente si deve tenere conto, però, che allora Montecassino era il monastero più ricco dell’Occidente, un centro di potere religioso ed economico superato da pochi non solo in Italia ma in tutta Europa; altrove era il silenzio, dell’arte naturalmente. Comunque il sub-strato tardo romano che piano piano tendeva a riemergere, spesso in contrasto con i portati di Bisanzio, vivacizzò un poco l’ambiente culturale portando a risultati interessanti per forza espressiva, come nella Cripta del Duomo di Anagni, in cui l’attenzione agli sguardi, e quindi all’espressività dei volti, del Maestro delle Traslazioni non è solo formale ma tende già ad esprimere dei sentimenti. La lenta evoluzione che ne segue porterà alle prime sostanziali conquiste del XII e del XIII secolo.

 

 

IL ROMANICO

 

Quello che importa notare è che mai il ricordo delle antiche tecniche venne meno per tutto l’Alto Medioevo, semmai maggiore rilievo dovrebbe essere dato al fattore economico. L’impero carolingio aveva fornito un primo modello sostitutivo a quello romano ma un assetto definitivo dei popoli dell’Europa poté essere raggiunto solo dopo la sconfitta degli Ungari da parte di Ottone I nel 955 ad Ausburg e la successiva politica di suo figlio, volta a cacciare i Bizantini dall’Italia Meridionale.

Così quasi tutta l’Europa Occidentale già compresa entro i confini dell’Impero Romano d’Occidente e dell’ adiacente  Germania acquisiva una sua relativa stabilità politica. Per inciso le incursioni degli Ungheri avevano talmente terrorizzato i popoli tedeschi ed italiani che Ottone fu visto da molti quasi come un salvatore, il liberatore da un incubo che, certo, fu molto più reale delle paure di fine del mondo nell’anno 1000 che troppo sono state ingigantite da una facile storiografia romantica. Sta di fatto che mentre Ottone III legava meglio al resto d’Europa l’Italia Meridionale, che già a suo tempo era rimasta fuori dalle conquiste di Carlo Magno, nei centri più popolosi riprendeva una certa attività edilizia e i primi accenni di quella che sarà l’architettura romanica, il cui stesso nome indica lo stile di impostazione.

Tentiamo subito una prima interpretazione della più grande forma espressiva di questa nuova maniera: la cattedrale. Nella Basilica paleocristiana il fedele era immerso nello spazio-luce di origine divina espresso dai mosaici e ne viveva la suggestione identificandosi con l’opera d’arte stessa, nella cattedrale romanica è l’ambiente che si riempie della vita del popolo, adattandosi ai suoi sentimenti ed alle sue necessità. I termini si invertono, non è l’opera d’arte che vive nel fruitore ma è il fruitore ad animare l’opera d’arte. Non un fruitore inteso come singolo individuo, perché l’architettura romanica è l’espressione forte e sicura di una volontà che supera l’individualismo, sviluppando quei temi popolareschi che sono già stati notati in particolare ripresa sin dal VII secolo: e se questo sembra prematuro noteremo solo che gli imperi muoiono, i popoli no.

Vero è che questi popoli erano cambiati, ma un substrato di continuità si era mantenuto nelle nuove nazioni e per il popolo di queste nasce la nuova architettura anzi, soprattutto per quella parte della popolazione che si sentiva popolo, gli abitanti delle città. Volendo rimanere nel tema proposto all’inizio dobbiamo cercare se, in una cattedrale romanica, significati espressi e categorie di lettura coincidessero nei fruitori, ma la risposta viene da se: i significati espressi sono la vita stessa del popolo che vi si svolge e le categorie di lettura sono nella corrispondenza a questa vita per la quale la cattedrale è fatta. L’arte riflette molto le idee sulla vita, ma non è queste idee in tutto: chi si identificherebbe con i mostri di un capitello romanico? Le paure (o le gioie) collettive cominciano ad essere rappresentate sull’opera d’arte ma non ci si identificano nè si identificano con il fruitore: ambiente e circostanze di vita, rappresentate nell’architettura, non coincidono con l’uomo che comincia a porsi verso di esse in posizione critica, meditando tra se e se come regolarle.

Se l’arte aveva una funzione didascalica, specie per quanto riguarda la pittura, è naturale che gli artisti cerchino di attirare l’attenzione e la fantasia facendo leva sulla naturale emotività delle persone più semplici. Il “vivere dentro” l’arte della basilica bizantina, dove si è immersi nella luce del mosaico, diventa un vivere dell’arte dentro il fruitore, con un ribaltamento deciso delle posizioni. Non si può più ignorare chi guarda e ciò che si dipinge deve, in qualche modo, essere compreso e dove il popolo conta di più l’arte è maggiormente con il popolo. Ci sembra giusta la posizione di chi, nello studio di quest’epoca, cerca di individuare quello che anticiperà i secoli futuri o, per contro, quello che continua ancora la linea produttiva dell’antichità; è proprio in questa ambiguità che risiede l’originalità creativa dell’epoca.

Le duplici possibilità di fruizione dell’opera d’arte non sono certo volute dagli artisti ma implicano una separazione di fatto tra categorie “ufficiali” di lettura, proprie della committenza, e quelle popolari; a questa separazione corrispondono anche portati stilistici diversi, e anche questo ci sembra logico. Le categorie di lettura dell’opera d’arte divengono, in un certo senso, modernissime e quasi romantiche, cercando più che interpretazioni logiche da parte del fruitore una sua compartecipazione intuitiva; naturalmente quando le capacità espressive dell’artista gli permettevano di andare oltre gli intenti puramente espositivi e narrativi richiesti dal committente, il che accadeva molto di rado.

Un esempio della diversa qualità della committenza si può trovare in S. Sofia a Benevento81 e nel chiostro del vicino convento. Il complesso esemplifica il passaggio dalla vecchia architettura alla nuova dopo la la stasi che ebbe nel X secolo il suo punto culminante.82 La chiesa fu fatta edificare dal duca longobardo Arechi II nel 762 ed il chiostro risale alla prima metà del XII secolo. Non vi sono mosaici nella costruzione fatta erigere da questo potente feudatario che si permetteva di resistere sia ai re d’Italia (e poi allo stesso impero carolingio) che agli imperatori di Bisanzio, eppure la complessità della pianta, quasi unica, formata da una stella con all’interno un deambulatorio doppio, decagonale nel colonnato intermedio ed esagonale in quello interno, esprime nella propria stessa forma l’esatta idea della complessità teologica che vuole esprimere, della quale, per altro, non siamo a conoscenza di alcuna esatta interpretazione. Le arcate che si compongono nella volta sono le più complesse ed originali possibili; il tutto, di difficilissima interpretazione, sfiora, per noi moderni, quasi la bizzarria.

Una simile architettura è lontana da qualsiasi concetto di regola spaziale tanto che riteniamo che, allora come oggi, l’effetto sul fruitore non sarebbe cambiato anche se il tutto fosse stato solo il frutto della fantasia... di chi? Del duca? Del mastro muratore? Di tutta una corporazione? Ma in ogni caso sempre determinato dalla volontà di Arechi che assieme alla chiesa aveva fondato il monastero di cui fu prima badessa la sorella Garisperga, fatto che conferma la volontà di controllo del potere politico sulla religione; il problema, come si sa, continuò a porsi per molti secoli.

Ben diverso il chiostro col ritmo regolare e modulato, quasi musicale, delle quadrifore perfettamente proporzionate sulle quali ancora si intravede l’originale decorazione arabeggiante ben accostata alle sculture dei pulvini, forse lombardi, che rappresentano i mesi dell’anno.

L’armonia musicale era la forma proporzionale matematica che più ispirò l’architettura medioevale, che non poteva utilizzare il calcolo algebrico. Le proporzioni in altri casi erano derivate anche dalla geometria e dall’astronomia. Si noterà che quelle che abbiamo appena nominato sono le arti del Quadrivio (la Matematica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia) inerenti tutte alle proporzioni dell’architettura, mentre quelle del Trivio (la Grammatica, la Retorica e la Dialettica) si riferivano ai contenuti espressi o inerenti dalle architetture o meglio, alla capacità di gestire questi contenuti. La stessa classificazione della scienza tardo-antica e medioevale corrisponde alla distinzione tra forma e contenuto nell’arte.

Un ambiente fatto a forma e misura della vita claustrale attiva e scandita della regola benedettina, dove una comuntà trovava l’espressione ed il significato della propria esistenza. In quest’epoca, quando fu edificato il chiostro, Benevento non era più un principato autonomo ma un piccolo territorio isolato appartenente al Papa e iniziava una secolare e operosa ma modesta vita di provincia. La contemporanea presenza di elementi decorativi arabi e lombardi (o sarebbe meglio dire longobardi?) unita alla presenza diretta dei Bizantini nell’Italia Meridionale rinforza le tesi che vogliono spostare in queste zone i primi tentativi di rinascita dell’arte di costruire grandi edifici, malgrado la mancanza di comuni liberi e di borghesie consistenti anche se bisogna ammettere che l’ambiente in cui questa si sviluppò fu essenzialmente più a Nord.

Nella stessa città e nella stessa epoca il nuovo regime ricostruiva il duomo, sempre in forma romanica, certamente più adatta alle esigenze della collettività. Degli sviluppi di questo stile è forse quasi inutile parlare se non per ricordare ancora che la divisione armonica e scandita dello spazio di una cattedrale corrisponde esattamente alla vita articolata e regolata, almeno in teoria, della comunità cittadina medioevale; ciò era tanto più valido per l’Italia Centro-settentrionale, dove le città erano di fatto libere. La struttura stessa delle cattedrali dimostra parzialmente quello che diciamo: infatti è facilmente riscontrabile che lo spazio sia fortemente articolato, sia in pianta che nei volumi e su diversi livelli. A che servirebbe se la cattedrale non fosse sede di un sistema di vita altrettanto articolato? Anche la struttura della società medioevale, stratificata in classi sociali sovrapposte (se così si può dire) corrisponde primieramente all’architettura, in modo che abbiamo uno spazio per il clero, uno per il popolo, uno per i nobili, uno per gli uomini ed uno per le donne, uno per i borghesi ed uno per i servi... . Queste chiese erano tanto funzionali che in molti casi non si è mai sentito neppure il bisogno di modificarle.

Immaginiamo di metterci in una navata laterale, magari accanto al muro esterno, cosa che in effetti possiamo ancora fare, e poniamoci la domanda: a che serve una chiesa in cui non si veda l’altare da tutti i punti e, di fatto, ci siano molte zone in cui appartarsi? La risposta non può venire che dal modo stesso in cui lo spazio è vissuto. Ovunque, come a Benevento, mano a mano che il feudalesimo si ritirava dalle città si costruivano nuove cattedrali e, in seguito, nuovi palazzi pubblici, nuovi non solo perché costruiti dalle fondamenta ma anche perché di nuova concezione, essendo nuovo l’uso che se ne doveva fare e nuovi i poteri politici che vi si installavano.

La decorazione di queste chiese comincia ad esprimere una nuova coscienza vitale, così nell’Antelami, in cui le figure sono ancora sbalzate verso l’esterno come nell’oreficeria e verticaleggianti come nella più astrattizzante arte bizantina ma più che essere piegate si piegano esse stesse per loro forza umana interiore o, ancora, nella porta bronzea della cattedrale di Benevento. In questa sono evidenti i ricordi classici antichi nei passaggi e nell’ordine compositivo, ma non mancano ardite posizioni negli atteggiamenti, come il Cristo che si volta a guardare chi lo fustiga e, soprattutto, si rileva un accentuato senso della struttura dell’immagine in quanto tale. Accenni architettonici, strumenti o oggetti, e gesti che compongono l’immagine dipendono da questa composizione piuttosto che da un ordine di carattere teologico. È il significato morale delle scene rappresentate quello che conta ma è portato da questi gesti ed atteggiamenti significanti perché “umani” e non simbolici.

Ugualmente si riscontra a Modena nei bassorilievi di Wiligelmo sulla facciata della Cattedrale o a Verona nei rilievi di Guglielmo a San Zeno o, come abbiamo già visto a Parma nelle opere di Antelami che forse fra tutti è l’artista che si spostò maggiormente. L’elenco è lunghissimo ed un intero libro si potrebbe scrivere, ad esempio, sui soli capitelli delle chiese in cui la fantasia degli artisti si liberava in misura proporzionale all’allentarsi dei vincoli iconografici.

Avevamo già notato questo, aggiungiamo che la libertà compositiva deriva dal modo di procedere e che il procedimento è lo stesso adottato dai Cosmati83 per comporre i loro pavimenti: anche se non abbiamo notizie precise è chiaro che si divideva dapprima tutta la superficie da rivestire in parti regolari e che poi, indipendentemente l’uno dall’altro, i vari lapicidi componevano i riquadri e poi li montavano in loco già preparati. I motivi erano estremamente vari e spaziavano dall’imitazione dell’antico a quella dei drappi orientali, ma forse il fattore determinante era lo sfruttare al massimo i pezzi di marmo colorato, spesso prezioso, che presi certamente da edifici antichi venivano poi affettati e tagliati fino al limite del possibile. Si tratta di una prima e precisa ricerca di struttura rappresentativa; anche questa avrà sviluppi notevoli nei secoli successivi.

Lo stesso modo di procedere è nel Chiostro di San Paolo Fuori le Mura a Roma dove, palesemente, ogni coppia di colonnine è dovuta ad un artista diverso ed è chiaro che il maestro Pietro84 che lo fece nella prima metà del XIII secolo indichi se stesso come autore perché era il coordinatore di tutte quelle maestranze e, come capo della bottega o della corporazione, firmò i contratti per tutti. Tenere presente quest’osservazione sarà di capitale importanza in seguito quando osserveremo che di molti grandi artisti non si conoscono le opere giovanili proprio perché chi assumeva il lavoro era sempre il titolare della bottega, regolarmente registrato all’arte come “magister”.

Naturalmente non c’era solo scultura nelle cattedrali romaniche, una caratteristica ereditata dagli antichi, e che mai era stata abbandonata, fu quella di esprimersi in grandi cicli di affreschi. A Roma, per motivi di prestigio, si continuò a dare la preferenza al mosaico ed il contrasto con le forme bizantineggianti o bizantine dei secoli precedenti si fa più forte e maggiormente si nota quel ritorno ad una costruzione plastica dell’immagine che riemergeva dall’antico e si sovrapponeva a quella corrente, più popolaresca, che aveva serpeggiato dal VII a X secolo per l’Europa, come unico esempio citeremo San Clemente.

In generale, più che nella struttura, è nell’umanità delle singole immagini che si trovano i tempi nuovi, in particolare nei grandi crocefissi, fatti per commuovere, per generare un sentimento in un fruitore che non vive più identificandosi col soggetto in alcun modo e nel quale, perciò, si deve “trasferire” il contenuto dell’immagine con mezzi opportuni. Per questo le categorie di lettura e di giudizio di un’opera d’arte simile non sono più tanto i contenuti stessi dell’opera quanto il mezzo usato per trasmetterli e l’effetto che si voleva produrre con essi.

La prima parte di quest’opera termina qui e d’ora in poi queste categorie avranno quasi una vita autonoma, sia rispetto al committente che rispetto al fruitore. Naturalmente in quest’epoca il fenomento è appena rilevabile ma, a nostro giudizio, c’è. Dall’esame complessivo delle varie manifestazioni in architettura, scultura e pittura il Romanico si mostra come la manifestazione di una nuova concezione dell’uomo, sempre subordinata a Dio ma unitaria ed attiva, in cui collettività ed individualità trovano il loro spazio senza negarsi a vicenda. Intanto, lentamente, la committenza cambiava e con essa l’arte che acquisiva nuovi significati adeguati a nuove funzionalità e nuovi modi dell’artista.

 

 

CONCLUSIONE ALLA PRIMA PARTE.

 

Avevamo accennato, all’inizio, alla possibilità di una storia dell’arte sviluppata studiando l’arte come mezzo di passaggio da una realtà effettuale ad una dello spirito o, comunque, transmateriale più stabile se non eterna e, quindi, immortale. In questa sarebbe la soluzione di quel problema esistenziale, del singolo come della collettività e della specie che nasce non solo dalla ricerca di un’origine ma dall’intrinseca inesorabilità della limitatezza stessa dell’esistenza; limitatezza nel tempo della vita e nello spazio in cui questa si svolge e, in genere, nella percezione del mondo fisico.

Possiamo ora accennare ad un possibile iter nello sviluppo di questo metodo di studio nel quale più che le categorie logiche assume rilevanza il sentire stesso interiore dell’individuo. Il metodo critico che ne deriva è essenzialmente formale e stilistico piuttosto che storico e iconologico come visto sinora. È il rapporto stesso diretto, fisico e psicologico, con la forma dell’arte che fa sentire il fruitore in un’altra dimensione, quella proposta dall’artista, senza bisogno di intermediari o di qualsiasi forma di meditazione, cosciente o no.

Forse è proprio questa la costante che rende arte le opere d’arte.

L’uomo greco si identifica con le opere d’arte non solo come ideale ma come possibilità concreta e vivibile che nel mito era già stata possibile e, perciò stesso, era storia, radice vera della realtà che egli viveva. I Romani si identificavano con la familia ed istituivano un rapporto con la res publica che attraverso il succedersi delle generazioni eternava valori ed ideali dei quali di volta in volta chi era vivo si sentiva il custode. Più tardi il Cristianesimo rese esplicito tutto ciò dandogli una forma concreta e trasferendo tutto in una sfera superiore, di grande portata morale, in cui l’ordine e la giustizia si ristabilivano e l’individuo poteva proiettare direttamente se stesso, quasi ignorando il rapporto con la realtà.

È chiaro che a questo punto la ricerca deve individuare quei portati stilistici e formali che permettono al fruitore di vivere l’opera o dentro l’opera d’arte o, nel caso della poesia e della musica, di farla vivere dentro di se. L’impressione è, tuttavia, che a gradi maggiori di autocoscienza e di capacità culturali ne corrisponda una minore di “vivere” istintivamente l’opera d’arte, compensata da una maggiore di penetrarne i significati più reconditi. A un certo punto del proprio percorso conoscitivo l’identificarsi con l’opera d’arte non sarà più possibile.

 

 

 

NOTE ALL’INTRODUZIONE ED ALLA PRIMA PARTE

 

10 Il discorso di Diotima su Eros, nel Convito, non fa altro che svilire progressivamente il concetto di bellezza dei corpi e dare alla ricerca della bellezza fisica un valore puramente iniziale nel processo logico che porta all’idea, bellezza pura; neppure, perciò, all’idea di bellezza ma alla bellezza dell’idea in se, nei confronti della quale si raggiunge una posizione di pura esteriorità contemplativa.

11 Si consentirà, come prima, la citazione di opere tanto famose da non richiedere che una facile evocazione da parte del lettore.

12 I Persiani ridevano vedendo la grande distanza dalla quale i Greci li assalivano, in falange compatta, coperti di armatura pesantissima. Erano convinti che si sarebbero fermati sfiniti, ma quando li ebbero addosso, impenetrabile muraglia di bronzo, si diedero alla fuga.

13 Ci riserviamo di approfondire questo discorso in altra sede, per ora ci limitiamo ad osservare che le storie d’amore sono per lo più eterosessuali e che la verginità della donna è quasi sempre preservata per il ricongiungimento finale dei due amanti.

14 G.C. Argan, Storia dell’Arte, Firenze, 1961.

15 Afrodite sarebbe più esatto, ma il termine “Venere”, utilizzato per molto tempo dopo il ritrovamento, ha una serie di significati aggiunti anche nel parlare comune e, soprattutto, ispirò molti poeti del Neoclassicismo; inoltre il sincretismo religioso che da Alessandro Magno in poi caratterizza le culture del Mediterraneo già permetterebbe una simile libertà.

16 Ci riferiamo alla copia trovata nella Villa Adriana di Tivoli.

17 Come nell’espressione letteraria la storia rappresenta fatti particolari e la poesia l’universale.

18 Anche se tecnicamente appartiene ad una fase anteriore.

19 L’attribuzione, come si sa, non è assolutamente sicura.

20 Forse è questa la forma di razzismo più difficile da combattere.

21 G. De Ruggiero, Storia della Filosofia, Bari 1946.

22 Per rimanere nella terminologia aristotelica.

23 Solo nove anni prima si erano tenuti in Roma i primi giochi di gladiatori della storia e deve far meditare questa concordanza tra arte e imbarbarimento dei costumi.

24 Si può paragonare quest’opera alla testa bronzea trovata nella Palestra di Granito e conservata ad Atene nel Museo Nazionale e si vedrà che dal punto di vista qualitativo non sono affatto l’una inferiore all’altra. La testa capitolina è caratterizzata dalla ricerca dell’artista di “esprimere” dei valori per mezzo dell’espressione del volto, in quella di Atene l’autore ha cercato direttamente un’espressione, intesa come estrinsecazione di sentimento e nient’altro. La differenza non è di poco conto: nel primo caso l’opera d’arte ha funzione più sociale e pubblica, nel secondo prevalentemente intimistica.

25 Nel 146 a.C. ; citiamo anche l’episodio del quadro di Apelle messo all’asta e per il quale il re Attalo aveva offerto una cifra favolosa e che il console Tito Quinzio Flaminio fece ririrare dalla vendita sospettando che avesse un potere magico, dato che non riusciva a capire come un pezzo di legno dipinto potesse valere tanto.

26 Che qui, evidentemente, non ha alcun significato erotico; il fatto è che un po’ di nobiltà e qualche antenato d’alto rango non guastano mai. Augusto non osò, tuttavia, rappresentarsi all’interno della cella del Pantheon.

27 L’Hasta Pura era anche la più alta decorazione militare romana.

28 M.T. Cicerone, Orator, II,8.

29 Ricordiamo quanto già detto nel capitolo precedente a proposito della nascita della grande scultura in bronzo presso i Greci.

30 Questi termini indicano: decor la dignità esteriore della forma, dignitas la dignità interiore dei concetti, venustas la capacità di essere gradevole, utilitas uno scopo convenientemente utile, magnitudo la capacità di amplificare il discorso.

31 Nel XVI e nel XVII secolo.

32 L’ordinatio è la coordinazione delle parti separate, la dispositio una giusta collocazione delle parti collegate, l’eurytmia la simmetria vera e propria, il decor la dignità esteriore, la distributio un giusto uso dello spazio.

33 Scriviamo il termine con l’iniziale minuscola poiché non ha il valore esistenziale platonico.

34 Volendo continuare il paragone tra arti figurative e oratoria è la stessa cosa che si fa quando si elencano e si predispongono le argomentazioni prima di un discorso il cui contenuto di massima deve essere già conosciuto prima di iniziare a parlare; come è difficile immaginare Cicerone presentarsi dinanzi al Senato di Roma senza neppure sapere cosa dire così bisogna fare nei riguardi di un artista che si accinga all’opera. In Platone si salta un passaggio, visto che l’artista si ispira direttamente alla natura, senza formarsi prima, interiormente, alcun modello che faccia da tramite tra questa e l’idea medesima.

35 Nella sua scuola sosteneva che bisogna interessare l’alunno piuttosto che punirlo ed indurre in lui uno spirito di emulazione (aemulatio) del maestro piuttosto che imitarlo (imitatio). Anche la competitività tra studenti era incentivata, per questo motivo sosteneva che una classe di più persone fosse meglio di un precettore individuale. Tra i suoi discepoli erano i giovani principi imperiali. Anche le rette erano adeguate!

36 “I dotti capiscono la razionalità dell’arte, gli indotti il piacere”, Marco Fabio Quintiliano, Intitutiones Oratoriae, IX,4.

37 Partendo dal principio che se nell’opera d’arte sono espressi dei significati leggibili questi dovrebbero corrispondere a loro volta al modo di esprimersi delle persone ritratte.

38 Per Romani intendiamo genericamente gli abitanti della metà occidentale dell’impero, tralasciando la città di Roma nella quale, per motivi di potere, di tradizione ed economici, il paganesimo si mantenne particolarmente a lungo.

39 Ciò non deve far mettere in secondo piano quella relativa a chi, nella società, rivestisse ruoli di particolare importanza; sta di fatto, però, che per il popolo il potere era impersonato dall’imperatore, anche se poi, in realtà, era lontano dall’essere assoluto.

40 La crocrfissione rappresentata nella Catacomba di San Valentino sulla Flaminia non deve forse essere di molto anteriore e, comunque, non è in un luogo così esposto.

41 Enneade V, 8 8.

42 E come avrebbe potuto non essere santa la sorella dell’imperatore?

43 Non era vero, ma ciò che conta è , in questi casi, ciò che appare all’individuo e non ciò che realmente è.

44 Ancora oggi si parla di paesi in via di sviluppo, perché non si dovrebbe farlo stotricamente?

45 O la luce è nata qui - o, presa prigioniera, qui regna libera.

46 Che viene comunque data per scontata.

47 È perduta l’opera De Pulchro et apto e l’estetica agostiniana può essere ricostruita solo per deduzione dalla lettura delle altre opere.

48 Esattamente come la verità della fede, garantita solo da Dio, origine della verità stessa. Questa posizione avrà grande influenza in Lutero, ma nessuno dei due grandi teologi affronterà a fondo il problema del bello.

49 L’argomento va approfondito studiando le origini dell’estetica kantiana.

50 Severino Boezio, De Institutione Musica, VIII.

51 Boezio, Op. cit. X. Chi di noi oggi penserebbe di giudicare una composizione musicale studiandone la struttura piuttosto che ascoltandola?

52 Boezio, Op. cit.a, X.

53 Citiamo in proposito Igor Strawinsky: “Il fenomeno musicale non è altro che un fenomeno di speculazione ma suppone alla base della creazione musicale una ricerca preliminare, una volontà che si muove prima nell’astratto ai fini di dar forma a una materia concreta”. Poétique Musicale, Dijon 1945.

54 Il reciproco moderarsi della ragione e del sentimento.

55 Boezio, Op. cit., III.

56 E a lui si dovrebbe unire il suocero Cassiodoro.

57 Tecnologicamente un certo progresso ci fu sempre, anche se non sempre costante e, soprattutto, senza che si avesse la nozione stessa di progresso.

58 Se non è il primo in senso cronologico certo fu il più grande per ampiezza di pensiero. Il metodo delle etimologie aiutava a classificare tutto per generi e specie come richiesto dalla logica aristotelica e permetteva una facile ricostruzione dei rapporti logici a tutti i livelli dei concetti trattati.

59 Pubblicato da A. Venturi con il significativo titolo di Trattato della Ispirazione.

60 Se prima della conquista longobarda d’Italia è forse più preciso parlare di arte tardo-imperiale anche per la metà orientale dell’impero, certamente dopo la fondazione dell’impero carolingio si può parlare di arte bizantina in senso proprio.

61 A dispetto della mole pare che il grande imperatore cantasse con timbro di voce piuttosto alto.

62 Se qualcuno si dava malato riceveva una visita del medico.

63 Ma i compositori sono sempre persone con un certo livello minimo di cultura.

64 E a fare la parte di Giuda si rischiava il linciaggio!

65 Per esempio notiamo che una raffigurazione della Vergine è fisicamente uguale a quella di una bella donna.

66 Anche in polemica con la politica iconoclasta di Bisanzio.

67 Li chiamiamo allo stesso modo in cui li chiamavano allora i Romani e come, storicamente, ci sono stati tramandati.

68 Non abbiamo usato il termine tempietto perché la capacità di costruire grandi edifici, fuori di Roma e delle aree di diretta influenza bizantina era veramente ridotta ai minimi termini.

69 Non in senso assoluto, naturalmente.

70 I Baciamano, gli schiaffi, il tirare un guanto ecc.

71 Anche se si tratta di una forma espressiva fondamentalmente bizantina. Nel mosaico la santa è rappresentata nel cielo. Sopra di lei è la sfera delle stessle fisse e sopra ancora l’Empireo. Si tratta di un’immagine quasi esatta di quello che sarà il Paradiso di Dante.

72 Una pittura d’oro sorge dai metalli tagliati ed assieme abbracciato viene chiuso lo stesso giorno. Crederesti che l’Aurora venga da sorgenti di neve e, squarciate le nubi, irrighi i campi con la rugiada o [che sia ] quale la luce che Iride sparga tra le stelle e il purpureo Pavone che rifulge dello stesso colore.”

73 Senza distinzioni di classi, prendendo il termine nella sua accezione più vasta.

74 Quello in cui si parla di Giotto e di Cimabue. Cfr. il capitolo seguente.

75 Ante rem, in re, post rem; ante rem in Dio, in re nella cosa in se, post rem nel pensiero di chi conosce.

76 Vorremmo qui anticipare una possibile evoluzione di questo modo di vedere le cose nell’impatto con la realtà che avrà Giotto, che parte probabilmente dalle immagini del ricordo, per arrivare via via sino alla realtà virtuale del barocco e all’essenza virtuale di Kant.

77 Nel senso di portata a compimento totale.

78 Libertà del volere significa anche volontà creatrice e che tale volontà sia libera. Il concetto stesso cristiano di libero arbitrio implica ciò. La libertà, aggiungiamo noi, esiste solo nel momento che si autoproclama e chi crede di essere in se libero di fatto lo è.

79 Ci si lasci essere un po’ provocatori, l’affermazione è ovviamente inesatta.

80 Come per S. Antonio da Padova nelle leggende popolari italiane.

81 Scegliamo un esempio non “lombardo” ma comunque sempre “longobardo”.

82 Nella stessa Roma non sono attestate nuove costruzioni per tutto il secolo sino a dopo il Mille.

83 C’è chi ritiene che si trattasse di più famiglie di marmorari romani in cui ricorresse spesso il nome di Cosma, forse il santo protettore, ma il collegamento corporativo doveva essere comunque abbastanza stetto.

84 Che sia o no il Pietro Vassalletto che fece anche il Chiostro di San Giovanni in Laterano.