Rocca Santo Stefano, Sambuci, Sant'Angelo Romano, San Polo dei Cavalieri, San Vito Romano, Stazzano, Torrita Tiberina, Vicovaro.

 

ROCCA SANTO STEFANO

Deviando un poco dall'antico itinerario che collegava Tivoli a Subiaco, parallelamente alla valle dell'Aniene sorge Rocca Santo Stefano. Il paese non domina la strada che attraversando Canterano porta a Subiaco, compito spettante piuttosto a Gerano ed a Cerreto, ma non ha per questo una posizione meno importante, visto che il colle su cui fu edificato o riedificato nel VII secolo si trova esattamente nel punto in cui i monti Ruffini si saldano agli Ernici. Vista la posizione è assai probabile che anche nell'antichità il sito fosse stato abitato, considerando anche che questa era una zona di confine tra quattro popolazioni: Sabini, Equi, Latini e Ernici. L'antico nome di Rocca d'Equi sembra, a tutti gli effetti, confermare questa ipotesi, visto che equi erano anche i primi abitatori del vicino paese di Ciciliano. Nel corso del Medioevo, nei lunghi periodi in cui il feudo del monastero di Subiaco fu la difesa avanzata contro Longobardi prima e re di Sicilia o Imperatori dopo, il castello fu sempre soggetto agli abati di San Benedetto. Questi vi potevano accedere liberamente solo passando per Bellegra ed Arcinazzo, dato che il possesso di Gerano fu sempre conteso loro dai vescovi di Tivoli. La lunga soggezione feudale arrivò sino al '600 ed oltre, visto che ancora nel 1630 circa il paese era dato in enfiteusi (una specie di affitto in uso dal tempo di Carlo Magno) ai Colonna.
Come sia, il paese attuale si presenta con un carattere tipicamente medioevale nel centro storico attorno al quale, specialmente lungo le strade di accesso, si trovano una serie di costruzioni più recenti; un modello di sviluppo tipico per i paesi di questa parte d'Italia in cui ha prevalso, tutto sommato, l'attaccamento agli antichi abitati ed alle loro tradizioni, il che non è poco e contribuisce notevolmente a mantenere vivi questi abitati. Se a qualcuno la cosa sembra ovvia consideri che altrove hanno prevalso gli "scali", gli abitati, cioË, costruiti vicino le stazioni ferroviarie e le parti "basse" dei paesi, sorte ai bivi con le strade statali. Naturalmente, dal punto di vista della tutela artistica ed ambientale, un simile modello presenta anche dei rischi maggiori e maggiori difficoltà nel mettere a punto regolamenti edilizi che tengano conto di ogni esigenza; nÈ un bene nÈ un male, insomma, basta essere coscienti delle scelte che si fanno.
Perfino problemi apparentemente semplici come quelli della manutenzione stradale, tanto per fare un esempio, si complicano più di quanto si desidererebbe. Salendo per gli antichi vicoli abbiamo notato due cose: la pavimentazione a samprietini ed un gran numero di scalini rifatti in cemento. I samprietini, dal XVII secolo in poi o meglio, dalla sistemazione di piazza San Pietro a Roma, sono comuni e possibili in ogni paese del Lazio e quindi, almeno nelle stradine principali, un corretto modo di pavimentazione dal punto di vista ambientale, ma hanno il non piccolo difetto di essere scivolosissimi con la pioggia e col gelo e molte persone anziane se ne sono lamentate, qualcuna è anche caduta. I gradini ricoperti in cemento non hanno questo difetto, anzi, ma sono certamente più brutti della pietra locale, specialmente quando è levigata e lucidata dagli anni e l'unica cosa che ci trattiene dal mandare un appello all'amministrazione perchÈ questa sia rimessa urgentemente in opera è il fatto che non vorremmo essere accusati di insensibilità da quei vecchi abitanti ancora tengono in vita il centro e che ci sono sembrati veramente accorati da questo problema.
Girando per il paese, ancora ben conservato e godibile, non è difficile riconoscere alcuni tratti dell'antico castello ed un paio di torri di difesa, anzi, quando si arriva alla cima del colle si trova ancora quello che fu certamente il mastio originario della fortificazione, certamente più antico del XII secolo che abbiamo trovato indicato come termine di riferimento per la costruzione; per sincerarsene basterà esaminare che la base della torre è differente ed ovviamente anteriore alla parte superiore e costruita anche, in buona parte, con materiale di risulta e mattoni romani. All'epoca di Carlo Magno o poco prima, quando si hanno i primi documenti su Rocca d'Equi, una torre in muratura era il massimo che l'ingegneria militare dell'epoca potesse permettersi.
Di fronte è la parrocchiale di Santa Maria Assunta, più bassa come ingresso ma ssai superiore per mole ed imponenza, tanto da dominare, da lontano, tutto il paese. Da sola questa chiesa vale la piccola pena di una gita. La facciata, anzitutto, è estremamente suggestiva con un bellissimo contrasto tra la pietra delle superfici piane ed il mattone delle cornici. Certamente nel 1749, quando fu ristrutturata la chiesa, era previsto non solo intonacare la pietra ma anche ricoprire di stucchi le cornici in mattone, ottenendone un perfetto esempio di tardo manierismo romano costruito su due ordini di paraste di cui quello superiore in stile ionico. Questo permanere di portati classicisti è ben comprensibile in edifici che, all'epoca, avevano il compito di conservare i valori più stabili delle comunità locali. L'incompiutezza della facciata, genera, oggi come oggi, un suo fascino particolare e la lunga presenza nel tessuto urbano in questo stato non rende ormai più lecito modificarla, ma le autorità competenti, a cominciare dalla Sopraintendenza ai Beni Architettonici, dovrebbero anche tenere presente che la mancanza di intonaci e stucchi ha ormai indebolito le murature rimaste per duecento anni senza protezione.
A sinistra della facciata si trovano l'antica porta di ingresso al castello e al suo piccolo borgo e la casa parrocchiale che, nella facciata, mostra ancora i segni di essere stata, prededentemente quella della chiesa, una volta, evidentemente, appoggiata alle mura e più piccola, certamente nulla di più che la cappella del castello. Forse non è un caso che, finito il feudalesimo, la nuova parrocchiale, chiesa di tutti e non del solo feudatario, laico od ecclesiastico che fosse, si alzata più del castello stesso.
All'interno si trovano alcuni bellissimi quadri che riflettono, in stili differenti, lo stesso gusto tra il barocco ed il manierismo della facciata; la pala dell'altar maggiore è opera di un artista nordico. Ma tra tutti è da notare la rappresentazione del martirio di Santa Barbara di scuola umbra del tardo Quattrocento o, al massimo, dei primi del Cinquecento, tela a tempera grassa di qualità veramente elevata.
La chiesa e la musica.
All'interno della Chiesa di Santa Maria Assunta sono delle decorazioni dell'organo ottocentesco assai belle. Proprio da queste è possibile dare una datazione abbastanza precisa a dopo il 1860; infatti poco prima di questa epoca la forma di molti strumenti, specialmente a fiato, legni ed ottoni, cambiò radicalmente per assecondare le nuove necessità della musica sinfonica e romantica. Le meccaniche dei corni degli oboi, dei clarinetti e delle trombe si complicarono sempre più per permettere all'esecutore di premere meglio più tasti o di otturare più buchi contemporaneamente; per uno strumento popolare come la fisarmonica ci vollero anni di studio di un matematico tedesco per giungere ad una soluzione soddisfacente. Questo, naturalmente oltre i dati che vengono dalle mode musicali delle vrie epoche.
Lo strumento è attualmente in stato di grave abbandono, molte canne sono state portate negli scantinati e molte mancano del tutto tanto più grave in quanto i Servi del Cuore Immacolato di Maria, che attualmente curano la Chiesa, stanno promuovendo una serie di iniziative musicali di alto livello che, si spera, potrebbero portare presto a risultati concreti, unici, se la cosa va in porto, non solo nella zona ma in tutto il Lazio, visto che solo a Roma si possono trovare, ad esempio, complessi stabili di musica da camera come si progettano qui; comprendiamo, tuttavia, che servirebbe una cifra ben superire ai cento milioni per un restauro decente...e a questo punto non ci resta che fare i nostri auguri all'Associazione Musicale San Sebastiano.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

SAMBUCI
Per motivi ignoti alcune località sono praticamente ignorate nelle guide turistiche ma certamente una buona parte della colpa spetta ai redattori che si limitano a copiare o ad aggiornare le edizioni precedenti senza verificare se qualcosa debba essere sostanzialmente cambiata. Sambuci rientra tra i paesi così ingiustamente trattati e costituisce una sorpresa per i visitatori che decidano di fare una piccola deviazione dal loro itinerario.
I documenti più antichi risalgono al IX secolo, quando i papi, ormai di fatto riconosciuti signori del Lazio da Carlo Magno e dai suoi successori, cominciarono ad attribuire alle varie abbazie benedettine il compito di ripopolare e proteggere il territorio attorno all'Urbe; in questo caso, ovviamente, si tratta di Subiaco. Sambuci era il primo casale fortificato lungo la valle trasversale all'Aniene del torrente Fiumicino e, all'epoca, dovette avere una certa importanza nella lotta contro i saraceni che tentavano di installare delle basi fortificate alle spalle di Roma e di Tivoli.Nel XIII secolo il feudo passà ai Conti di Antiochia e successivamente, dal '600, agli Astalli per finire, nell'800, ai Theodoli.
Arrivando al paese la prima costruzione che si presenta, in periferia, è il bel convento seicentesco con l'annessa chiesa di Santa Maria delle Grazie. Adiacente al convento si trova il cimitero; a fini urbanistici sarebbe interessante sapere se si trovasse già lì prima delle famose leggi napoleoniche, visto che ai conventi un camposanto era facilmente annesso e che, in questo caso, si trova già fuori dell'abitato. L'ingresso al paese sembra abbastanza anonimo visto dall'esterno ed è consigliabile continuare a salire ancora per pochi metri, seguendo le indicazioni per il castello, per trovarsi di fronte ad un secondo arco, una bella fontana con le caratteristiche d'uso dell'abbeveratoio conferma che questo era il luogo dove ci si fermava ed eventualmente si lasciavano i cavalli quando la porta era chiusa, in genere per fini fiscali, non difensivi.
Una bella strada, regolare, diritta e pianeggiante porta alla piazza principale, sovrastata con un bellissimo effetto scenografico dal castello. Lungo la strada è allineata la facciata della chiesa del Crocifisso il cui interno, però è più piccolo di quanto ci si potrebbe aspettare ma non per questo privo di decoro, anzi. Alla piazza si puà accedere anche, come è già stato accennato, da un'altra porta, forse più antica, almeno a giudicare dalle murature; in questo caso la strada di accesso già nominata costituisce una vera e propria sorpresa per chi arriva. Dalla parte del castello inizia la strada che porta al vecchio borgo, due torri cilindriche indicano quali fossero i limiti della cinta difensiva e la parte più antica della piazza, mentre dalla parte di questo una seconda fontana, costruita con un certo gusto scenografico, forniva l'acqua potabile al paese. La piazza nella sua attuale forma, la bella strada di accesso, le fontane mostrano di essere frutto di un preciso piano urbanistico di espansione che un certo amore per la scenografia fa facilmente collocare nel XVII secolo.
Uno studio effettuato per conto del comune un paio di anni fa dall'architetto G. Rinaldi non solo conferma queste impressioni ma ne fornisce anche l'origine e l'occasione. Nel 1654, infatti, il Cardinal Camillo Astalli, segretario di papa Innocenzo X e, conseguentemente, uno dei personaggi più potenti di Roma, fu praticamente esiliato in questo suo feudo dopo aver perso il favore del pontefice. A Camillo Astalli, appunto si devono la maggior parte dei lavori di sistemazione sia del paese che del castello. Per salire a quest'ultimo si imbocca una strada che parte dal fondo della piazza, non sensa aver prima dato uno sguardo ad una graziosa e ben tenuta immagine settecentesca della Vergine. Dopo pochi metri un arco goticheggiante affiancato da una torre ora "civilizzata" ed un breve tratto di strada coperta immettono nel borgo medioevale vero e proprio. A sinistra entrando, nel tratto coperto, una seconda immagine della Vergine dipinta o ridipinta, come dice un'iscrizione, nella stessa epoca della prima. La voce popolare racconta che sino a non troppo tempo fa le elemosine che venivano lasciate nell'apposita fessura andassero a finire direttamente nell'abitazione retrostante... Probabilmente questa doveva essere di proprietà ecclesiastica e quando fu ceduta nessuno pensà anche a rilevare la cassetta delle elemosine.
Il borgo presenta le caratteristiche tipiche degli abitati sorti attorno ai castelli, vicoli stretti e case addossate l'una all'altra, i limiti alle costruzioni erano dati principalmente da due fattori: non avere un'altezza tale da pregiudicare le armi da getto del castello e non uscire da quella parte del pendio che, essendo più difendibile, era stata chiusa con delle mura. Lo spazio, come si puà immaginare, era conseguentemente assai poco; a ciò si aggiunga, poi, la difficoltà di riscaldare, per poveri, ambienti troppo grandi costruiti per lo più quasi sempre in pietra. Arrivati nella piazza della Corte il castello mantiene tutta la sua imponenza ed è un vero peccato che il suo stato di conservazione sia tale che non possa essere aperto al pubblico. Il degrado è tutto di questi ultimi anni, nel periodo in cui la proprietà fu della Società Immobiliare che, evidentemente, non spese mai una lira di manutenzione malgrado ne fosse obbligata dalla legge, trattandosi, tra l'altro di un bene artistico; è vero che simili proprietà non rendono, ma nessuna legge obbliga il privato a possedere cose che poi non può mantenere. Attualmente l'edificio è in mano al Comune che ha elaborato un piano di recupero, secondo ad un concorso regionale, che vincola l'uso a fini culturali ed artistici. Il vero problema, purtroppo, in questo caso, è la spesa, che deve essere enorme, specialmente se si pensa che è in corso di restauro anche il convento di Santa Maria delle Grazie già citato.
Questo castello ha delle sale affrescate una delle quali è attribuita a Mario Nuzzi (1603-1673), meglio conosciuto come Mario de' Fiori. L'importanza di questo pittore, in questi ultimi anni, è andata sempre crescendo ed attualmente, dopo gli studi di Zeri, è considerato uno dei maestri europei più importanti della pittura di genere; pare, tra l'altro, che fosse uno dei pittori più pagati della Roma di allora, fatto che ci da un'idea della larghezza con cui il Card. Astalli spendeva per il paese.
In ultimo abbiamo lasciato di parlare del parco del castello, una vera e propria sorpresa anche per chi, anni fa aveva già visitato il paese, visto che è aperto solamente dal 1991. Dall'ingresso, sulla piazza della Corte, si entra in un bel giardino all'italiana, con percorsi e viali delimitati da siepi regolari che formano disegni geometrici ben precisi. Sul fondo una magnifica fontana con tanto di papere per la gioia dei bambini. Subito a destra dell'ingresso una torre medioevale rotonda ci ricorda che siamo fuori dell'antica cinta fortificata; la magnificenza non puà essere paragonata a quella di certe ville tiburtine, ma la raffinatezza si. Anche in questo caso una visita di persona varrà più di tutte le parole.
UNA SCRITTA CURIOSA
Sulla piazza Roma si trova un elegante portale antico, abbastanza raffinato da poter essere attribuito ad un palazzo (che sia stato preso dal castello?), su di questo, superiormente, una scritta latina a carattere moraleggiante, come spesso avveniva nel XVI e nel XVII secolo: NE PETAS TURPIA ROGATUS NEC FACIAS. Probabilmente è una frase ripresa da qualche autore antico e potrebbe essere liberamente tradotta: Non devi cercare cose sconvenienti anche se ne sei richiesto e tantomeno devi farle.
Perchèuna simile ammonizione, così grave, che sembra avere per destinatario chi si occupi della cosa pubblica e per di più in un paese così piccolo, dove sarebbe stata più adeguata qualche frase a carattere agreste e bucolico non è dato sapere. L'unica ipotesi possibile è metterla in rapporto con le misteriose ragioni che misero in disgrazia il Cardinal Camillo Astalli forse, appunto, sollecitato dal papa a fare qualcosa che riteneva sconveniente. Comunque ci sembra che sia una massima ancora ben valida per tutti quei politici che giustificano le proprie azioni rifacendosi sempre a pressioni di altri o delle circostanze e, in genere, non le specificano mai.
CAMILLO ASTALLI
Un cardinale per tutte le stagioni

In un precedente articolo, parlando di Sambuci, avevamo citato un'iscrizione latina ben visibile su di un portale della piazza principale: NE PETAS TURPIA ROGATUS NEC FACIAS.
Tradotta in italiano significa: non desiderare cose indegne e anche se ne sei richiesto non farle; avevamo riconnesso questa iscrizione alla vicenda che spinse il cardinal Camillo Astalli ad esiliarsi in questo paese che, dalla presenza dell'illustre feudatario, fu abbellito di un castello e di un parco davvero degni di nota, chiamando anche artisti di fama come Mario de' Fiori.
Abbiamo trovato la storia di questo esilio in una pubblicazione che, per essere stata pubblicata durante l'ultima guerra, nel 1942, è passata inosservata nelle principali bibliografie: G. Brigante Colonna, Olimpia Pamphili, "Cardinal Padrone", Roma 1942.
Il papa di allora era Innocenzo X Pamphili che, come dicono le cronache era quasi totalmente soggetto alla volontà della cognata Olimpia Maidalchini vedova Pamphili.
Il fatto suscitava commenti assai salaci nell'opinione pubblica e ilarità tra i protestanti; forse per cercare di liberarsi da quest'influsso o forse per mettere fine all'usanza dei papi precedenti di nominare un proprio nipote cardinale che governasse di fatto lo stato, Innocenzo X inventò la figura del Segretario di Stato che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere il vero capo del governo dello stato pontificio, come di fatto, tuttora avviene.
La figura del Cardinal Nepote o, come lo chiamava il popolo, Cardinal Padrone, era tanto radicata che veniva ormai considerata lecita e normale dai più, un po' come le amanti dei re di Francia, che gestivano gli affari di stato senza compromettere né la corona né il governo, visto che non avevano cariche ufficiali.
Lo scopo vero della figura del Cardinal Padrone, però, non era solamente quella di gestire ufficiosamente gli affari di stato della Santità Zio ma anche quella di arricchire la famiglia, visto che i papi davano loro rendite donativi e la possibilità di intascare i proventi della vendita delle cariche ecclesiastiche; anche le raccomandazioni erano fonte, e non piccola, di denaro.
Veniamo ai fatti, il figlio di donna Olimpia rinunciò ad essere cardinale per sposare la bellissima principessa di Rossano e il Segretario di Stato, monsignor Panciroli,nel tentativo di estromettere l'eccellentissima cognata (titolo ufficiale!) convinse il papa a nominare cardinale, appunto, un suo parente acquisito, Mons. Camillo Astalli, questi si era già fatto notare perché era stato preposto alle modernissime, per allora, carceri di Via Giulia dove per la prima volta al mondo i detenuti non erano ammassati come bestie ma alloggiati in celle non sotterranee e perfino nutriti decentemente per permetterne la redenzione, gli irriducibili erano invece mandati alle galere.
Donna Olimpia, già invisa al popolo perché speculava sul prezzo del grano per ingordigia (eppure a lei dobbiamo piazza Navona, Villa Pamphili, forse la più bella villa d'Europa se non fosse stata devastata, e le maggiori opere di Bernini e di Borromini) dovette rifugiarsi nel paese da lei ricostruito di San Martino al Cimino, che aveva fatto popolare facendosi "regalare" dal papa 50 galeotti ed altrettante prostitute di bordello, portandosi appresso, per prudenza anche il boia.
Le cose però dovettero presto cambiare, la nipote di donna Olimpia e del Papa si sposò, dodicenne, con il figlio del principe Barberini e dalla rappacificazione nacque anche una grassa complicazione internazionale; infatti i Pamphili erano a capo del partito filospagnolo e Innocenzo X doveva a questo il suo pontificato, mentre i Barberini erano a capo del partito filofrancese ed in amicizia stretta col Card.. Richelieu il reale padrone della Francia.
Fatta la pace il papa, donna Olimpia ed il principe Barberini pensarono bene di arricchirsi ancora di più e pensarono di impadronirsi, con un colpo di mano, del regno di Napoli.
Teoricamente i re di Napoli, che allora erano anche i re di Spagna, erano sudditi del papa e già durante la famosa rivolta di Masaniello Innocenzo X aveva pensato di rientrare in possesso del regno, ma ora si profilava l'occasione di farlo servendosi delle truppe dei Barberini (15.000 uomini!), oltre che di quelle del papa che gli spagnoli ovviamente credevano amici.
Camillo Astalli, che non intendeva tradire i suoi amici, informato in qualche modo della congiura e della progettata invasione avvertì l'ambasciatore spagnolo e mandò tutto all'aria.
Fu processato per alto tradimento e si cercò di provarlo adducendo come prova il fatto che aveva fatto costruire una scala segreta dallo studio alle scuderie, come se avesse voluto fuggire, ma la cosa fu lasciata cadere quando il muratore ed i servi testimoniarono che se ne serviva per andare a trovare le belle signore (era molto fascinoso e galante) il che, anche per un cardinale, non era certo un reato e poi anche perché, in fondo, era pur sempre un nipote del papa e chi aveva tentato di tradire gli alleati non era stato certo lui.
Di qui l'esilio a Sambuci con un unico gentiluomo fedele, certo Giuseppe Rocchi, mentre tutti lo abbandonavano, e a Sambuci seppe dimostrare ancora di essere uno pensava al bene ed al decoro altrui abbellendo il paese più di ogni altro della zona, come già a Roma era stato l'inventore del moderno sistema cellulare nelle carceri, e pare che altri progressi, in questo campo, non se ne siano più fatti.
Camillo Astalli non volle piegarsi a chiedere perdono e rientrò solo per il conclave dopo la morte di Innocenzo X; il nuovo papa, Alessandro VII, dei principi Chigi, era stato l'ultimo segretario di stato di Innocenzo X, era realmente un sant'uomo ed un prete per vocazione ed era stato eletto per mettere fine alle divisioni tra filofrancesi e filospagnoli ed al nepotismo; Camillo Astalli fu reintegrato nella carica e negli onori ma fu anche l'ultimo Cardinal Nepote mentre donna Olimpia, la creatrice della Roma Barocca, finiva i suoi giorni definitivamente a San Martino al Cimino, dove si narra che ancora il suo fantasma si aggiri nel castello.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

S. ANGELO ROMANO

Guardando le carte geografiche si deve senz'altro concluderà che iÏ paese di Sant'Angelo Romano non abbia· giustizia, il colle si cui sorge non sembra· essere particolarmente alto ed è apparentemente circondato da· altri monti anche più alti non si ha· idea· di quanto sia· bella· la· posizione deÏ paese appena· si sia arrivati ci si trova· al Belvedere Nardi e se non si è un visitatore frettoloso, si rischia di rimanere fermi lì a godersi il panorama che si estende sino all'Urbe. La "sicurezza" con cui S. Angelo domina la pianura basta da sola a spiegare perchèil luogo fosse stato fortificato, senza bisogno di studiare le vie di comunicazione tra Roma e l'Abruzzo che passano là sotto, lontane. Salendo, i saliscendi e le curve della strada sembravano assai più importanti, ma dall'alto il paesaggio è solo un po' movimentato.
A lato del Belvedere si trova un antico convento francescano del Settecento, oggi sede del Comune, in restauro; dopo l'unità d'Italia è stato assai frequente l'esproprio di stabili vuoti o quasi di congregazioni religiose per destinarli ad uso pubblico; allora queste iniziative furono fonte di polemiche infinite di cui oggi si è perso un poco il senso, comunque la Chiesa annessa di Santa Liberata (bello l'Altare Maggiore), anche se di proprietà comunale, è ancora adibita a luogo di culto. Di quell'epoca è anche la lapide del 1885 che ricorda il decreto con cui fu modificato il nome del paese da S. Angelo in Capoccia nell'attuale. Il vecchio nome, che sembrava forse troppo popolaresco nella forma, pare che derivasse al paese dal fatto di essere stato originariamente un feudo della famiglia romana dei Capocci; successivamente furono signori di S. Angelo gli Orsini, i Cesi e i Borghese, in una lunga serie di vicende di eredità , lasciti e rivalità tra le grandi famiglie romane, nonchèdi interventi della Camera Apostolica, cioè del Papa, cui il feudo apparteneva e al quale doveva tornare dopo la morte di ogni feudatario per la conferma degli eredi. Questa, si badi bene, non è una peculiarità di S. Angelo, ma è storia comune a tutti i paesi del Lazio. I tentativi di Roma di riacquistare il controllo del territorio intorno alla Città erano giustificati dal fatto che le grandi famiglie romane si combattevano nel Lazio con ogni mezzo e per ogni motivo, anche gli abitanti di S. Angelo furono costretti ad arruolarsi nelle truppe degli Orsini per partecipare a queste lotte. Il passaggio ai Cesi corrisponde anche alla fine di queste lotte e non è un caso che quì, come in quasi tutto il Lazio, la ripresa edilizia sia quasi sempre databile tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento. Cinquecentesco è anche l'affresco che si trova a Palazzo Cesi in Roma, oggi sede del Tribunale Militare, che mostra chiaramente il paese, le mura del borgo e, staccato, il complesso dell'attuale palazzo comunale. Anche tra le carte Borghese si trovano piante e disegni del paese, ma nessuno antico come questo dipinto.
Dal Belvedere la stada "naturale" che si deve percorrere per visitare l'abitato è la Via Nazionale, che ora restringendosi un poco, ora allargandosi, sale al Castello; la strada fa un effetto diverso da quello che si ha in altri paesi della zona e ci vuole qualche tempo per rendersi conto di quali fattori lo generino: anzitutto la larghezza e poi il notevole numero di balconi delle case. Queste due caratteristiche dimostrano che l'età media di questa parte del paese non deve essere troppo antica (si fa per dire),certamente successiva al secolo XVII e probabilmente quasi tutta tra la fine del '700 e la fine dell'800. Nel Medioevo, e fino al '500, le strade di accesso ai castelli erano strette e tortuose, per renderle meglio difendibili, e i balconi erano poco usati perchèconsiderati troppo costosi fino a chèil basso costo dei travi di ferro per l'edilizia, nel secolo scorso, non permise a tutti di poterli avere. Se si pone mente locale a qualsiasi edificio antico di balconi, in genere, ce n'è uno solo al centro. A conferma di quanto ora affermato è facile notare che non ci sono quasi mensole, indispensabili quando si costruiscono parti aggettanti di un edificio in sola muratura. Questo amore per i balconi è facilmente spiegabile con i bellissimi panorami che si possono godere dal paese; se ne trovano un po' dapertutto, ma su questa strada, quasi del tutto interna, sono indice di una vita sociale aperta e viva, che spingeva gli abitanti a partecipare e ad affacciarsi, letteralmente, sulla strada.
Arrivati in cima alla strada si può godere di un altro magnifico panorama, questa volta dalla parte di Palombara Sabina e del Monte Gennaro. A questo punto conviene passare sotto la torre civica, antica difesa delle mura (l'orologio funziona e la campana si sente bene per tutto il paese, una vera rarità in Italia), e fare il giro del Castello e del Borgo medioevale più antico. Da quì si ritrovano tutte le suggestioni e le caratteristiche del Medioevo, i vicoli strettissimi, le case collegate tra di loro da archi, le viuzze coperte e naturalmente, molte case vuote e spesso in decadenza; ma, del resto, come si fa a pretendere che rimangano abitate? Gli ambienti sono piccoli se non piccolissimi, i servizi igienici inesistenti, almeno dal punto di vista di oggi e, cosa di non poca importanza, muoversi senza mezzi è molto faticoso per le persone più anziane, nèsi può pretendere che rimangano sempre chiuse in casa! A tutto ciò si aggiunga che i costi delle ristrutturazioni sono sempre più elevati. Comunque, quà e là si notano i segni di una ripresa, indice che gli abitanti di S. Angelo Romano tendono a rivalutare le loro origini storiche e che l'amministrazione comunale non è troppo di impaccio a chi voglia accollarsi gli oneri di questo genere di lavori.
Subito a sinistra è la chiesa di Santa Maria e San Biagio, con l'ingresso al termine di una ripida e movimentata scalinata; nell'interno si trova un trittico di Antoniazzo Romano, il pittore che portò l"Umanesimo nel Lazio, rappresentante S. Maria tra S. Luigi Gonzaga e S. Biagio; forse ancora più importante è un quadro di Federigo Barocci, commissionato dal Principe Camillo Orsini nel 1552, la data, anteriore al periodo urbinate del pittore, è tale da permettere uno studio della sua formazione giovanile; una certa durezza dei tratti è probabilmente dovuta al restauro del 1741, che, data l'epoca, è da intendere come una ridipintura. Purtroppo i quadri messi sopra gli altari hanno sempre subito molti danni dalle fiamme e dal fumo delle candele che provocavano screpolature nel colore e lo annerivano. Andando avanti si giunge davanti all'ingresso del castello, del quale si percepisce immediatamente la mole e la struttura: quadrangolare, regolare, con quattro massicce torri ai lati. Passato un arco seicentesco si ha la sorpresa di trovarne un altro, rinascimentale in alcuni elementi, e ci si trova dinazi al portone principale. Guardando attraverso gli abbondanti buchi della serratura si vede chiaramente che praticamente nel cortile non passa mai nessuno, peccato, sarebbe interessante per i visitatori poter accedere all'interno, che conta sale affrescate e molte memorie delle passate glorie. Chi lo ha visto sostiene che il panorama che si gode dalle terrazze, rimerlate in tempi recenti, è a dir poco superbo. Compiuto un giro attorno al Castello si può tornare sulla Via Nazionale da dove si può prendere, a lato del ristorante Pennazza, la strada che gira sotto le antiche mura, bene identificabili anche se trasformate in abitazioni e ancora dotate di robuste torri a sezione quadrata.
Prima di andare via, o appena arrivati secondo i gusti, si deve poi fare una visita alla chiesa di S. Michele,protettore del paese, che è situata lungo la strada di accesso, prima del Belvedere. La chiesa è stata totalmente restaurata in questi ultimi tempi e il 4 maggio è stata riconsacrata. Il tetto è stato completamente riaggiustato, usando esclusivamente legno di castagno come era l'originale, e sono stati lasciati in vista gli archi in pietra delle navate, con un effetto molto bello. Da questi lavori risulta che l'edificio deve avere certamente vari secoli, ed è probabilmente contemporaneo al nucleo più antico del castello. I quattro capitelli venuti alla luce e che reggono la crociera dell'altare possono benissimo essere del XII o XIII secolo, e la continuità dell'uso dell'edificio è attestata dalle tracce di un affresco sopra l'arco trionfale che sono affiorate durante i lavori; sopra erano state date molte mani di vernice bianca nel corso dei secoli, ma la materia pittorica si è conservata e si possono ancora identificare alcune figure, tra cui quella di un papa. Da quello che si può vedere il secolo dovrebbe essere il XVI. Se il pontefice rappresentato fosse Innocenzo III sarebbe confermata la tradizione secondo la quale egli consacrò la chiesa durante il suo esilio a Montecelio, dopo essere fuggito da Roma. Le lampade appese sotto le arcate delle navate sono originali e datate, a coppie, 1849 le più vicine all'altare, 1781 le più lontane. Le più recenti portano inciso un nome, Giacomo Bergamini, ancora diffuso tra i Santangelesi, forse quello del donatore. Davanti alla chiesa un ara di epoca romana, su cui si riconoscono bene un offerente ed un sacredote, ma, nella tradizione popolare, quest'ultimo, che stende la mano verso il fuoco del sacrificio, è diventato Muzio Scevola.
Per finire è doveroso un ricordo di Federico Cesi, il grande scenziato umanista che quì si rifugiò per sfuggire alle pressioni del tribunale dell'inquisizione che sospettava dei suoi esperimenti e del suo museo di curiosità naturali ed è considerato uno dei fondatori della scienza moderna.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

SAN POLO DEI CAVALIERI
Due castelli si fronteggiavano sopra la valle dell'Aniene, uno sui monti Lucretili ed uno sui Tiburtini: San Polo (San Paolo) dei Cavalieri e Castel Madama; entrambi prima che il fiume passi presso la dominatrice della valle, Tivoli, e si apra alla Campagna Romana. San Polo è il più arroccato e il più distante dal fiume ma anche, probabilmente, il più difficilmente prendibile; tra l'altro sotto passava anche la strada che andava da Tivoli verso Palombara Sabina e la Valle del Tevere. L'origine del paese è connessa alla trasformazione dei fondi agricoli in entità militari per necessità di difesa e la testimonianza si ha dalla notizia più antica che possediamo: nell'anno 914, infatti, i Sampolesi, alleati a quelli di Vicovaro, sconfissero i Saraceni che si erano stanziati nella Valle dell'Aniene chiudendola al passaggio e costringendo i superstiti a fuggire in una località che ancora oggi si chiama Saracinesco.
L'importanza di San Polo fece sì che i Papi ne investissero, come feudatari, gli abati di San paolo fuori le Mura che contesero questo possesso ai Tiburtini, tanto più che i Re di Sicilia minacciavano, dagli Abruzzi, il Papato. Quando questo pericolo passò il Castello passò alle grandi famiglie romane, in particolare gli Orsini. Alcuni vecchi disegni mostrano solamente la parte fortificata delle costruzioni, ma è indubitabile che attorno, abbarbicate alla roccia, fossero presenti le casupole dei contadini e degli artigiani. Ancora oggi, salendo verso il Castello si può notare immediatamente il momento in cui si entra nell'antica cinta fortificata e si può girare per l'antico borgo, rimasto fondamentalmente intatto nel suo fascino medioevale, a parte, naturalmente, i fasci di cavi elettrici e le tubazioni del gas che ricordano sempre la nostra civiltà dei consumi; se fossero stati nascosti l'illusione in alcuni passaggi sarebbe perfetta, perchènon tentare un'operazione in fondo relativamente poco costosa? Molte case debbono risalire almeno al XII secolo con tracce di murature anche del IX.
Il castello attuale è proprietà privata ed apparentemente si conserva in ottimo stato; dell'interno non si è potuto vedere molto, ma è da supporre che sia conservato altrettanto bene che l'esterno. Nel complesso la sensazione che si riceve quando vi si arriva letteralmente sotto è impressionante. Una lapide ricorda subito che tra i più illustri feudatari è da annoverare Federico Cesi e fa riferimento al Centro Culturale (appunto) Federico Cesi che è stato proprietario del castello stesso per alcuni anni per volontà dell'architetto Brasini. Questi, negli anni cinquanta, dopo aver acquistato e restaurato dalle fondamenta l'immobile con ingenti lavori se ne privò poi in tale modo, non senza aver prima sostituito l'antica prigione, in cui si leggevano scritte secolari di poveri disgraziati condannati a morte, con una cappella alla Vergine. Per consolarsi della perdita si possono ammirare dei bei affreschi del '440 e del '500 nella vicina chiesa di San Nicola, una volta compresa entro le mura del borgo fortificato tanto che il companile era una volta una torre di difesa; una delle campane è addirittura del 1390. In uno di questi affreschi, il Battesimo di Gesù, è rappresentato un paese in lontananza, non potrebbe essere San Polo stesso?
Ci sarebbero molte altre cose interessanti e belle da vedere a San polo e un visitatore non faticherà certo a trovarle, purtroppo c'è anche una cosa che più che discutibile definiremmo decisamente brutta; infatti, sulla collina antistante il castello e su cui in tempi recenti il paese si è sviluppato, sono stati costruiti dui palazzi in cemento piuttosto grossi. Uno, un albergo, ancora ancora avrebbe potuto andare, anche se è troppo invadente rispetto al paesaggio, ma l'altro, enorme, in cima alla collina, grande quanto e forse più del castello e soprattutto visibile da grande distanza, ha rovinato tutto il fascino di questo antico paese. Se sembra esagerato questo punto di vista si pensi che se in ogni paese che si sporge sulla valle dell'Aniene si fosse agito così, ora il bel panorama che si deve godere dagli ultimi piani della costruzione sarebbe del tutto compromesso (o lo è già ?). Era ed è così bello il paese antico, perchèlasciarlo proprio in tempi in cui la tecnica permette di rendere vivibilissimi edifici storici senza doverli snaturare? Non si lamentino i Sanpolesi se da Roma vengono ad acquistare le case che loro stessi hanno abbandonato.
POVERO BORROMINI

Nella Cappella ricavata nella ex prigione furono trasferiti un altare umbro del '500 proveniente da Polino, un quadro di Gaetano Scipione, degli Angeli in marmo di scuola del Borromini provenienti dalla Basilica Lateranense, Cappella Massimi, oltre ad alcune statue del padre dell'architetto Brasini stesso. Portare via un altare dalla Chiesa di un paesino è già strano, per usare un eufemismo, ma degli angeli dal Laterano! Povero Borromini, viene da pensare, già a suo tempo il suo grande rivale, Bernini, si era dato tanto da fare per limitare il suo intervento nella Basilica Lateranense che c'era proprio bisogno anche di questo scippo, tanto più che egli fu il primo architetto che conservò le testimonianze del passato invece di distruggerle incorniciandole e valorizzandole, e proprio nel restauro di questa basilica. Cosa ci sia adesso nella cappella non sappiamo, visto che non si è avuta occasione di vederla, ma si spera che almeno sia rimasta intatta senza ulteriori interventi.
UN'ANTICA CONFRATERNITA
La chiesa più antica del paese però non è San Nicola ma Santa Lucia, vicinissima al castello e praticamente incassata tra antiche casupole medioevali; nel 1973 Antonio Felici, nel suo documentatissimo libro su San Polo la descrive abbandonata e in stato di completa rovina, noi l'abbiamo trovata in profondo restauro, ma con le volte e le strutture murarie fondamentali ancora perfettamente recuperabili, compreso l'altare barocco. Un'iscrizione, tornata ben visibile, documenta la totale ricostruzione della chiesa nel 1590 a spese della Confraternita dell'Immacolata Concezione; tutto lo stile della chiesa è conforme a questa data, ma le murature, ora ben visibili in alcuni tratti, confermano la tesi del Felici sull'esistenza già da vari secoli dell'edificio. È interessante notare che all'epoca il Dogma dell'Immacolata era ben lontano dall'essere accettato; esistevano due accesi partiti in proposito e il recente Concilio di Trento non aveva preso posizione, ribadendo che ognuno poteva pensare quello che voleva, caso assai raro nella storia della Chiesa. È chiaro che il Cardinale Federico Cesi, su questa specifica questione, era un "purista", se così si può dire. Questa iscrizione è, così, un piccolo tassello della grande storia della Chiesa oltre che, naturalmente, di San polo.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

SAN VITO ROMANO

Oggi la strada consigliata per San Vito Romano nelle guide è la Prenestina ma, per chi viene da Roma, è più conveniente prendere l'autostrada per l'Aquila ed uscire a Mandela, dopo Tivoli. Questo percorso ripete quello che storicamente era il più seguito; San Vito ha sempre dipeso religiosamente (ma non solo) da Subiaco o da Tivoli ignorando, anche economicamente, la vicina Ciociaria. Il grande storico tedesco Gregorovius racconta che un contadino locale, dopo aver descritto accuratamente parte del paesaggio avesse concluso il discorso con la frase sprezzante "...e li c'è la Ciociaria". Comunque sia, ancora nei primi decenni del secolo San Vito era un'interessante escursione per gli stranieri che si fermavano a Tivoli e oggi, per via dell'autostrada, si è tornati alla situazione più vecchia; fu quando si creò la provincia di Frosinone che furono levati da San Vito la Pretura e vari uffici circondariali che ne facevano un piccolo capoluogo.
Il paese ancora mantiene l'antica dignità : chi arriva imbocca subito una lunga strada dritta, corso Theodoli, che scende verso il castello omonimo e lungo la quale sono alcuni degli edifici più importanti, tra cui il municipio. Le case sono di varie epoche e, come è facile immaginare, le più antiche si trovano andando verso il centro. La strada fu fatta fare dal Cardinal Mario Theodoli e completata nel 1649, spianando il monte stesso, come spiega la lapide nella piazza dinanzi al castello. Finite le sanguinose lotte tra Orsini, Colonna (gli antichi feudatari) e Savelli sono molti i paesi del Lazio che cambiarono padrone e furono risistemati con criteri urbanistici moderni come quelli della Capitale; San Vito ne è uno degli esempi migliori.
Il Cardinale eresse anche una chiesa a San Biagio debellatore della peste. Questa chiesa è oggi di proprietà comunale come l'annesso convento di suore ed è assai singolare nella forma e nella decorazione: si tratta infatti di un ottagono non molto ampio ma alto, tutto decorato con statue di stucco in grandezza naturale, con le pareti dipinte in finto marmo ed un soffitto ligneo dipinto a colori assai vivaci. da questo ambiente si passa poi ad un'aula rettangolare, anche questa dipinta, ma in epoca moderna, con il soffitto azzurro con stelle dorate, il tutto all'insegna del più puro Trompe-l'oeil Barocco o Liberty. Purtroppo dei lavori di riparazione al tetto fatti senza precauzioni (ma almeno ci sono stati) hanno fatto gonfiare e smuovere le tavole del soffitto ligneo, la materia pittorica, comunque, è rimasta tutta e anche se la spesa del restauro sembra elevata a causa dell'altezza la bellezza della chiesa la giustificherebbe del tutto.
In fondo alla strada si vede lo sperone roccioso, trattenuto da un possente muro a spigolo, su cui sorge il castello che ancora oggi è proprietà dei Marchesi Theodoli e non aperto al pubblico; sappiamo che ci sono bellissime sale decorate da Vincenzo d'Onofri nella seconda metà del XVII secolo oltre a molti altri quadri antichi. Alle Belle Arti il castello risulta schedato (almeno apparentemente) solo all'esterno e non internamente il che, sinceramente, ci sembra quantomeno curioso. A destra del castello si scende nel vecchio borgo medioevale le cui origini si perdono nelle nebbie nel medioevo: le murature più antiche che si possono identificare sono almeno del XII secolo. Passata la porta ci si trova nella suggestiva Via delle Logge, coperta, come il nome stesso dice e che gira più o meno a semicerchio per la parte alta del borgo. A chi è curioso si consiglia senz'altro di prendere a destra e scendere sino a Via dell'Arringo, se non altro per vedere le aperture delle antiche botteghe medioevali con il loro bancone incorporato; un paio si sono conservate perfettamente. In fondo alla strada una piazzetta chiusa con qualche piccola attinenza era il ghetto, e che ce ne fosse uno significava che la comunità israelitica doveva essere abbastanza consistente; oggi, per fortuna, è solo un nome.
Prima di risalire si può passare a dare un'occhiata alla chiesa di San Biagio, tanto vicina alla roccia che la strada di latoci è scavata sotto. In sagrestia si può ammirare un bellissimo plastico della chiesa e del suo quartiere opera del parroco, una vera chicca per gli amanti del medioevo. Sotto la Piazza della chiesa, al posto di un'antico fontanile dei moderni Vespasiani con a lato due teste di marmo antiche, provenienti probabilmente da qualche tomba che oltre a testimoniare l'antichità dell'insediamento guardano gli utenti dell'impianto igienico, nel caso si sentissero soli, ovviamente! Forse se fossero trasportate in municipio non sarebbe male, il luogo è più dignitoso e la spesa per l'operazione praticamente nulla.
Tornati al castello dalla parte opposta ci si trova di fronte più a un palazzo che ad un edificio militare, dinanzi all'ingresso è la chiesa di Santa Maria de Arce, con una bella pala del Maratta, che le cronache ci mostrano in perenne lite con quella di San Biagio per questioni di precedenza nelle processioni, nel suono delle campane e simili. Questa litigiosità tra le due parrocchie del paese riflette l'astio storico tra il quartiere nuovo sorto lungo via Theodoli ed il vecchio borgo medioevale. Lungo la nuova strada, larga, diritta e senza scale si stabilirono i nuovi arrivati al seguito del Cardinale ed i più abbienti dei vecchi abitanti, determinando così, tra i due quartieri, 'ammonte e 'abballe (a monte e a valle), una sorta di rivalità di classe; su tutti, naturalmente, i Theodoli. In tempi più recenti un'importanza particolare ha avuto la famiglia Baccelli, possessori di un bel palazzo nella piazza e di ben cinque ville, tra i quali hanno acquistato fama Guido, vissuto nel secolo scorso ed ancora ricordato per aver istituito la Festa degli Alberi nelle scuole e come fondatore del Policlinico a Roma ed il figlio Alfredo, altrettanto fortunato in politica ma meno apprezzato come poeta e romanziere. I Baccelli ricevevano ed ospitavano a San Vito un gran numero di amici, facendo della loro casa un autentico ritrovo di intellettuali; in quell'epoca nel paese funzionavano ben tre alberghi, e di uno di questi si può vedere ancora l'insegna in corso Theodoli, anche in questo caso un piccolo restauro non sarebbe male a ricordo di questo singolare passato della comunità . Un'ultima parola piace spenderla per la fontana di fronte a questo palazzo, con una bella Ninfa discinta che certamente ha costituito un punto di riferimento per qualche generazione di adolescenti sanvitesi; in altri tempi era una funzione dell'Arte anche far vedere come era fatta una donna a, anche se certe cose, allora come oggi, si imparano presto da se!
DETTI SANVITESI
Una volta a San Vito non si usavano superlativi e così, per dare forza a una frase, la saggezza popolare ha creato una serie di modi di dire a metà tra il proverbio e la battuta, ne riportiamo qualcuno lasciando agli interessati il piacere di andare a sentire come suonano in una bocca del posto. Il dialetto sanvitese è del tutto autonomo rispetto sia a quello romanesco che a quello ciociaro, a conferma dell'autonomia culturale, oltre che amministrativa, di cui godeva una volta la zona; la sensazione che si ha sentirlo parlare è che sia meno volgare di quello romano e più corretto del ciociaro, con un effetto globalmente molto simpatico.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

STAZZANO

Una gita Stazzano, un paesino nel Comune di Palombara Sabina sulla strada di Moricone è di quelle che riservano non poche sorprese. L'abitato apparentememnte non ha nulla di interessante e di artistico, ma chi avesse la pazienza di inoltrarsi per cinque minuti dalla provinciale scoprirebbe un'isolita disposizione delle strade, regolarissima: una serie di sette trasversali partono, tutte dallo stesso lato, rispetto ad un'unica strada, con una disposizione a pettine e case tutte della stessa altezza, di due piani, tutte dell'inizio secolo. Due di queste trasversali danno su di un'amplissima piazza, chiusa da un lato dalla facciata della chiesa, veramente capace di accogliere con comodo molte più persone dei tre o quattrocento abitanti del paese. Un piano urbanistico semplice ma curato, che aveva tenuto conto delle esigenze di una vita comunitaria che non poteva perdere, per ricostituirsi dopo il disastro, la propria identità sociale; altrimenti si sarebbero potuti risparmiare molti quattrini senza fare le cose con tanta abbondanza di spazio.
Dato che Stazzano esiste da molti secoli nelle cronache la spiegazione è nel fatto che l'abitato attuale fu ricostruito totalmente, spostandolo, dopo il terremoto del 1901. Il primo ricordo di questo passato si trova entrando nella chiesa, qui troviamo, ai muri, una serie di affreschi quattrocenteschi provenienti dall'abside dell'antica Chiesa di San Giovanni Battista, che sorgeva accanto al cimitero del paese vecchio e vicino all'ingresso laterale un pezzo del portale scolpito forse con la figura di un leone, forse il simbolo di San Marco. Si tratta di composizioni ispirate alla scuola umbroùmarchigiana dell'epoca ma in uno stile che recupera molti elementi popolareschi romani dei secoli precedenti, come se si trattasse di qualcche pittore che avesse cercato di aggiornarsi ma senza comprendere il valore nel campo della comunicazione delle tecniche che usava. Prospettiva e disegno servono per inquadrare nello spazio e nel tempo l'avvenimento, con spirito di aderenza alla realtà (la natura si diceva allora), mentre in questo caso gli eventi sono visti ancora con uno spiccato senso del miracolo, senza badare troppo alla somiglianza al vero; gli affreschi mantengono, così, una spiccata atmosfera di ingenuità e il sentimento di una fede che chiede poco di essere dimostrata e molto di essere vissuta. Per gli abitanti di una piccola comunità periferica poteva essere altrimenti? Intendiamoci bene, sono sempre la testimonianza di una modernità culturale che i signori del territorio, i Savelli, portavano con se da Roma, e gli affreschi raffaelleschi di Palombara ne sono la testimonianza.
Dopo aver visto questo piccolo tesoro culturale è naturale che venga la curiosità di visitarne il luogo di provenienza. E` indispensabile, percio, uscire dall'abitato in direzione di Moricone ed imboccare una strada non asfaltata subito dopo un ponte e una curva; comunque è sempre consigliabile chiedere a qualcuno per evitare di girare troppo a vuoto. Dopo un paio di chilometri si comicia a vedere la torre di un castello e si arriva all'antico abitato distrutto dal terremoto, ancora nelle condizioni in cui fu lasciato quasi cento anni fa. Il castello domina tutto, con i poderosi muri spaccati dal sisma e parzialmente franati ed il mastio semidiroccato ma ancora abbastanza alto da mantenere un aspetto minaccioso. Conviene scendere dalla macchina e fare una breve passeggiata a piedi. Una casa col diroccata può testimoniare dell'epoca in cui avvenne il disastro, dato che il tetto, di legno, è crollato, mentre il solaio del primo piano, rinforzato con travi di ferro come alcune finestre aveva resistito. L'uso delle travature in ferro è tipico della seconda metà del secolo scorso per rinforzare le case e fare quei piccoli balconi che sono ormai caratteristici di molti paesini della zona. Il materiale costava di più, ma non aveva bisogno di essere cambiato come il legno; il costo della manodopera era lo stesso, la convenienza di gran lunga maggiore. Non si capisce perch‚ molti funzionari delle sopraintendenze, in occasione di lavori di consolidamento, obblighino a tornare al legno visto che quest'uso delle travature in acciaio ha ormai sicuramente un valore storico.
Il paese vero è proprio si trova dall'altra parte del Castello e, forse, chiamarlo paese è un po' troppo. Si tratta di poche costruzioni, disposte lungo due stradine che partono perpendicolari all'ingresso del maniero. I tetti crollarono tutti, gli scantinati no, dato che si tratta di grotte scavate nel tufo. Bisogna fare molta attenzione perché‚ per accedere a queste cantine sono stati scavate delle buche proprio sulla via, probabilmente dai primi soccorritori, ed è facile caderci dentro vista la vegetazione che copre ormai tutto. Nessuna traccia di luce elettrica, che evidentemente ancora non erano arrivata, così come ci sono poche tracce di luoghi comodi... ma la campagna era tanto vicina! Il numero degli abitanti non va valutato con criteri odierni, sia perch‚ i figli nelle famiglie contadine era sempre numeroso, sia perch‚ la gente viveva molto più ammassata di oggi, vivendo nell'unico stanzone centrale e dormendo nei sottotetti. Tutto quello che poteva essere utile è stato portato via successivamente, ma ancora si sente la vita che si tronco all'improvviso ed il dolore della disgrazia, una sensazione ben diversa da quella, affettuosa e nostalgica, che viene dai luoghi abbandonati nei secoli passati e morti, per così dire, di morte naturale.
Il castello sarebbe recuperabile; non c'è un palazzo centrale sorto attorno al mastio, ma questo è sufficentemente grande e massiccio da costituire, ancora oggi, una comoda abitazione. L'attuale proprietario, intanto ha avuto la buona idea di fermarne il degrado con una impalcatura interna, speriamo in un buon restauro senza troppi intoppi burocratici. I crolli del terremoto mostrano chiaramente che le antiche murature furono rifoderate nel quattrocento, sicuramente al tempo delle lotte tra Savelli ed Orsini, epoca in cui furono rifatte probabilmente le finestre; anche la torre circolare d'angolo che dominava la pianura fu rifoderata, probabilmente per fermarne il degrado, ma in questo caso le murature esterne sembrano essere del XIII secolo e quelle interne dell'VIII o del IX, per cui risulterebbe che la costruzione più antica ed originaria sarebbe proprio questa, mentre all'XII o XIII secolo risalirebbero i lavori che avrebbero dato al complesso la forma attuale. Naturalmente questa è solo un'ipotesi tutta da dimostrare e, soprattutto, da verificare su qualche documento. Un'ultima osservazione va fatta a proposito del muro di cinta, che non è crollato dove si era stato evidentemente restaurato da poco, come testimonia anche l'uso di cemento industriale, segno certo che l'abitato era vivo e gli abitanti poco intenzionati a lasciarlo volontariamente.
Tornando indietro si potrà fare maggiore attenzione ai resti della chiesa di San Giovanni Battista che facilmente sfuggono la prima volta, dato che sono fuori della strada in un campo chiuso; comunque tutto quello c'era di meritevole, come abbiamo visto, è nella chiesa nuova.
Ancora una volta si ha la testimonianza che anche i centri più piccoli portano con se storia e tradizioni che assolutamente vanno salvaguardate e sorprese, per chi ami l'Arte e la Storia, che vale la pena di scoprire, un fatto che sembra essere entrato prima nella coscienza comune che in quella dei nostri amministratori.

 

/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

TORRITA TIBERINA

UN FEUDO CONTESO

Chi da Roma abbia cominciato a seguire la strada provinciale Civitellese dopo Civitella San Paolo e Nazzano, paesi di cui si è già parlato negli scorsi numeri, incontrerà , dopo poco tempo d'auto, Torrita Tiberina. Il rapporto tra il paese e il Fiume Tevere non si limita al solo nome e oggi Torrita ha l'impegno e la responsabilità gestionale della riserva naturale "Tevere - Farfa"; tuttavia quando l'abitato fu fondato, almeno nella sua forma attuale, non era certo la cura e la tutela della fauna del fiume il problema di cui si dovesse preoccupare, le sue munite torri dovevano difendere, per conto degli abati di Farfa, il passaggio del Tevere e la strada che dall'abbazia portava alla Flaminia. Veramente le notizie più antiche fanno riferimento a Sant'Andrea in Flumine, ma in tale epoca più che di un paese si trattava probabilmente di una semplice torre di segnalazione, da cui, per successivi ampliamenti, ebbe origine prima il castello e poi tutto il borgo.
Più curioso è lo studio delle vicende posteriori, dato che spesso il feudo cambiò di assegnatario: i Savelli, gli Orsini, i Melchiorri, i Massimo e i Torlonia. Ognuna di queste signorie lasciò tracce in ampliamenti e ristrutturazioni del castello che a partire dalla fine del '500 si trasformò in un vero palazzo. Vicende simili si possono ritrovare in numerosi paesi del Lazio: benchè il paese fosse, giuridicamente, un feudo dell'abbazia di Farfa, di diritto imperiale e quindi teoricamente non assegnabile dal Papa ad alcuno, accadde che i romani Pontefici ne disponessero come di cosa loro, spesso più per fare gli interessi della propria famiglia che quelli della Santa Sede. Così fece anche Onorio IV, Giacomo Savelli, che assegnò i territori di Torrita al parenti. Certo, nell'atto, certamente illegittimo, confluivano due motivazioni: fare un dispetto all'"imperiale" abbazia di Farfa e procurare al fratello una roccaforte contro le altre famiglie romane. Ai Savelli è dovuta la costruzione della cinta muraria e di due torri a difesa dell'abitato, che vide, così, accentuata la sua potenzialità difensiva. Nel Quattrocento cominciò quella trasformazione della Torre più antica in palazzo che nel secolo seguente il marchese Melchiorri portò a compimento.
Appena si arriva all'altezza del paese, lo spettacolo che si offre al visitatore è assai suggestivo: due torri cilindriche inquadrano l'ingresso e la residenza baronale che da questo punto di vista, per la verità , ha più del Castello che Palazzo; quella di destra, la più vicina alla porta, è particolarmente imponente e ancora domina, con la sua altezza, il panorama. Non è difficile intuire che per molto tempo l'entrata dovette essere difesa da un solido ponte levatoio, in seguito sostituito da un terrapieno. Scendendo alla strada che a sinistra costeggia il borgo più antico si può avere un'idea di quanto fosse munita la fortezza da un punto di vista militare e quanto fosse alto e ripido lo sperone roccioso, per di più fortificato, su cui era costruita. Da fuori, stando un poco distanti, si possono vedere i merli della torre attorno alla quale si è sviluppato questo castello.
Entrando si entra in un pezzetto di medioevo e in quella particolare atmosfera che tanto è difficile da descriversi quanto nettamente percepibile quando ci si trova. Si sente quel diverso scorrere che doveva avere una volta la vita tra quelle stradine, con le case così addossate e interconnesse tra di loro da far sembrare tutto un intero paese come una sola costruzione (e in questo caso è praticamente così), e pure così ben identificabili nella loro particolarità da rispecchiare talvolta la personalità di chi le abbia abitate. Dopo pochi passi, a sinistra, c'è la piazzetta che si apre davanti all'ingresso di quello che ora si presenta con più certezza come un palazzo, dietro il portone il cortile interno, su cui si eleva, su possenti arcate, l'antica torre.
Proseguendo si arriva alla chiesa di San Tommaso Apostolo, l'antica cappella del castello che si fa risalire al XII secolo. Per la verità la prima impressione non è delle più favorevoli, la facciata, tutta bianca di travertino, è sembra troppo moderna e nuova per adattarsi all'atmosfera medioevale del paese, una più attenta indagine, tuttavia, può far certi che si tratta solo di un'apparenza perchèle linee originarie sono state certamente rispettate; l'elemento che provoca una sensazione strana è solamente il colore della facciata, troppo brillante e luminoso tra i colori bruni e terrei delle antichissime case. Rimediare, ammesso che lo si debba fare, è assai facile (costi a parte) e consisterebbe nel riportare a intonaco la muratura; naturalmente, prima di parlare bisognerebbe sapere in quale stato si fosse ridotta la chiesa precedentemente e quanti problemi di manutenzione desse ai poveri parroci.
Entrando, subito a sinistra, si può vedere come l'attuale facciata, un poco militaresca, non sia altro che il rinforzo di una precedente, tanto che nello spessore tra le due si è ricavata una cappella; danni forse dovuti a qualche terremoto hanno costretto in tempi passati a questo costoso restauro. Il secolo più probabile è il Cinquecento, dato che in quest'epoca sono stati anche fatti la maggior parte dei quadri e degli affreschi della chiesa, nonchèla volta in muratura e il rinforzo delle pareti. Veramente, di affreschi se ne trova uno solo, con una presentazione di Gesù al Tempio molto scolorita, ma in cui si distingue ancora quello stile rinascimentale un po' popolaresco, nel senso migliore del senso, e un po' dotto che iniziò Antoniazzo Romano nel '400 e che diffuse nel Lazio i portati dell'umanesimo. Questo modo di dipingere, abbastanza vicino al sentire tradizionale delle campagne, rimase a lungo nei pittori che non operavano a Roma. Almeno i buchi dei chiodi fatti per allestire il presepe avrebbero bisogno di un poco di cure.
I quadri ad olio alle pareti sono stati probabilmente, anzi, certamente prodotti altrove, e poi portati, donati o comperati, nel paese. È interessantissimo, tra questi, quello rappresentante una Madonna con Bambino tra San Giovanni Battista e un Evangelista, cinquecentesco a quel che sembra, in cui il paesaggio dello sfondo è costituito proprio da una veduta di Torrita Tiberina, vista dalla parte del Tevere, verso il quale il pendio è meno ripido e lo sperone roccioso si allarga. Un poco di restauro permetterebbe di esaminare il dipinto con l'attenzione necessaria per un documento tanto importante. Il fatto che in questa scena sia rappresentato il paese contraddice a quanto è stato appena affermato, che, cioè, i quadri fossero stati tutti composti altrove, ma bisogna intendersi: la norma era che gli artisti lavorassero nel loro studio, con comodo ed eventualmente rispettando le misure date, e poi spedissero il lavoro a destinazione; in questo caso, essendo riprodotto il paese stesso, è chiaro che il pittore deve aver lavorato sul luogo o almeno abbia fatto un accurato disegno del posto e poi lo abbia utilizzato per il quadro.
Tra le altre tele è un San Tommaso dei primi del Seicento (1614) che, attraverso una serie di scarti prospettici diversi tra una parte e l'altra del corpo, sembra sempre volto verso chi guarda che ha sempre un "pezzo" del Santo rivolto verso di se, secondo un espediente allora molto usato; belle anche una madonna con bambino di scuola del Maratta del '700 e un'Adorazione dei Magi del XVI secolo di scuola umbra. Quest'ultima è quella che più avrebbe bisogno di restauri, dato che la materia pittorica tende a staccarsi dalla tela. Tutti i quadri, poi avrebbero bisogno di una buona pulizia; secoli di fumo di candele hanno lasciato il segno! Purtroppo non basterà certo la buona volontà o una sottoscrizione per rimediare, visto che poi ci si dovrà scontrare con il ferreo meccanismo burocratico del Ministero dei Beni Culturali. In questi casi ci vorrebbe più elasticità e gli enti locali dovrebbero essere lasciati agire con un minimo di autonomia, visto che non si capisce perchè la competenza di un architetto o di uno storico dell'arte della provincia o di un comune debba essere considerata inferiore a quella dei funzionari ministeriali che delle realtà e tradizioni locali sono spesso completamente al di fuori.
Interessante anche la Chiesa di Santa Maria del Monte, dove si trova un'affresco raffigurante San Sebastiano del XIII secolo e una campana donata da San Carlo Borromeo, e da un punto di visto storico sarebbe interessante sapere perché. Questa era la chiesa del borgo, mentre l'altra, come abbiamo già detto, lo era del castello.
Girando tra i vicoli si può ritrovare l'antica porta verso valle ed è facile vedere tutte le tracce che attestano, attraverso le diverse murature e sovrapposizioni murarie tutte el vicende storiche del paese. Non importa sapere esattamente quali, ma dà sempre una certa emozione vedere ancora abitata una casa i cui muri maestri, costruiti con pietre irregolari unite da calce povera, risalgono all'ottavo secolo.
Girando girando...da assaggiare assolutamente i frascarelli, di polenta farina e uova, al sugo e le fettuccine agli asparagi di bosco.
Numerose le occasioni di feste e sagre tra cui particolarmente simpatica per il turista è l'infiorata del Corpus Domini. Vanno ricordate anche la Processione del Venerdì Santo e le feste di San Rocco il 16 agosto, di San Tommaso il 21 dicembre e di S. Antonio abate, oltre alla Pasquarella, simpatica tradizione durante la quale gruppi di ragazzi vanno in visita alle famiglie. Ad agosto, poi, in paese si organizzano sempre manifestazioni di vario genere.
Si capisce, così, facilmente come Aldo Moro, il cui ricordo si è voluto lasciare in fondo a questa breve panoramica, abbia amato tanto Torrita Tiberina.
/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/\/

VICOVARO
Umberto Milizia
Addossata ai Lucretili ed incombente sulla valle dell'Aniene Vicovaro sembra che ancora oggi presidi il passaggio sulla via Valeria; questa, è bene ricordarlo, poco oltre si dirama nella via Licinese che va a congiungersi, a sua volta, alla via Salaria. Era un nodo di strade essenziale per le comunicazioni tra Roma ed il resto d'Italia. La storia di questo paese, perciò, è ricca di avvenimenti, assedi, conquiste e... compravendite, visto che nel Medioevo e nei primi secoli dell'età moderna i diritti feudali si compravano e si cedevano come un bene fruttifero qualsiasi.
Già nell'antichità i Romani, anzi, per essere esatti, i Latini, avevano dovuto faticare non poco per avere ragione di questa città fortificata e delle sue due cerchia di mura, e quando ci riuscirono per gli Equi fu l'inizio della fine; non pare, tuttavia, che l'antica Varia subisse danni irrimediabili. Il periodo meno felice venne dopo, quando i Longobardi tentarono più volte di scendere su Roma dall'Abruzzo e la presero due volte. L'abitato dovette praticamente spopolarsi tanto da essere degradato da Civitas a Vicus, villaggio, e da Vicus-Variae viene il nome attuale.
I papi, dal IX all'XI secolo cercarono di ripopolare ed eventualmente fortificare prima i paesi che possedevano lungo la via Flaminia e fino a Tivoli, il cui possesso era stato riconosciuto loro dagli imperatori carolingi a cominciare da Carlo Magno. Forse per questo (è un'ipotesi) di Vicovaro si ricomincia a parlare un poco dopo, dal XII secolo.
La struttura di Vicovaro mantiene tuttora il suo carattere militare e già avvicinandosi, dal basso, si vedono i bastioni della cinta muraria e del castello; all'ingresso dell'abitato una fila di possenti massi squadrati ci fa capire che buona parte della cerchia muraria medioevale coincide ancora con quella antica degli Equi. Salendo verso il centro si può notare, a sinistra un gruppo molto compatto di costruzioni, delimitato da torri quadrate, che si protende verso la valle. In tempi più recenti (si fa per dire, visto che la storia di questi centri è plurimillenaria), solo qualche secolo fa, si trattava forse di un convento, ma la forma di castello è ancora ben identificabile malgrado le finestre e i balconi aggiunti successivamente. Forse era quÏ il nucleo difensivo prima che gli Orsini restaurassero l'attuale castello, per ora ne deduciamo solo che rapire una monaca, diffuso sport medioevale secondo i romanzieri dell'800, non doveva essere facile, e tanto ci basta.
Salendo ancora viene, per chi non conosca già il paese, la sorpresa: una stupenda chiesa goticheggiante, ricca e decorata come la cattedrale di una grande città si presenta improvvisamente agli occhi del visitatore. Si tratta del tempietto di San Giacomo, ottagonale, con forti pilastri tra un lato e l'altro che gli conferiscono un ritmo estremamente equilibrato tanto che la forma di tutta la chiesa si recepisce da subito nella sua proporzione che la rende, in un certo senso, autonoma dalla struttura urbana. Una seconda sorpresa viene, poi, quando ci si trova di fronte all'ingresso, che per ricchezza e qualità della decorazione regge benissimo il confronto con le migliori chiese romane dell'epoca. Abbiamo parlato di gotico, ma non è errato notare che l'equilibrio generale, il senso dello spazio, la proporzionalità sono certamente umanistiche. I due autori che sono intervenuti sull'opera attestano questo passaggio. Il primo è Domenico da Capodistria, che morÏ proprio a Vicovaro, il secondo è Giovanni Dalmata, che terminò la parte superiore dopo la morte, avvenuta proprio a Vicovaro, di Domenico. Il passaggio tra il Gotico, ancora imperante in europa, e l'Umanesimo delle avanguardie fiorentine è quÏ attestato dal susseguirsi di due maestri che hanno operato in tutte le regioni che si affacciano sull'Adriatico, specie in Puglia e nelle Marche, e che finirono al servizio degli Orsini nel Lazio, agendo in un ambito culturale che già allora era unificato dal Nord al Sud. Non siamo stati tanto bravi da identificare tutti i santi rappresentati, ma è stato facile vedere che sopra il portale degli angeli presentano alla Vergine due membri della famiglia Orsini.
Davanti al vero ingresso della parrocchiale San Pietro, a lato della Piazza, si trovano i resti del palazzo Orsini, avanzi delle antiche mura e due torri del castello incorporate nel palazzo Cenci-Bolognetti. Un poco di lato una fontana ricavata da un bel sarcofago funerario romano e un obelisco cui è stata levata la lapide dedicatoria ma che è ornato da quattro pregevoli mascheroni di bronzo. Vicino a questo si entra nell'antico borgo dove, più oltre, è un palazzo con portale e finestre quattrocentesche al piano terreno e graziosamente rococò al piano superiore; accanto al portale si trovano due consunti mascheroni di pietra provenienti da una fontana, uno dei quali è molto simile a quelli dell'obelisco e probabilmente ne è il modello. Potrebbero provenire sia da una fontana romana che da una rinascimentale ma, sinceramente, propendiamo per la prima ipotesi, visto che a Vicovaro non abbiamo trovato tracce di fontanoni abbastanza imponenti e che non sarebbero stati conservati con tanta cura se quando fu ristrutturato il palazzo in cui si trovano fossero stati "moderni"; tra l'altro la parte superiore della cornice di una delle finestre è stata ricavata da una iscrizione romana che parla di un certo LUCAS AEGIPTIUS, certo un Vicovarese che si coprÏ di gloria in quella lontana provincia dell'impero.
Tutta Vicovaro, per altro è ricca di portali e finestre rinascimentali, in genere quattrocentesche e di case e palazzetti che mostrano di essere stati ristrutturati in quell'epoca, modificando l'originario aspetto medioevale del paese, l'insieme è unico nel Lazio. Evidentemente gli Orsini avevano quÏ una specie di piccola capitale dei loro domini nella zona e, comunque, doveva esserci una certa prosperità generale, facilmente spiegabile con la posizione del paese sulla Valeria, strada di grande importanza strategica ma anche, e soprattutto, commerciale. Sono anche da notare le immagini sacre sulle facciate delle case, alcune riccamente ornate da belle cornici, tutte di buona qualità e che offrono una piccola antologia di stili dal '300 al '700, una particolarmente bella, è vicino alla porta superiore. Dietro il castello si estende la Vicovaro moderna che tende forse ad invadere un po' troppo il monte retrostante; il trasferimento di buona parte della popolazione in questi palazzi moderni spiega l'abbandono, forse eccessivo, del centro storico che potrebbe essere valorizzato certamente di più . Per finire, prima di lasciare Vicovaro è obbligatoria una sosta sotto il paese, sulla Valeria, per visitare la chiesa si Sant'Antonio che offre una varietà di stili tutti tra loro conviventi ed ha sulla facciata (era questo l'antico percorso della Valeria) una serie di imponenti colonne romane. Vicino, i resti della cerchia più esterna di Varia ci rivelano che gli equi avevano sbarrato la strada stessa e ci danno un'idea dell'estensione notevole della loro città .
UNA PIAZZA
Davanti all'ingresso di San Giacomo si apre una piazza ampia e regolare che, quasi vuota ed assolata, al momento della nostra visita dava un senso di pace e di tranquillità ormai raro nelle nostre città . Di fronte all'ingresso di San Giacomo si erge la scenografica facciata della parrocchiale dedicata a San Pietro che con la sua imponenza si "impone", appunto, come il vero centro della vita religiosa popolare del paese in contrapposizione all'aristocratica preziosità del Tempietto, poco importa se l'ingresso reale è da un altra parte, sulla piazzetta laterale. Non si può affermare che questa interpretazione sia corretta e, soprattutto, che l'autore, il Theodoli, ne fosse del tutto cosciente, ma è certo che nel 1755 si affermavano a Roma le prime teorie del neoclassicismo che volevano gli edifici pubblici progettati in modo da manifestare, anzitutto, la loro funzione sociale e culturale; anche l'interno, che nella sua semplicità è uno dei più belli del momento, sembra confermare queste osservazioni. Per noi chiesa e piazza sono ancora una lezione su come andrebbero concepiti i rapporti e la vita comunitari.